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Paolo Moroni, nell’ambito delle attività di ricerca del progetto Interreg Italia Svizzera Minplus, ha intervistato Don Giorgio Borroni, direttore Caritas Diocesi di Novara. Nell’articolo si ricostruisce l’esperienza della Diocesi di Novara nell’integrazione dei rifugiati nell’ambito del progetto "Protetto. Rifugiato a casa mia".


Il progetto "Protetto. Rifugiato a casa mia"

Nel corso del 2015 oltre 150.000 persone attraversarono il Mediterraneo per raggiungere le coste italiane. La tragedia dei profughi e lo scandalo dei morti in mare – nell’aprile di quell’anno oltre mille persone persero la vita durante un naufragio a sud di Lampedusa – spinsero Papa Francesco, durante l’Angelus di domenica 6 settembre, a lanciare un appello alla Chiesa italiana ed europea perché si facessero carico in modo concreto dei migranti arrivati sulle nostre coste:

Di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame […] rivolgo un appello alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri e ai santuari di tutta Europa ad esprimere la concretezza del Vangelo e accogliere una famiglia di profughi. […] Ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa ospiti una famiglia, incominciando dalla mia diocesi di Roma”.

Nell’ottobre del 2015, a due mesi dall’appello di Papa Francesco e a meno di due settimane dall’apertura del Giubileo della Misericordia, Caritas Italiana lanciò il progetto di accoglienza e integrazione “Protetto. Rifugiato a casa mia”. In una nota diffusa da Caritas il direttore don Francesco Soddu, spiegava che:

Il progetto ‘Rifugiato a casa mia’ non vuole, però, in alcun modo costituire un ulteriore sistema nazionale di accoglienza, che già esiste e nel quale stiamo operando, ma essere complementare soprattutto rispetto all’integrazione che appare ancora l’aspetto più debole”.

All’invito rispose anche la Diocesi di Novara che comprende al suo interno un ampio territorio che comprende oltre alla Provincia di Novara, quella del Verbano Cusio Ossola e la Val Sesia. Don Giorgio Borroni, direttore della Caritas diocesana, spiega che, a seguito della sollecitazione giunta alle Chiese locali, i direttori delle Caritas piemontesi, a cui i Vescovi della regione avevano delegato l’operatività della iniziativa, si incontrarono per definire l’avvio del progetto.

Durante la riunione si era deciso di invitare le parrocchie di ciascuna diocesi a mettere a disposizione le loro strutture per l’accoglienza dei migranti, ipotizzando che ciascuna di esse potesse ospitare almeno due persone. Quella prevista dal progetto doveva essere un’accoglienza di secondo livello, ovvero prestata a migranti che al termine del periodo di accoglienza istituzionale, avessero già concluso il loro percorso di riconoscimento dello status di rifugiato oppure ottenuto un permesso di protezione sussidiaria o umanitaria”.

Per la gestione del progetto Caritas diocesana si era dotata di un’operatrice dedicata che aveva frequentato uno specifico corso di formazione presso la sede centrale di Roma: il suo compito era quello di selezionare, da una parte, i potenziali destinatari dei percorsi di accoglienza e integrazione, dall’altra, sensibilizzare e promuovere l’adesione di comunità parrocchiali e singole famiglie.

La scelta dei migranti da inserire nel progetto, operata secondo le linee definite da Caritas italiana, doveva avvenire a seguito della concessione dello status di rifugiato e del permesso di soggiorno da parte della Questura, comunque al termine del periodo di sei mesi di ulteriore accoglienza previsti per loro presso il CAS o lo SPRAR di appartenenza.

Sul territorio della diocesi novarese la selezione era avvenuta in collaborazione con le cooperative sociali Integra e Versoprobo che gestivano l’accoglienza per conto della Prefettura. Vennero fissati una serie di parametri che tenessero conto, in primo luogo, della volontà della persona a rimanere sul territorio, ma soprattutto del desiderio di mettersi in gioco in un percorso di autonomia personale ed economica.

Più difficile” sottolinea il Direttore “è stata l’opera di individuazione di persone o soggetti disposti ad accogliere i migranti. La nostra diocesi ha dato infatti una disponibilità limitata a 14 posti, per la maggior parte a Novara e poi nei centri di Varallo, in Val Sesia, e Bellinzago Novarese. Quella del territorio è stata una risposta debole e deludente, ma poi ci siamo resi conto, confrontandoci con le altre Caritas, che era stata in linea con quella del resto d’Italia”.

Don Borroni fa notare che, pur non avendo raggiunto i livelli sperati, i numeri totali a livello nazionale sono stati più che soddisfacenti se si considera che, secondo i dati forniti dalla Caritas italiana, il progetto nel suo complesso ha coinvolto oltre 500 famiglie, 150 parrocchie e 30 istituti religiosi, mettendo a disposizione circa 1.000 posti per altrettanti migranti.

Il progetto ha rappresentato comunque un’iniziativa che nei territori testimonia, ancora una volta, la presenza di un’autentica cultura dell’accoglienza e valori umani condivisi nell’ottica del bene comune. Il perno dell’iniziativa, che ha permesso a queste persone di trascorrere da sei mesi a un anno in un contesto di accoglienza protetto in cui riacquistare fiducia e speranza, sono state le famiglie e le comunità. Infatti, anche nel caso di accoglienza in parrocchia o nell’istituto religioso, i beneficiari sono stati seguiti da una famiglia che li ha accompagnati in un percorso di integrazione che oggi, più che mai, appare la vera sfida dell’immigrazione”.

Don Borroni sottolinea che si è trattato di un’esperienza portata avanti nella totale gratuità: i costi relativi all’accoglienza sono stati infatti interamente a carico delle famiglie e delle parrocchie. Per i beneficiari sono state messe a disposizione delle risorse economiche aggiuntive da parte della CEI e delle ACLI che sono servite per sostenere i costi relativi ad attività formative, culturali e professionalizzanti.

Secondo i calcoli di Caritas i costi finali di mantenimento e integrazione dei migranti sono stati circa sei volte inferiori a quelli ordinariamente sostenuti dalle Istituzioni per la sola accoglienza.

A ben vedere”, continua il Direttore, “il progetto è stato un successo in quanto ha coinvolto famiglie e comunità parrocchiali che si sono messe in gioco in prima persona o attraverso la rete delle proprie conoscenze, assumendo spontaneamente iniziative che hanno facilitato l’inserimento dei migranti in percorsi di autonomia sociale e lavorativa”.

Inoltre, la realizzazione del progetto ha avuto una ricaduta positiva, oltre che sui beneficiari finali, anche su coloro che si sono fatti carico dei migranti: lo sforzo di più persone su un obiettivo comune ha permesso di creare all’interno delle comunità ospitanti maggiori e più ampi spazi di coesione. Per esempio, presso la Parrocchia di San Francesco a Novara, così come in altre parrocchie, l’arrivo dei rifugiati presso la famiglia che aveva dato disponibilità all’accoglienza è stata celebrata dall’intera comunità attraverso un momento conviviale e in seguito si è creato una sorta di lavoro collettivo nel supportare il percorso di integrazione di ciascuno. Caritas, attraverso la propria operatrice, ha fornito alle famiglie ospiti tutto il supporto necessario al buon andamento del progetto, sostenendo e monitorando inoltre il percorso dei rifugiati.
 

Dal progetto a una nuova mission in tema di accoglienza e integrazione

L’esperienza del progetto “Rifugiato a casa mia” si è conclusa all’inizio del 2018, ma l’attività di accoglienza è proseguita a seguito della partecipazione della Conferenza episcopale italiana, attraverso Caritas e la Fondazione Migrantes, ai progetti dei corridoi umanitari promossi dalla Comunità di Sant’Egidio.

La realizzazione del progetto ha anche rappresentato per la Caritas novarese un importante insegnamento, confermando una tendenza che era andata delineandosi già da qualche tempo e che ha a che fare con l’attivazione delle comunità locali. Bisogna ricordare che per quanto riguarda l’accoglienza di richiedenti asilo la Diocesi di Novara ha gestito, tra il 2015 e il 2018, in appalto dalla Prefettura, un Centro di accoglienza straordinaria presso alcune strutture di proprietà della Chiesa tra cui il Centro sociale diocesano.

Un’esperienza che, secondo Don Borroni, non è stata completamente positiva, in quanto la gestione diretta di questo tipo di azioni si è configurata come un intervento di puro assistenzialismo, come sembra evidenziare il fatto che, nelle more delle lunghe attese delle audizioni presso la Commissione prefettizia o dei successivi ricorsi, nei confronti dei migranti non sia stato possibile sostenere efficaci percorsi di integrazione.

Entrambe queste esperienze mostrano come la nuova mission della Caritas diocesana, sia sul fronte dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti sia sulle altre attività istituzionali, non debba riferirsi solo ad una gestione diretta di interventi caritatevoli, ma debba realizzarsi attraverso una funzione di coordinamento e di stimolo alla progettualità delle comunità parrocchiali che fanno ad essa riferimento.

In questa ottica rientra la ristrutturazione di uno degli edifici di proprietà diocesana che erano stati utilizzati per l’accoglienza di 70 richiedenti asilo e destinato alla realizzazione di un condominio solidale. L’edificio, inaugurato nel settembre 2019 si configura come uno spazio aperto alla comunità, luogo di animazione del quartiere in cui è inserito, in cui sono presenti spazi destinati ad una comunità alloggio per mamme sole con bambini, un consultorio familiare e 12 appartamenti destinati sia a singoli che a famiglie:

Un luogo di rifugio, ma anche di interazione con la comunità locale e dunque di integrazione per gli ospiti. Ed infatti uno degli appartamenti è già occupato da una famiglia siriana, giunta in Italia attraverso il progetto sui corridoi umanitari promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e che ancora non ha completato il proprio percorso di autonomia, mentre un secondo appartamento è pronto ad accogliere un’altra famiglia in arrivo attraverso lo stesso progetto. Anche per loro sarà attivato un percorso di integrazione che veda l’impegno delle nostre strutture, ma che faccia perno in primo luogo sull’attivazione della comunità locale”.