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Dall’Istat arriva finalmente una buona notizia sul fronte che più preoccupa gli italiani: il lavoro. In aprile c’è stato un incremento di quasi centosessantamila occupati, principalmente nei servizi. Dall’analisi dei dati emergono alcune tendenze interessanti, che sembrano smentire previsioni e credenze diffuse fra esperti e opinione pubblica.

Quando arriverà la ripresa – abbiamo spesso sentito dire – i suoi frutti in termini di occupazione si vedranno solo molti mesi dopo. Sembra che stia avvenendo il contrario: il PIL sta crescendo (+0,3% nel primo trimestre di quest’anno) e aumentano anche i posti di lavoro. E’ presto per cantar vittoria, ma se continuasse così eviteremmo l’incubo della jobless growth, ossia quella crescita senza occupazione che è stata la malattia europea (e italiana in particolare) negli anni Novanta.

Un fenomeno simile si sta verificando nel rapporto fra occupazione giovanile e regole sul pensionamento. Tanti italiani pensano che, se gli anziani sono costretti ad andare in pensione più tardi, i giovani avranno meno opportunità di trovare lavoro. L’Istat segnala che non è necessariamente così. Ciò che si registra è una diminuzione della disoccupazione fra chi ha meno di 25 anni (-1,3% in aprile, -1,6% su base annua) e al tempo stesso un maggior numero di ultracinquantacinquenni che continuano a lavorare (+ 0,4% nell’ultimo trimestre). Si tratta di una dinamica virtuosa, che va approfondita bene prima di introdurre eventuali modifiche dell’età pensionabile.

La terza smentita ha a che fare con gli effetti delle politiche introdotte nell’ultimo anno. Qui l’aspettativa era che i loro effetti avrebbero riguardato i tipi di contratto (più stabili) ma non la quantità di posti di lavoro. L’Istat conferma invece un impatto positivo su entrambi i fronti. Da gennaio in poi, e soprattutto nel mese di aprile, abbiamo avuto più occupati in assoluto e, fra questi, più contratti a tempo indeterminato (incentivati dall’abbattimento dei contributi) oppure a termine (a seguito della maggiore flessibilità introdotta un anno fa).

Tutto rose e fiori, dunque? L’Istat tratteggia l’immagine di un mercato del lavoro più dinamico di quanto percepiamo. La spiegazione forse si nasconde in una estesa e persistente zona d’ombra: l’industria. Qui i dati sono piuttosto negativi: – 0,9% occupati rispetto a un anno fa. All’interno del settore sono inoltre molto numerosi i contratti a termine e il part time involontario. Insomma, le aziende non sono ancora tornate ad assumere seriamente, come facevano prima della crisi. Può darsi che ciò sia dovuto al riassorbimento dei cassintegrati, oppure alle persistenti fragilità dell’economia internazionale. Il dato Istat può essere anche il sintomo di una sofferenza reale delle imprese o di strategie di disimpegno verso le proprie risorse umane (flessibilità numerica senza investimenti in di lungo periodo, a cominciare dalla formazione). Oppure ancora di comportamenti “mordi e fuggi” da parte di investitori stranieri (il caso Whirlpool insegna).

I sindacati chiedono politiche industriali, gli imprenditori meno tasse e contributi. Forse ciò che serve è innanzitutto una riflessione seria sul lavoro nell’industria e il suo futuro. In un paese con la nostra tradizione manifatturiera, sarebbe un delitto non investire collettivamente nell’occupazione “blu”. Non quella degli operai in tuta alla catena di montaggio, ovviamente, ma quella a media e alta specializzazione, all’interno di tecno-fabbriche capaci di muoversi con successo nell’economia globale.


Questo articolo è comparso anche sul Corriere della Sera del 4 giugno 2015