3 ' di lettura
Salva pagina in PDF

La giornata internazionale delle donne mantiene, al di là della consuetudine sociale, una rilevanza politica e culturale da proteggere e promuovere nelle nostre istituzioni. Nata per richiedere il diritto di voto femminile e diffusasi dagli Stati Uniti nel mondo attraverso la rete dei partiti socialisti del primo Novecento, questa ricorrenza assume ancora oggi, una valenza profondamente politica, radicandosi in valori di giustizia, uguaglianza e libertà, contro l’offuscamento della memoria e delle identità collettive.

Nel tentativo di dare risposta a tali istanze si fanno avanti i movimenti di protesta contro le discriminazioni di genere, come quello di “Ni Una Menos” che, nato in Argentina nel 2015 da un collettivo di artisti, giornalisti ed accademici, si è imposto come alleanza continentale per i diritti femminili. La recente campagna di #metoo, iniziata nell’ottobre 2017 a partire dal caso Weinstein negli USA e diffusasi rapidamente e ampiamente a livello globale, è poi riuscita a mettere in luce una serie di gravi condotte e reati a sfondo sessuale, in particolare nell’ambito del cinema e della moda.

Il rischio, al di là delle doverose censure legali o morali, è che questa campagna con suoi sempre più numerosi spin-off, fatichi a evidenziare ciò che avviene al di sotto della punta dell’iceberg, rappresentata dal mondo dello spettacolo: ovvero la violenza strutturale, anche di genere, che permea la società nella sua interezza.

Se la violenza di genere è stata tra i principali temi di dibattito a livello mondiale nel 2017, questa importante spinta mediatica non può e non deve ridursi a un trending topic sui social media, bensì dovrebbe richiamare qualcosa di più profondo. Per superare quella patina di glamour che spesso ha avvolto la discussione su alcuni canali di comunicazione, credo che la riflessione debba entrare maggiormente nella vita delle persone e della società. Occorre quindi che una prospettiva diversa entri nell’analisi della società contemporanea, guardando alle relazioni tra idee, persone e organizzazioni. Questa prospettiva ci può essere fornita dall’analisi di genere.

Come coordinatore dell’area di valutazione di Human Foundation, da tempo ho introdotto, insieme alla collaborazione delle colleghe e dei colleghi, l’approccio di genere nelle valutazioni di impatto sociale, ritenendo che una società più giusta ed equa passi anche dall’uguaglianza delle prospettive tra generi. Seppur ad oggi non sembra esserci una chiara domanda per l’applicazione di approcci di genere, abbiamo creduto che questo fosse un aspetto fondamentale per comprendere come gli interventi, sia nelle relazioni di mercato che nelle relazioni di reciprocità, possano creare effetti diversi rispetto al genere. Non prendere in considerazione questo aspetto implicherebbe, a mio avviso, un errore di strategia per chi lotta contro le ingiustizie, basato sull’ingenua convinzione che gli interventi possano essere neutrali rispetto alle discriminazioni.

Al momento di realizzare una valutazione possiamo quindi adottare diverse soluzioni per integrare la prospettiva di genere. La prima, semplice e poco onerosa, è quella di differenziare sempre gli indicatori per genere. Questo accorgimento, fatto a inizio progetto, consentirà di capire ex-post per chi funziona meglio un intervento. Ma ciò non può bastare, perché non ci possiamo accontentare di conoscere se un ragazzo o una ragazza abbia sviluppato con maggiore profondità una competenza. Dobbiamo, infatti, interrogarci sulla rilevanza stessa delle attività proposte e, soprattutto, degli effetti attesi a seconda del genere della persona. In questo senso le teorie del cambiamento che sviluppiamo al momento di realizzare una valutazione devono tenere conto delle differenze tra generi in termini di condizioni, obiettivi e interessi. Attraverso questo tipo di analisi possiamo evidenziare, per esempio, che un obiettivo assuma rilevanza diversa a seconda del genere, della classe sociale o dell’etnia, oppure che la definizione di obiettivi uguali per tutti può reiterare e perpetrare discriminazioni profonde. O ancora possiamo riscontrare che il contesto in cui un intervento è realizzato può limitare l’applicazione di una competenza acquisita, e che pertanto non basta sostenere il raggiungimento di una competenza, se questa non può essere effettivamente esercitata. E se già questo approccio appare più avanzato rispetto alle pratiche solitamente diffuse nelle organizzazioni, possiamo fare ancora qualcosa di più, trasformando il processo di valutazione in un processo di empowerment per cui le persone stesse, tutte senza alcuna discriminazione, possano definire i propri obiettivi e contribuire al cambiamento desiderato.

Esistono molte organizzazioni con identità e caratteristiche diverse che lavorano in questa direzione. Penso a gruppi internazionali come WeWorld, che ha realizzato una bellissima ricerca e campagna di advocacy sulla violenza contro le donne, o L’Albero della vita, che promuove interventi che formano le giovani generazioni al rispetto di genere, alla valorizzazione delle differenze e all’educazione delle emozioni, oppure La casa internazionale delle donne di Roma, che attraverso un’ampia rete di associazioni offre servizi gratuiti alle donne, in particolare a quelle in difficoltà e/o vittime di violenza, per sostenere i principi di autodeterminazione sulla salute riproduttiva, e di uguaglianza e solidarietà, nonché tante altre realtà, piccole o grandi, nazionali o locali.

Sarebbe auspicabile che, sotto la spinta emotiva di questa giornata e della memoria storica, associata alla capacità razionale della ricerca, riuscissimo a dare profondità a questo movimento di lotta contro le discriminazioni, facendo rete per generare insieme apprendimenti a livello di singolo individuo, organizzazione ed ecosistema.