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Le ultime settimane sono state caratterizzate da numerosi interventi a mezzo stampa sul tema dell’impresa sociale e dell’impact investing. I toni della discussione sono stati particolarmente accesi sia a causa delle diverse visioni che naturalmente possono sorgere su un tema così complesso, sia per la concomitante riforma della legge sull’impresa sociale. Dunque diverse opinioni che si scontrano in un momento in cui la posta in gioco è particolarmente significativa. Non è qui possibile riassumere integralmente le osservazioni proposte dai diversi intervenuti, tuttavia è sufficiente richiamare che l’origine della discussione è avvenuta con alcune affermazioni di Enzo Manes, consigliere pro bono del presidente del Consiglio per il terzo settore. Manes sostiene che «da un lato va superata l’idea, tautologica e quindi inutile, che l’impresa sociale sia quella che produce un impatto sociale, dall’altro occorre smetterla di ricercare soluzioni che permettano alle imprese sociali di distribuire utili in una misura che le renda appetitose per gli investitori». Dunque tutta l’enfasi posta su temi legati alle metriche di valutazione dell’impatto e alla possibilità di distribuire utili anche per le imprese sociali, dovrebbe essere lasciata pragmaticamente alle spalle. Il rischio, secondo Manes, è quello di seguire una moda che potrebbe portare a considerare il terzo settore come «una nuova area alla quale estendere le aspettative di rendimento di un’economia finanziarizzata». Ovviamente una simile impostazione non ha trovato il favore di altri autorevoli esperti del settore, tra cui si devono almeno segnalare Giovanna Melandri (Human Foundation), Andrea Rapaccini (Make a Change), Giorgio Fiorentini (Università Bocconi) e, con le debite distinzioni, Luciano Balbo (Oltre Venture). La vivacità del dibattito e soprattutto la centralità dei problemi sollevati, ci impedisce di lasciare inevasa l’esigenza di una riflessione un po’ più ampia e soprattutto ancorata alle numerose e varie esperienze di impact investing (o finanza sociale) che anche negli ultimi mesi abbiamo spesso commentato.

Date le molte definizioni di imprenditorialità sociale predicate nel corso degli ultimi dieci anni, non sorprende che un certo numero di miti sull’impresa sociale siano apparsi e – magari senza esplicito appoggio – rimangano ancora oggi come retaggio di superate o già in origine parziali visioni dell’agire economico. Tuttavia, l’avvento del fenomeno che va sotto il nome di impact investing, sembrerebbe contribuire – nel caso ve ne fosse bisogno – a sfatare alcuni di questi miti. Si tratta di un contributo che può avere importanti ricadute. Da un lato, sul piano pratico, individuare tratti che non appartengono al fenomeno dell’impresa sociale, dunque restringere il campo di quelli che invece la caratterizzano, consente di comprendere al meglio quali forme di incentivi e sostegni possono essere assunti dai governi che volessero promuovere questo modello particolare di fare business. Dall’altro lato, sul piano più teorico, il contributo di una nuova o comunque più precisa visione del concetto di impresa sociale, implica confrontarsi con le teorie di impresa più in voga ed eventualmente discuterne i fondamenti e gli sviluppi, traendo spunti non secondari anche in una prospettiva gestionale e quindi utile agli esperti di management.

I miti che circolano a proposito dell’impresa sociale sono ben descritti da un lavoro di Arthur Brooks, intellettuale di spicco d’oltreoceano che siede oggi come presidente dell’American Enterprise Institute e che ai tempi in cui usciva il suo libro “Social Entrepreneurship. A Modern Approach to Social Value Creation” teneva un corso di business and government policy presso la Syracuse University. Si tratta di miti riguardanti l’impresa sociale che potrebbero apparire scontati e derivanti più da una visione superficiale dell’agire economico che da equivoci rimasti per la complessità delle discussioni teoriche e divenuti poi stabili nel pensiero dominante. Tuttavia, pur non essendo dotati di un serio fondamento, non è superfluo riprendere qualcuno dei miti circolanti a proposito di impresa sociale e provare a fissare qualche possibile risposta, grazie anche a quanto sta accadendo con l’affermarsi del movimento dell’impact investing.


Alcuni miti sull’impresa sociale

Gli imprenditori sociali sono anti-business: una errata percezione dell’imprenditoria sociale estremamente comune riguarda l’idea per la quale i ritorni sociali sarebbero incompatibili o in contrasto con possibili ricompense finanziarie. Di conseguenza gli imprenditori sociali tenderebbero ad assumere una posizione opposta a quella degli imprenditori operanti nel mondo commerciale. Questo è il più delle volte falso. Molti imprenditori sociali provengono dal mondo del business e si sono formati nell’arena delle imprese commerciali prima di aver fatto il loro ingresso nell’ambito dell’innovazione sociale. Molti altri imprenditori sociali operano nell’arena filantropica, in cui vi è un numero significativo di persone che hanno ottenuto importanti ricchezze nel mondo degli affari. Inoltre, alcune delle più interessanti imprese sociali coinvolgono collaborazioni tra organizzazioni commerciali e organizzazioni senza scopo di lucro, nelle quali i reciproci obiettivi risultano allineati a beneficio di entrambe. Numerose esperienze in corso nel variegato mondo dell’impact investing, se mai ve ne fosse stato bisogno, contribuiscono in modo definitivo a sfatare il mito della contrapposizione tra profitto e benefici sociali o ambientali. In particolare si può pensare ai classici servizi legati all’industria del microcredito o ai più recenti e complessi strumenti di finanza di progetto su servizi di prevenzione, come ad esempio i social impact bonds realizzati in alcuni paesi di lingua inglese per l’abbattimento della recidiva del reato. D’altra parte come abbiamo avuto modo di osservare in un nostro articolo sulle ragioni che sottostanno agli sviluppi delle nuove frontiere della filantropia, il concetto della “fortuna alla base della piramide” sembra aver definitivamente smontato una concezione di profitti e benefici sociali come elementi contrapposti e necessariamente confliggenti (Prahalad 2004).

La differenza tra impresa commerciale e impresa sociale è l’avidità: strettamente connessa al mito sopra riportato, vi è un’altra percezione errata e particolarmente diffusa, in base alla quale mentre gli imprenditori commerciali sono motivati dall’avidità, gli imprenditori sociali sarebbero invece mossi da una sincera preoccupazione per il bene comune. Una simile visione introdurrebbe una dimensione morale nel concetto di impresa sociale che, seppur interessante, non è suffragata da prove. Infatti, che gli imprenditori commerciali siano particolarmente avidi sembra costituire una affermazione difficilmente dimostrabile sul piano empirico. Al contrario, approfittando della visione schumpeteriana, si può segnalare come per gli imprenditori il risultato finanziario costituisce una considerazione secondaria o, al più, è valutato come un indice di successo e un sintomo di vittoria. In altre parole, gli imprenditori commerciali sono con più probabilità ossessionati dagli obiettivi che non dal denaro. Peraltro, si deve poi osservare che molti imprenditori sociali sono anche imprenditori commerciali: alcuni dei più influenti filantropi hanno ottenuto le proprie disponibilità finanziarie grazie alla loro attività di uomini d’affari. A conferma di quanto afferma Brooks, il fenomeno dell’impact investing mostra come alla base di tanta e moderna attività classificabile come “impresa sociale” ci siano scelte personali e sensibilità maturate nel mondo che – a seguire i falsi miti – sarebbe quello degli “avidi” uomini d’affari (Bishop e Green 2008). Tutto lo sviluppo delle nuove frontiere della filantropia e della finanza sociale, ma in particolare il versante della domanda di capitali di investimento sociali, sta a dimostrare l’interesse e la capacità di confronto che due mondi fondati su due livelli morali differenti non sarebbero in grado di avere e realizzare (Salamon 2014).

Gli imprenditori sociali sono non-profit: la maggior parte degli esempi che si utilizzano per sviluppare un discorso inerente l’impresa sociale sono tratti dal settore non-profit. Tuttavia, che una organizzazione sia non-profit non è condizione necessaria e nemmeno sufficiente per poter parlare di impresa sociale. Al contrario, il processo di riconoscimento di una opportunità con lo scopo di creare valore sociale, che con una certa approssimazione potrebbe descrivere il fenomeno dell’imprenditoria sociale, può realizzarsi – almeno sul piano teorico – indipendentemente dal settore e dalla forma giuridica. Organizzazioni informali di base a volte possono dimostrarsi idealmente adatte a sfruttare in modo rapido ed efficace le opportunità sociali che emergessero, in particolare quando le esigenze di risorse iniziali fossero piuttosto modeste. Anche i governi a volte si impegnano in attività di impresa sociale, anche se ovviamente si tratta di un caso più raro, a causa di alcuni tratti caratteristici del settore pubblico, il quale potrebbe con più fatica farsi carico di determinate innovazioni sociali e di taluni rischi. Infine, occorre segnalare come le stesse organizzazioni commerciali possano agire in modo socialmente imprenditoriale, soprattutto nel caso in cui gli obiettivi commerciali e quelli sociali fossero allineati.
Sulla schematica distinzione tra soggetti profit e organizzazioni non-profit sembra sufficiente osservare come nel vasto mondo dell’impact investing stiano emergendo sempre più quelle che spesso vengono riportate come hybrid organizations (Eldar 2014), soggetti che sfuggono ad una visione dicotomica tra imprese con o senza fini di lucro. Il fenomeno è talmente rilevante che numerosi ordinamenti giuridici si sono preoccupati di offrire a questi soggetti una disciplina specifica e alcuni studiosi hanno iniziato addirittura a parlare di un “quarto settore”, proprio per uscire dalla logica sottesa al mito dell’impresa sociale inevitabilmente non-profit (Sabeti 2011).

Imprenditore sociale si nasce e non si diventa: si tratta di una visione deterministica che sembra assegnare un eccessivo peso all’idea che le caratteristiche tipiche dell’imprenditore sociale sono tutte nella sua natura piuttosto che nella sua maturazione. In realtà alle persone può essere insegnato come essere più innovative, indipendenti e orientate agli obiettivi di quanto non lo siano ad uno stato originale (ineducato). Allo stesso modo peraltro, ci sono prove abbondanti circa il fatto che le persone possono acquisire nel corso del tempo un maggiore senso di controllo sul proprio destino, divenire più a proprio agio davanti ai rischi e alle ambiguità, come anche avere un maggiore livello di consapevolezza circa la propria responsabilità nei confronti della comunità nella quale vivono. In breve, mentre alcune persone sono senz’altro e naturalmente dotate di quelle caratteristiche tipiche dell’imprenditore sociale, non è privo di riscontri sostenere che tali caratteristiche possano essere sviluppate e promosse in un percorso educativo e formativo. D’altra parte sulle frontiere della filantropia e dell’impact investing occorre registrare l’avvento di una serie di soggetti che mentre offrono servizi di supporto finanziario alle imprese sociali, accompagnano il management delle stesse in percorsi di formazione specifici, soprattutto al fine di dar loro gli strumenti e le conoscenze necessarie per andare incontro alle esigenze degli investitori ad impatto sociale. Al di là del supporto finanziario, sembrano in buona parte orientati ad una finalità formativa e di scambio di esperienze quei soggetti emergenti nell’arena dell’impact investing e che abbiamo in altra sede riportato come “organizzazioni di infrastruttura” (Salamon 2014). Se il mito del “nascere imprenditori sociali” avesse un qualche fondamento non sarebbe possibile trovare una ragionevole spiegazione all’esistenza di soggetti come quelli ora menzionati.

Gli imprenditori sociali amano il rischio: una cosa è affermare che gli imprenditori sociali tollerano il rischio con maggiore facilità o sono più attrezzati per farvi fronte rispetto a coloro che imprenditori non sono, un’altra cosa è sostenere che gli imprenditori sociali amino il rischio. Purtroppo capita spesso di cogliere questo retro pensiero in taluni che descrivono il prototipo dell’imprenditore sociale come un soggetto caratterizzato da un risk appetite superiore a quello dei suoi colleghi “tradizionali”. In realtà, salvo casi patologici, non sembrano esistere riscontri circa fenomeni in cui qualche soggetto ricerchi il rischio di per se stesso. L’imprenditoria sociale comporta una assunzione di rischi calcolata. Ciò significa tanto l’abilità di calcolare i rischi quanto l’intenzione o la disponibilità a farsene carico. È ancora una volta il mondo dell’impact investing che – ad abundantiam – conferma l’infondatezza di questa visione un po’ naïve dell’imprenditore sociale: la talvolta spasmodica ricerca di metriche utili a misurare le performances e gli outcomes sociali da un lato, la determinazione nella progettazione di sistemi di finanziamento strutturati attraverso rafforzamenti del credito o il rilascio di garanzie specifiche dall’altro, sono qui a dimostrare che il rischio – almeno nelle intenzioni – non è mai sottovalutato. Alcuni modelli più complessi di finanza sociale, come i social impact bonds, mirano esattamente ad un ripensamento generale circa la distribuzione dei rischi tra tutti i soggetti coinvolti nel tentativo di rispondere a bisogni e necessità sociali o ambientali (Burand 2013).


Una teoria per l’impresa sociale

L’utilità della disamina condotta circa i miti sull’impresa sociale, lungi dal voler dare la minima impressione che certi stereotipi siano da prendere con eccessiva serietà, consiste nel fissare qualche elemento che può essere considerato nello sviluppo di una teoria dell’impresa sociale. In tal senso, quanto emerge dalle frontiere degli investimenti ad impatto sociale consente di riprendere e riproporre una definizione di impresa sociale che – ad avviso di chi scrive – sembra al tempo stesso sufficientemente aperta e non troppo generica. Si tratta di una definizione che cerca di individuare l’impresa sociale attraverso i suoi elementi distintivi e dunque che la differenziano – eventualmente – dall’impresa tout court: «l’impresa è sociale se offre, con un impegno vincolante di governance, i servizi dei commons e i merit goods, impiegando in maniera non privatistica la maggior parte degli eventuali profitti» (Bellanca 2011). Quanto più si hanno presenti i cambiamenti in atto alle frontiere della filantropia, in particolare l’eterogenea moltitudine di soggetti che ne sono protagonisti, tanto più sarà immediato cogliere l’opportunità di una definizione come quella ora richiamata. La questione definitoria sembra assumere un ruolo centrale per l’elaborazione di una teoria dell’impresa sociale che sia in grado, da un lato, di descrivere in modo comprensivo e sintetico i soggetti che stanno promuovendo un ripensamento generale del terzo settore, dall’altro, di prescrivere ai legislatori e ai policymakers quali siano gli elementi chiave per la costruzione di adeguati schemi disciplinari e proficue politiche di sostegno. Sebbene sarebbe interessante addentrarsi nella ricostruzione teorica dell’autore della definizione sopra citata, è qui sufficiente sottolineare che, indipendentemente dalla tipologia giuridica ed organizzativa che l’impresa sociale può assumere, come risulta dalla stessa definizione richiamata, è possibile individuare tre caratteristiche distintive.

La prima caratteristica è che qualunque variante d’impresa sociale persegue finalità di interesse collettivo che possono essere racchiuse e rappresentate attraverso due categorie di beni economici. I common goods e i merit goods. I commons goods sono risorse materiali o immateriali non prodotte, gratuite e condivise, ossia risorse che tendono a essere non esclusive e non rivali (un bene è “esclusivo” quando è possibile inibire a persone che non hanno pagato per il suo consumo l’accesso a quel bene, mentre è “rivale” se l’uso da parte di un soggetto impedisce l’uso da parte di un altro soggetto), e che quindi sono fruite da comunità più o meno ampie (ambiente, informazione, conoscenza e cultura, beni artistici, ecc.). In relazione a questa tipologia di beni, una impresa sociale si dedica quindi alla produzione, fornitura e gestione di servizi associati alla loro fruizione. I merit goods sono invece quei beni o servizi cui la collettività attribuisce un particolare valore funzionale allo sviluppo morale e sociale della collettività stessa (salute, educazione, cura e protezione sociale, formazione e inserimento lavorativo, accesso alla finanza, ecc.). Come specifica l’inventore della definizione qui utilizzata, «trattandosi dell’idealtipo dell’impresa sociale non occorre che ogni impresa concreta produca tanto i servizi dei commons quanto i merit goods». Lo specifico delle finalità sociali perseguite da un’impresa, alla luce di quanto ora segnalato, risulta individuato in modo rigoroso e purtuttavia non schematico, sulla base della natura economica dei beni oggetto dell’attività di impresa e non già di una opzione etico-politica se non addirittura morale. Una visione dell’impresa sociale come quella qui rappresentata, mentre riesce a raccogliere la varietà delle possibili forme che essa è in grado di assumere e di fatto, nel mondo dell’impact investing, assume, chiaramente esclude che l’elemento di specificazione “sociale” abbia a che vedere con una presunta superiorità morale di questo genere di impresa, rifacendosi piuttosto, e forse anche più ragionevolmente, alla natura stessa di ciò che costituisce l’oggetto della attività di impresa.

La seconda caratteristica che consente ad una impresa di essere qualificata come “sociale” risiede nel fatto che l’impresa dia forma al proprio sistema di corporate governance in maniera coerente con la finalità dichiarata. Senza qui entrare nel merito di temi fuori dagli scopi per i quali si scrive, appare di tutta evidenza come la capacità di elaborare modelli di governance aziendali tali da facilitare e addirittura consentire – almeno sul piano potenziale – il raggiungimento delle finalità dichiarate non è certamente una abilità naturale e innata nelle persone, e dunque risulta altrettanto evidente come la previsione e attuazione di un sistema di checks and balances nel quale tutti i soggetti che operano e interagiscono nell’ambito dell’impresa abbiano la possibilità di vedere efficacemente tutelati i propri interessi, assicurando al contempo che il controllo sia allocato con efficienza, non può che essere frutto di una elevata alfabetizzazione nel campo dei c.d. management studies, qualcosa che si raggiunge con dedizione e costante applicazione nell’approfondire la conoscenza delle discipline aziendalistiche, in specie di stampo organizzativo.

La terza e ultima caratteristica sancisce come l’impresa sociale se non genera utili deve almeno recuperare tutti i costi (è l’idea della sua sostenibilità); se invece ottiene dei ritorni, deve – ed è il punto imprescindibile – utilizzarli prevalentemente in modo non privatistico: può accantonarli a riserva indivisibile, può sottometterli a vincoli extra-mercantili, ovvero accontentarsi di una redditività modesta e di più lungo termine. Il fenomeno dell’impact investing fa leva esattamente sulla possibilità di un profitto, ma – almeno nel suo spirito più autentico – riconosce il profitto come uno strumento e non come un fine. Una simile impostazione mostra come non ogni rischio possa essere indistintamente assunto e che i possibili ritorni devono essere calcolati e perseguiti anche dall’imprenditore sociale. Questo aspetto mostra anche come non si possa immaginare un imprenditore sociale che disprezzi o rifugga qualunque tipo di corrispettivo ricevuto in cambio della propria attività. In tal senso anche l’idea che l’imprenditore sociale poco o nulla abbia a che fare con il business appare – di nuovo – infondata.

Dunque, alla luce di “vecchie” riflessioni come di “nuove” esperienze, perché si possa parlare di impresa sociale è necessario, da un lato, che la scelta di offrire i servizi dei commons e i merit goods quale propria finalità sia prevista e sostenuta nel sistema di corporate governance, ossia la carta costituzionale dell’impresa, dall’altro, che l’uso non privatistico degli eventuali profitti riguardi la maggior parte degli stessi, costituendo dunque la modalità prevalente di funzionamento dell’impresa.


Qualche riflessione conclusiva

Concludendo questo breve e sommario tentativo di rappresentare una ulteriore prospettiva sul concetto di “impresa sociale” e sul fenomeno dell’impact investing, si può rischiare una riflessione di carattere generale anche sul dibattito in corso: purtroppo sembra molto difficile, anche per chi si occupa di impresa sociale, superare la visione mainstream dell’economia. Peraltro tanta parte delle vicende accadute sul fronte economico-finanziario globale a partire dal 2008, poggiano esattamente su azioni e strategie realizzate da chi ha da sempre fatta propria la visione neoclassica, la quale, oltre ad assumere un grottesco homo oeconomicus perfettamente razionale e tenacemente egoista, ha elaborato una teoria dell’impresa assolutamente “pulita”, senz’altro facile da insegnare nelle classi di master in business and administration di tutto il mondo, tuttavia costruita su modelli che poco hanno a che fare con la realtà dei fatti. Il profitto è un mezzo, di certo non lo scopo di una impresa. Ciò che cerca una impresa (sia essa commerciale o sociale) è piuttosto rimanere sul mercato, superando la “selezione naturale” che ivi opera. E’ noto, soprattutto grazie a studi di economia industriale “eterodossi”, che è la capacità di innovare, grazie anche a knowledge and capabilities, che permette di sopravvivere sul mercato. Tutto il pensiero neoclassico andrebbe rivisitato alla luce di teorie più attente alla complessità (Dosi 2004). Il gioco profit vs. non-profit è frutto di un retaggio neoclassico che poco si adatta alla complessità del mondo naturale, dunque anche dell’agire economico. Di più: anche la contrapposizione tra “economico” e “sociale” è un po’ conseguenza di una visione “pura” di matrice neoclassica.

Per queste ragioni, rispetto al dibattito in corso sulla impresa sociale, si può dire che è sempre più necessaria una visione plurale circa la sua natura e le sue forme, assumendo definizioni ampie e inclusive, in grado di superare il mero dato normativo, che eventualmente seguirà e si adatterà. Più precisamente, la divisione degli utili, laddove non faccia venir meno l’impiego non privatistico della loro maggior parte, può benissimo convivere con la natura dell’impresa sociale. Anzi, in un certo qual senso può facilitarne la crescita. Anche l’alienazione di alcuni suoi asset potrebbe comportare la possibilità di una ridefinizione delle attività e, dunque, essere orientata ad un miglioramento di determinati servizi. Ciò che porterebbe a snaturare l’impresa sociale è il venir meno di qualcheduno dei suoi elementi essenziali: riprendendo la definizione di Bellanca sopra richiamata, un caso di “snaturamento” potrebbe esser costituito, oltre che dal cambiamento dell’oggetto sociale (non più common e merit goods) e da una divisione tra i soci di tutti gli utili, da un cambiamento della governance che si appiattisse sullo schema delle assemblee di azionisti che il management non può far altro che assecondare (come correttamente osserva anche Giovanna Melandri).

Rispetto invece i diversi punti di vista sulla finanza sociale, si può sostenere che questa stia all’impresa sociale (nel senso sopra riportato) come la finanza tradizionale (aziendale) sta all’impresa. Non è dunque la finanza a generare i risultati sociali desiderati, bensì l’impresa e gli imprenditori: è chiaro che la finanza, contribuendo all’impresa contribuisce anche a ciò che dall’impresa scaturisce in termini di conseguenze. Una simile osservazione vuole provare a stemperare alcuni entusiasmi e porsi in contrasto con una visione salvifica della finanza. Si tratta di un mezzo i cui meriti sono innegabili e le cui potenzialità non finiscono mai di sorprendere. Tuttavia resta un mezzo, che può assumere di volta in volta diverse forme. Come giustamente sottolinea anche Andrea Rapaccini, può essere capitale di debito come capitale di rischio. Chiaramente il giudizio circa l’opportunità dipende dalle singole circostanze. Si aggiunga anche che nel novero degli strumenti finanziari che una impresa può utilizzare per svolgere i propri “affari”, ne esistono anche alcuni particolarmente complessi e che sfuggono alla netta distinzione tra capitale di di debito e equity (penso qui al project financing e alla mezzanine finance).

In breve, sembra che il terzo settore non sia più appena da intendersi come ciò che si inserisce negli interstizi dei fallimenti delle due classiche istituzioni, ma qualcosa che a queste – almeno in parte – si sovrappone. Con ciò non si intende dire tanto che è in corso una qualche sostituzione, quanto piuttosto si vorrebbe sottolineare che – di fatto – il “terzo settore” assume un potenziale campo d’azione che non è ricavato per scarto da quello lasciato scoperto nella alternanza tra il “primo” e il “secondo”. Sembrerebbe che il terzo settore abbia una sua dignità oggettiva (nel senso di legata all’oggetto che tratta) e non appena derivata. In sostanza esiste una dimensione dell’agire economico che precede le nozioni classiche (o neoclassiche) di Stato e mercato. Il dibattito in corso se vuole essere realmente utile, non può che aprirsi alla possibilità che quanto sino ad oggi concepito come assoluto e ovvio, in realtà è tutto da ricomprendere, tanto sul piano teorico che su quello operativo.

Per chiudere in modo provocatorio, alla luce delle considerazioni ora svolte su impresa sociale e impact investing, si può “giocare” con una osservazione contenuta nell’ultimo contributo al tema in discorso, quello del professor Giorgio Fiorentini. Il contributo giustamente sottolinea la necessità di promuovere «una nuova concezione di imprenditorialità che integra l’economico e il sociale». Per far ciò occorre a nostro avviso invertire i termini di quanto rappresentato come presupposto al discorso da Fiorentini stesso: non si tratta tanto di osservare che «senza un welfare adeguato non si ha un buon capitalismo», ma piuttosto che senza una nuova economia, cioè un nuovo modo di intendere e anche concettualizzare l’agire economico e il fare impresa, non si ha un buon welfare.


Riferimenti

Bellanca N. (2011), Elementi di una teoria dell’impresa sociale, AICCON, Working Paper 95.

Bishop M. and Green M. (2008), Philanthrocapitalism: How the Rich Can Save the World, Bloomsbury Publishing.

Brooks A. (2008), Social Entrepreneurship. A Modern Approach to Social Value Creation, Prentice Hall.

Burand D. (2013), "Globalizing Social Finance: How Social Impact Bonds and Social Impact Performance Guarantees can Scale Development", N. Y. U. J. L. & Bus. 9: 447-502.

Dosi G. (2004), L’interpretazione evolutiva delle dinamiche socio-economiche, LEM Working Paper Series, Laboratory of Economics and Management Sant’Anna School of Advanced Studies, I2004/01.

Eldar O. (2014), The Role of Social Enterprise and Hybrid Organizations, Yale Law & Economics Research Paper No. 485.

Prahald C.K. (2004), The Fortune at The Bottom of The Pyramid. Eradicating Poverty Through Profits, Wharton School Publishing (ed. it. La fortuna alla base della piramide. Sconfiggere la povertà e realizzare profitti‬, Il Mulino, 2007)‬‬‬‬‬.

Sabeti H. (2011), The For-Benefit Enterprise, Harvard Business Review, November.

Salamon L. (2014), New Frontiers of Philanthropy. A Guide to the New Tools and Actors Reshaping Global Philanthropy and Social Investing, Oxford University Press.


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