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La società contemporanea è più complessa di quella che ha visto nascere il metodo della programmazione. Questo vuol dire che è cambiato (e di molto) il contesto in cui chi pianifica deve operare: i modelli da applicare sono mutati, così come strumenti e tecniche.
Oggi, ci sono più soggetti «più opzioni possibili per i singoli attori, meno regole del gioco stabili su cui basarsi, più vincoli da rispettare» (Palumbo 2002, 139; Cesareo 1988). Sono aumentate le «variabili in gioco» e, allo stesso tempo, è diminuita la «capacità euristica» di quelle strutturali e di appartenenza (livello di istruzione, posizione sociale, sesso, età, etc.) nello spiegare i comportamenti individuali; è cresciuto il numero degli operatori istituzionali e le relazioni tra di essi; si è velocizzata la diffusione del cambiamento stesso (non solo tecnologico) nelle sfere di attività dell’uomo.

Questi mutamenti sociali hanno interessato sia la domanda di servizi e interventi (rischi e bisogni che si presentano agli individui nel corso della loro esistenza), sia l’offerta (politiche e azioni messe in campo).
– Dal lato della domanda, i cambiamenti sono avvenuti tanto nei “contenuti”, cioè nel tipo di bisogni e rischi, tanto nel “modo” in cui gli stessi sono concretamente fronteggiati dagli individui. Sotto il primo profilo, si è registrato il passaggio dai “vecchi” ai “nuovi” rischi sociali (Fargion e Gualmini 2012): fino ad alcuni decenni fa, quelli principali riguardavano intere categorie e gruppi sociali abbastanza omogenei: la disoccupazione, la vecchiaia, la malattia, che colpivano le persone in maniera molto simile l’una dall’altra. Tali rischi erano standardizzati, quasi “collettivi” e fronteggiabili con misure relativamente uniformi. A partire dagli anni ottanta, i rischi sono diventati più selettivi (targeted) e individualizzati: riguardano persone singole, percorsi professionali individuali (e non più intere categorie), famiglie molto diverse fra loro, etc.; essi sono più sfuggenti e più difficili da affrontare in termini di risposte collettive (ibidem), con evidenti ricadute sui processi di programmazione sociale. Il “modo” in cui i rischi vengono fronteggiati, poi, risente dell’aumento della riflessività degli individui e del sistema sociale nel suo complesso. I destinatari di servizi e interventi sono più consapevoli dei propri diritti rispetto al passato, mediamente più informati, meno all’oscuro delle dinamiche che li riguardano. Come afferma Robertson (2003), la pressione sui servizi e la complessità delle richieste che si prospettano a chi decide nella sfera pubblica sono notevolmente aumentate.
– Dal lato dell’offerta, il principale cambiamento è l’affermarsi del welfare mix. Le politiche sociali, intese in senso ampio, non corrispondono soltanto a quelle pubbliche: altri soggetti intervengono nella cura dei cittadini e nella promozione del loro benessere; principalmente, mercato; Terzo Settore; famiglie, reti parentali e sociali e associazioni intermedie. Il sistema di protezione sociale complessivo si basa, appunto, su un mix: una gestione coordinata di politiche e interventi da parte di questi tre attori e del settore pubblico.

Il quadro di riferimento della programmazione sociale, com’è evidente, si è complicato. Ma l’aumento della complessità sociale, l’emersione del Terzo Settore, l’affermarsi del welfare mix, gli orientamenti di politica pubblica che derivano dalla governance e dalla sussidiarietà orizzontale, non devono tradursi in una sfiducia nel metodo e nelle finalità della pianificazione. L’importanza della programmazione cresce proprio perché la realtà su cui interviene è più articolata, più eterogenea, più difficile da affrontare. In un contesto del genere, è necessaria più che mai un’attività razionale, “di pensiero”, che permetta di definire una prospettiva, che consenta un’organizzazione delle risposte ai crescenti e diversificati bisogni degli individui.

L’aumento della complessità sociale, però, non può non avere conseguenze sui modelli e sugli strumenti della programmazione. Le riassumiamo nei tre punti che ci sembrano fondamentali.

  • “Tenere assieme” esigenze ed interessi diversificati

Rischi e bisogni diversificati e individualizzati e crescita dei soggetti che si occupano di welfare comportano il sostanziale superamento della “linearità verticale” e della logica top-down. L’accento, oggi, va posto su un altro aspetto: quello della partecipazione. Nella società attuale, la programmazione non può che essere condivisa e concertata ed avere come parola d’ordine il tenere assieme, che deve procedere verso tre direzioni:
– verso gli enti locali, dando più spazio a quelli più vicini ai cittadini, cioè i Comuni; non mancano gli strumenti legislativi e amministrativi per favorire coinvolgimento e assunzione di responsabilità, nella piena attuazione del principio di sussidiarietà (verticale);
– verso l’integrazione tra le diverse politiche che si occupano di benessere, in modo da superare un’impostazione compartimentale, settoriale e frammentata e arrivare ad un’organizzazione di servizi e interventi a rete, come del resto prevede la legge 328/2000;
– verso il coinvolgimento a livello “orizzontale” della collettività, favorendo la mobilitazione di tutti i soggetti e attraverso la valorizzazione e la promozione di coloro che possono apportare un fondamentale ausilio al benessere di tutti.

  • Adattare i modelli e utilizzare strumenti flessibili

Sotto il profilo metodologico/operativo, pianificare, oggi, significa non seguire modelli precostituiti, ma adattarsi all’incertezza e alle caratteristiche del contesto e degli attori che vi insistono, individuare percorsi “duttili”. La complessità della società richiede «approcci flessibili, in grado di convivere con l’incertezza, tenendo conto nelle varie fasi del processo della molteplicità dei soggetti interessati ai temi del welfare locale» (Maggian 2011, 368).

  • Riconoscere al settore pubblico un ruolo di garanzia, regia e regolazione

Nel welfare mix, il settore pubblico gioca ancora il ruolo prioritario, avendo il compito più rilevante nel garantire la risposta ai bisogni ed essendo “sovraordinato” rispetto agli altri attori. Esso è dunque il regolatore ultimo delle politiche sociali, il “contenitore” dei processi di produzione del benessere e il principale fornitore di servizi e interventi (Ferrera 2006). Il ruolo del pubblico, però, è, sì, fondamentale, ma diverso rispetto al passato; esso deve agire
– come “garante finale” dei bisogni dei cittadini, perché deve tutelarli dai rischi in cui incorrono nel corso della vita e assicurare una risposta alle situazione problematiche;
– come regolatore e regista principale di tutto il sistema di welfare, perché coordina l’intera superficie all’interno della quale prendono corpo servizi, interventi e azioni finalizzati alla realizzazione del benessere degli individui.

Coloro che pianificano devono tener presente che il soddisfacimento dei bisogni, nell’attuale e complessa società contemporanea, avviene anche all’esterno degli interventi erogati dal pubblico, cioè attraverso il mercato profit, il Terzo Settore e le famiglie, le reti informali, le associazioni intermedie: il settore pubblico, nella programmazione sociale, deve “tenere assieme” interessi ed esigenze diversificate, utilizzare strumenti e modelli flessibili e coordinare e regolare quanto avviene al di fuori della sua competenza diretta. Un compito certamente non marginale.

 

Riferimenti

Ugo Carlone (2014), Introduzione alla programmazione sociale. Come, cosa, perché, Perugia, Morlacchi

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