La crisi afghana: tra allarmismi e mobilitazione della società civile

Dalla metà di agosto 2021, nell’imminenza della partenza degli ultimi contingenti Nato dall’Afghanistan a seguito degli accordi di Doha tra Stati Uniti d’America e i rappresentanti dei Taliban (plurale, dal pashto talib ‘studente’), la situazione politica e militare nel paese asiatico è precipitata.

Il governo sostenuto dagli Occidentali è fuggito all’estero e i Taliban sono entrati a Kabul. Media e politici italiani, a seguito della situazione venutasi a creare nel paese asiatico, hanno inquadrato la questione nel “frame” allarmistico, come già avvenuto all’epoca della crisi migratoria nel Mediterraneo, riferito ad una possibile invasione di profughi in fuga di fronte all’avanzata dei Taliban.

Nonostante, questi toni allarmistici, parti della società civile in Italia e in Europa si sono mobilitate on-line e in presenza per esprimere solidarietà nei confronti della popolazione afghana, in particolare per le donne e coloro che sono più a rischio di essere bersaglio della repressione del nuovo regime. In Italia ad esempio numerosi cittadini hanno contattato associazioni e organizzazioni non profit dichiarandosi disponibili ad ospitare profughi afghani e dando luogo a diverse iniziative solidali.

Una breve ricostruzione storica

Ma cos’è successo in Afghanistan? Ripercorriamo brevemente gli ultimi decenni. Già negli anni Novanta, durante la guerra interna tra diverse fazioni e all’epoca del primo governo dei Taliban insediatosi nel 1996, le popolazioni coinvolte nel conflitto e coloro che si opposero al nuovo regime, per motivi politici, religiosi o di appartenenza etnica, cercarono rifugio nei paesi confinanti.

Una piccola parte di loro chiesero asilo anche nei paesi dell’Unione Europea, ma il loro numero fu circoscritto a poche migliaia. I rifugiati afghani in Europa erano circa 8.000 nel 1990, ma crebbero lentamente negli anni successivi, durante il governo dei Taliban, fino a raggiungere il numero di oltre 20.000 all’inizio del nuovo millennio.

Le cose cominciarono a cambiare nel 2001, a seguito dell’invasione da parte delle truppe degli USA e dei paesi della Nato, seguita all’attentato alle Torri Gemelle. In quegli anni, la guerra tra le potenze occidentali e il governo dei Taliban, con i bombardamenti e i combattimenti che seguirono, spinse centinaia di migliaia di afghani verso i Paesi confinanti: si calcola che ancora attualmente siano presenti circa un milione e mezzo di profughi in Pakistan e quasi un milione in Iran.

La sconfitta dei Taliban e la presenza delle truppe NATO inaugurò un periodo di relativa calma, comunque segnata da una situazione di insicurezza provocata dalla guerriglia dei combattenti islamici nelle zone rurali e dai continui attentati nelle città. In seguito, lo stato di guerra e la contemporanea devastazione delle campagne portò all’acuirsi della crisi economica, contribuendo a spingere centinaia di migliaia di afghani verso le zone del Paese considerate sicure: secondo alcune stime gli sfollati interni sono oltre 3,5 milioni su una popolazione di 37.466.414 (stima luglio 2021).

L’economia dell’Afghanistan è stata sostenuta in questi anni grazie alle sovvenzioni degli organismi internazionali e ancora alla fine del 2020 erano stati concessi aiuti per 12 miliardi di dollari. Anche a causa della corruzione diffusa, nonostante i sostegni, si sono verificati minimi progressi in campo economico e la sicurezza alimentare di oltre un terzo della popolazione, in particolare nelle campagne, è andata peggiorando ( l’aspettativa di vita alla nascita è di 53 anni e il tasso di alfabetizzazione è del 55% tra i maschi e del 30% tra le femmine, oltre il 73% della popolazione si occupa di agricoltura).

La migrazione degli afghani negli ultimi dieci anni

In ogni caso, il movimento dei migranti dal paese asiatico verso l’Europa si è mantenuto, negli ultimi dieci anni, alquanto sostenuto, ma non si è mai trattato di un’invasione: in valore assoluto 728.925 afghani hanno chiesto protezione internazionale in UE, mediamente il 9,1% delle richieste totali. Questo affondo sull’Europa però non deve farci dimenticare che l’85% dei rifugiati afghani si trova in Pakistan e in Iran, e non quindi in UE.

L’esodo degli afghani è composto da giovani – l’età media della popolazione in Afghanistan è di 19,5 anni – e per oltre il 70% del totale da maschi, ha continuato ad essere causato, nonostante i tentativi di riforma promossi dall’Occidente, dalle precarie condizioni di sicurezza ed economiche che hanno caratterizzano il Paese negli ultimi 20 anni.

Bisogna segnalare che, nonostante l’evidenza delle condizioni di coloro che sono costretti a lasciare il Paese, le autorità europee hanno continuato a considerare le richieste di asilo presentate dai cittadini afghani con diffidenza: negli ultimi dieci anni, le decisioni di concessione dello status di rifugiato, nelle varie forme previste, risultano positive solo per il 52% del totale, mentre quasi la metà dei richiedenti sono stati ritenuti migranti economici provenienti da un “paese sicuro” e il diritto all’asilo non è stato riconosciuto. Oltre 70.000 afghani sono stati, nello stesso periodo, rimpatriati forzatamente. Spesso, come avviene lungo la “rotta balcanica”, è impedito loro di entrare all’interno dei confini dell’UE ed esercitare il loro diritto a depositare una domanda di protezione internazionale.

Dove chiedono asilo gli afghani in Europa?

Considerando i dati riferiti agli ultimi dieci anni la Germania rappresenta la meta preferita con 246.445 richieste pari al 36% del totale. Dopo il picco degli anni della crisi migratoria, con 126.000 domande nel solo 2016, gli afghani che hanno chiesto asilo si sono attestati su circa 10.000 all’anno. Se questo dato non può sorprendere, meravigliano invece le percentuali riferite a paesi come l’Ungheria, al secondo posto con oltre il 10% delle richieste; in questo caso, comunque, la maggior parte delle 71.860 domande sono state presentate nel 2016 e il loro numero è andato calando negli anni successivi, indubbiamente a causa delle politiche restrittive e alla blindatura dei confini, toccando il numero di 25 nel 2020.

Anche l’Austria, con 64.000 domande si è rivelata una tra le mete scelte dai migranti provenienti dal paese asiatico: la loro presenza ha seguito una tendenza simile a quello ungherese, con numeri molto alti nella parte centrale del decennio; in questo caso le richieste sono calate più lentamente, mantenendosi su una media di 3.000 negli ultimi tre anni. Un percorso inverso hanno evidenziato le richieste in Grecia, il 9,6% nel decennio considerato; il paese ellenico fu appena sfiorato dalle richieste di asilo nel periodo di apertura della rotta balcanica, ma a seguito della sua chiusura e fino ad oggi si è segnalata come una meta ambita da parte degli afghani, anche se spesso solo considerato un possibile trampolino verso l’Italia, a sua volta base di partenza per i paesi del Centro Europa. In Grecia oltre il 70% delle richieste sono state presentate tra il 2018 e il 2020.

Una tendenza analoga si può riferire alla Francia che negli ultimi anni è diventata una delle mete dei richiedenti asilo in Europa, non solo afghani, e che negli ultimi tre anni ha visto l’arrivo di 35.000 persone dal paese asiatico. Le altre destinazioni sono state quelle classiche, riferite ai Paesi tradizionalmente meta dei richiedenti protezione internazionale: la Svezia, la Svizzera e i Paesi Bassi, come accaduto nel passato, hanno accolto un numero di profughi proporzionalmente molto alto rispetto alla loro dimensione.

L’italia e la voce della società civile

L’Italia invece sembra essere considerata dai migranti dall’Afghanistan un paese di transito; infatti, le richieste nel decennio hanno rappresentato solo il 2,6% del totale e si sono ridotte a poche centinaia negli ultimi tre anni. Va però evidenziato che la maggioranza di richiedenti asilo afghani ha avuto un esito positivo e ha ricevuto una forma di protezione internazionale: la quota di afghani tra i richiedenti asilo con esito positivo ha raggiunto nel 2020 il 10%, come ricordato di recente da Openpolis.

Un discorso a parte merita il ponte aereo organizzato dai paesi membri della Nato nei giorni immediatamente successivi all’ingresso dei Talebani a Kabul e che ha portato circa 100.000 afghani nei paesi occidentali impegnati militarmente in Afghanistan, di cui 5.000 in Italia. In questo caso si è trattato di persone particolarmente compromesse in attività di collaborazione con i vari contingenti Nato e dei loro familiari, possibile bersaglio di vendette da parte dei vincitori del conflitto.

Intanto diverse sono le richieste avanzate dal Tavolo Asilo che riunisce molte organizzazioni impegnate nell’accoglienza, nell’integrazione, nella difesa dei diritti umani, da Actionaid a Amnesty International, dal Centro Astalli a Refugee Welcome (solo per citarne alcune). Le richieste del Tavolo hanno l’obiettivo di facilitare il ricongiungimento familiare degli afghani con i parenti già presenti in Italia, fermare i dinieghi per coloro che hanno già avanzato in passato richiesta di asilo, favorire il reingresso degli afghani per qualche motivo bloccati nel loro paese, favorire l’arrivo di giovani per motivo di studio, ampliare il sistema pubblico del SAI (Sistema Accoglienza e Integrazione).

Come, abbiamo più volte raccontato in questo focus (ad esempio qui), gli attori del Terzo Settore hanno avuto un ruolo determinante, in concerto con gli enti locali, nel costruire un sistema di accoglienza diffuso e integrato nel territorio e connesso con il welfare locale. All’accoglienza pubblica, in diversi casi si sono affiancati progetti di secondo welfare, finanziati da enti filantropici di varia natura, al fine di sostenere i percorsi di integrazione dei migranti sia nella fase di permanenza nel sistema di accoglienza che nella fase successiva. Ora è il momento di rivedere il sistema di accoglienza, mettendo a sistema le buone pratiche, uniformando il sistema sul modello dell’accoglienza diffusa e integrata. In quest’ottica uno strumento particolarmente rilevante e che, in quanto tale, andrebbe valorizzato riguarda le pratiche di coprogettazione, previste dal Codice del Terzo Settore.