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All’inizio degli anni ‘90, le città e le loro amministrazioni si trovano per la prima volta al centro del pensiero di sviluppo del nostro Paese. Siamo in quella fase comunemente individuata come fine della Prima Repubblica: il ruolo guida dei partiti, in particolare DC, PCI e PSI, per come lo avevamo conosciuto in tutto il Secondo Dopoguerra, viene improvvisamente meno. Da una parte, la vicenda di Tangentopoli che travolge di fatto tutti i tradizionali partiti di governo e non solo, dall’altra la fine del Socialismo reale con la caduta del Muro di Berlino, la fine dell’Unione Sovietica e del blocco socialista in Europa portano di fatto al tramonto di un sistema che aveva guidato il Paese per oltre 40 anni.

In una ventata improvvisa di cambiamento, giungono a maturazione alcune decisioni politiche che cambiano radicalmente il rapporto tra la politica, l’amministrazione pubblica e i cittadini tra queste, l’introduzione della legge che consente l’elezione diretta dei Sindaci delle nostre città. È l’elemento che consente immediatamente di rinsaldare la necessaria fiducia nel rapporto tra i cittadini e chi governa la cosa pubblica, con una modalità nuova e inedita perché non più legata o mediata dai partiti, ma direttamente riferita alla persona, al Sindaco e ai valori di cambiamento che è in grado di incarnare.

Cultura, strumento di coesione sociale

In questo contesto si fa spazio l’idea che la cultura per il suo valore di coesione sociale possa essere uno strumento fondamentale nello sviluppo delle città. La cultura non intesa però nella sua veste più tradizionale, una cultura quindi che si allontana dai suoi modi più consolidati e si avvicina invece alla nuove forme di creatività, ai linguaggi emergenti, cercando un dialogo con le nuove generazioni. In una fase improvvisamente post ideologica, i giovani iniziano a muoversi e a sperimentare con molta più libertà di quanto fatto in precedenza, muovendosi da un’esperienza all’altra con interesse e curiosità senza più steccati o vincoli pregiudiziali.

Questo crea anche molta preoccupazione, ansia e incertezza negli adulti e quindi nei decisori politici: non a caso nasce in questa fase l’espressione generazione X. Una generazione senza più riferimenti certi, caratterizzata da una forte perdita di valori e interessi, molto influenzata dalla cultura pop americana e britannica che in quegli anni vede in particolare l’esplosione del fenomeno del grunge e dei rave.

Gli eventi e il recupero dei luoghi

Questo processo di recupero dei luoghi non procede in maniera lineare e continua, ma in alcuni casi con strappi, accelerazioni ed episodi che segnano poi la storia di questi luoghi. Un ruolo importante lo assumono gli eventi che hanno una funzione di trasformazione temporanea di questi luoghi, riuscendo a imprimere un’accelerazione determinante nell’immaginario collettivo.

È questo il caso della Biennale dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo, che iniziò a prendere forma già verso la fine degli Anni ‘80 per iniziativa dell’ARCI e grazie alla quale nel 1997, a Torino, viene riaperta la Cavallerizza Reale (la famosa Biennale dell’Acciuga), mentre nel 1999 riapre il Mattatoio di Testaccio a Roma.

La Biennale è uno di quegli esempi più evidenti di come le amministrazioni cittadine, attraverso il recupero dei luoghi e con l’uso degli eventi, riescano a creare quei ponti di innovazione e dialogo con realtà emergenti, spesso al di fuori dei circuiti più consolidati della cultura, offrendo spazi e opportunità e contribuendo a una nuova possibile relazione tra la produzione culturale e il pubblico, diversa nelle sue forme, nei suoi impatti, nel suo valore sociale e non strettamente culturale o al limite di puro intrattenimento.

Gli anni 2000

Un aspetto interessante di come questa vicenda abbia poi avuto corso negli anni 2000 è testimoniata dalla difficoltà stessa di ricostruirla, si trovano oggi poche tracce, documenti e di certo non adeguate occasioni di riflessione.

In parte questo è dovuto a un rapido cambiamento di contesto a partire dagli anni 2000:

  • da un lato il fenomeno di dispersione e perdita che, a partire dai fatti di Genova 2001, chiude una stagione importante della controcultura in Italia e della sua visione alternativa delle nostre società;
  • dall’altro, la perdita di spinta innovativa di quella stagione politica che vedeva appunto al centro le città e le loro amministrazioni.

Nello stesso tempo, va poi considerato che l’avvento della rete, del digitale e dei social ha mutato profondamente le forme con cui le nuove generazioni hanno continuato a sperimentare forme di produzione culturale, innovazione creativa, condivisione e distribuzione di contenuti ed esperienze. Anche per questo i processi di trasformazione di alcuni luoghi hanno subito rallentamenti, brusche interruzioni, cambiamenti di orizzonte e di nuovo sia la Cavallerizza che il Mattatoio ne sono ampi testimoni.

Il fenomeno dei “Centri Sociali”: giovani e nuovi spazi

Un ruolo molto importante è stato giocato da una serie di spazi autonomi, autogestiti e indipendenti che vanno genericamente sotto il nome di centri sociali occupati. Già dalla metà degli anni ’80 questi spazi avevano iniziato ad avere la funzione di collante e relazione in quegli interstizi sociali dove esperienze che potevano diventare da limite a deriva, trovano invece uno spazio di inclusione e guida. Askatasuna a Torino, Villaggio Globale e Forte Prenestino a Roma, Leoncavallo a Milano, Officina 99 a Napoli sono solo alcuni dei luoghi in cui le controculture trovano spazio, ascolto e sviluppo.

È grosso modo in questo contesto che il tema del recupero dei luoghi nelle nostre città e della loro destinazione culturale assume un valore di grande respiro politico e sociale. I casi più significativi di questo processo di trasformazione sono il Mattatoio di Testaccio a Roma, la Cavallerizza Reale a Torino, i Cantieri della Zisa a Palermo, la Fabbrica del Vapore a Milano. Questo fenomeno ha poi una serie di riferimenti ed esperienze paragonabili in Europa, come il Matadero di Madrid, il 104 a Parigi, la Friche la Belle de Mai a Marsiglia, il Radialsystem a Berlino, la Cable Factory a Helsinki per citarne alcuni.

Va inoltre considerato che alcune decisioni in relazione a questi luoghi, assunte in una fase di propulsione e di entusiasmo, prevedevano tempi di attuazione lunghi e processi realizzativi complessi. Questo ha prodotto un quasi normale disallineamento dei tempi, per cui la conversione di quei luoghi è rimasta legata all’idea di partenza, che però oggi trova meno rispondenza di allora in un contesto inevitabilmente profondamente mutato.

Non solo, il progressivo recupero di questi spazi ha posto questioni importanti di sostenibilità nella gestione degli stessi in termini economici e organizzativi. Per questo in buona parte ci si è affidati poi a istituzioni culturali consolidate, con già adeguati sostegni pubblici come gli enti teatrali, le università, i sistemi museali. I luoghi hanno così perso parte dell’originalità che li caratterizzava, al contempo le istituzioni si sono almeno in parte aperte a forme e modi di produzione e gestione culturale più innovative delle loro consolidate.

Cultura e luoghi da rigenerare, per una riflessione

Di certo, quello che si è via via maggiormente consolidato nei decisori politici e più diffusamente nell’opinione pubblica è l’assunto che la destinazione culturale sia quasi sempre la soluzione più idonea per avviare il recupero di grandi aree dismesse, industriali e non solo.

In tal senso, nelle grandi città del Nord (Milano, Torino, Genova) sono molteplici i casi di questo tipo: a Milano, le ex Officine Ansaldo oggi sede di Base Milano e del MUDEC in Via Tortona o l’Hangar Bicocca, prima Ansaldo Breda e poi Pirelli; a Genova l’opera di recupero dei docks fronte porto con il GALATA e l’Acquario; a Torino, oltre alla Cavallerizza Reale, le OGR, le Fonderie Limone e così via. La cultura è sempre la risposta giusta a queste esigenze? O meglio, che tipo di proposta culturale può meglio adattarsi ai bisogni espressi e inespressi di un territorio e delle sue comunità? Qui risiede una responsabilità del mondo della cultura, soprattutto di progettisti e produttori per evitare di nascondersi dietro all’idea che la cultura sia per assunto un bene e un valore superiore agli altri.

La produzione culturale può e deve accrescere la sua capacità di impatto sociale, favorire integrazione, innovazione, cambiamento. Le grandi opportunità che il recupero di certe aree producono non devono rimanere fini a se stesse, ma affrontare in maniera aperta, originale e inedita la sfida di costruire un rapporto forte, aperto, verso il cambiamento con le persone, le comunità. Il Polo del ‘900 è pienamente inserito in questa dinamica. Realizzato negli ex Quartieri Militari di Torino, ha davanti a sé l’impegno di contribuire a un’ulteriore fase di rigenerazione di quell’area della città a ridosso del Quadrilatero Romano e di innovare dall’interno pratiche e proposte culturali che ne facciano un luogo di storie presenti e future, abitato, vissuto, inclusivo.

Un luogo che offra servizi innovativi, sempre più accessibile, sostenibile e in grado di contribuire allo sviluppo di pensieri molteplici, diversi, stimolando nelle persone interesse, curiosità e attenzione verso ciò che è altro da quello che già conosciamo o abbiamo.

Questo articolo è uscito sul numero 2/2022 di Rivista Solidea, pubblicazione promossa dall’omonima Società di mutuo soccorso e parte del network del nostro Laboratorio.

 

Foto di copertina: Il Centro Sociale Askatasuna di Torino