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Gli avvenimenti storici degli ultimi due anni hanno avuto una portata tale da non permetterci più riflessioni che prescindano da essi. La pandemia globale di Covid-19 ha stravolto le nostre vite sotto diversi aspetti, ma, più degli altri, è entrata in crisi una dimensione cruciale per la società contemporanea: la progettazione nel medio e lungo termine.  Tutto a un tratto, si è palesata la nostra incapacità di prevedere – e quindi programmare – il futuro.

Cigni neri

Il Covid-19, d’altronde, è un “cigno nero” (o “wild card”), ossia un avvenimento improbabile, ma altamente impattante sull’ecosistema sociale, economico e ambientale nel quale viviamo (Arnaldi e Poli 2012, Taleb 2015).

Negli ultimi decenni, però, la storia globale è stata costellata da cigni neri: le catastrofi ambientali, le crisi economiche e l’accelerazione sociale (Rosa 2015) sono un tratto distintivo della società del rischio, caratterizzata da un crescente livello di incertezza (Beck 2013, Dente 2011). Immersi in un contesto sempre più imprevedibile, gli abitanti della società del rischio sono ossessionati dalla previsione del futuro. Mai come ora la programmazione, la costruzione di visioni strategiche, lo studio di trend attraverso la statistica hanno avuto un ruolo così cruciale.

Eppure, ritengo che l’esperienza degli ultimi due anni di pandemia abbia dimostrato l’impossibilità di poter prevedere (e prevenire) tutto. La reazione che spesso abbiamo di fronte ai cigni neri è quella di ricostruire a posteriori la loro prevedibilità (Taleb 2015) e il Covid-19 non ha fatto eccezione: diversi commentatori hanno affermato che si trattava di una tragedia prevenibile. Di conseguenza, la direzione indubitabilmente migliore è sempre quella della prevenzione, della previsione, della programmazione. È come se fossimo tutti intenti nella ricerca di imbrigliare il futuro, che però si è dimostrato essere un cavallo imbizzarrito che non ha nessuna intenzione di essere domato.

Siamo davvero capaci di anticipare?

Arnaldi e Poli (2012) distinguono tra tre tipologie di approcci al futuro: forecast, foreseeing e anticipation.  Il primo fa riferimento alle previsioni basate sull’analisi dei trend attuali e passati, secondo l’assunto che ciò che accade oggi accadrà anche in futuro; il secondo consiste nella costruzione di scenari possibili, siano essi probabili o improbabili; il terzo non si limita alla previsione, ma passa all’azione anticipatoria, che cerca cioè di modificare o affrontare i diversi scenari futuri.  Se l’approccio promosso dagli esperti di Futures Studies (ne abbiamo parlato recentemente qui) è quello dell’anticipazione, allora è necessario costruire degli scenari dei futuri possibili e probabili, per poi elaborare delle azioni preventive che possano prepararci all’avvento di tali situazioni.

Di fatto siamo tutti convinti che un’azione anticipatoria sia meglio di una reattiva, ed è certamente vero. Tuttavia, siamo certi che sia sempre possibile prevedere tutti i futuri possibili? O piuttosto, dal momento che agiamo secondo una razionalità limitata, non stiamo solamente facendo un elenco dei futuri immaginabili? E, anche qualora fosse possibile esplorare tutto l’albero sinottico delle possibilità, saremmo sempre capaci di attivare azioni preventive per ogni diversa situazione?

Se partiamo dal presupposto che una previsione e un’anticipazione perfette non siano mai possibili – ed è ciò che voglio sostenere in questo articolo –, diventa chiara l’importanza, in fase progettuale, di mettere in conto l’implementazione di azioni reattive rispetto agli imprevisti. Credere di poter prevedere e programmare il futuro in ogni suo aspetto è utopico, se non distopico: il futuro, come del resto il successo e il fallimento delle nostre azioni, dipende in buona parte dalla fortuna e da eventi inattesi. Potremmo dire, ribaltando la celebre espressione latina, che è più la fortuna a fare i suoi uomini, che l’uomo a fare la sua fortuna.

Programmare, progettare, improvvisare

Non voglio sostenere che le azioni anticipatorie siano inutili e nemmeno che non siano migliori di quelle reattive. Piuttosto, ritengo che queste ultime siano un necessario complemento delle prime. Purtroppo, infatti, le previsioni sono utili solo quando sono esatte: se sono errate, non sono capaci di indicarci come reagire a una situazione inattesa. Lo stesso vale per la programmazione e l’anticipazione, che talvolta diventano inutili esercizi di colonizzazione del futuro: possono avere una valenza terapeutica delle nostre ansie, ma raramente riescono a essere completamente esaudite nei loro dettagli. È in questi momenti – quando ci troviamo di fronte ad una situazione imprevista, quando le nostre previsioni si sono rivelate sbagliate e non abbiamo più appigli o istruzioni da eseguire – che saper improvvisare diventa una competenza importante.

L’eccessiva enfasi sull’anticipazione non solo aumenta la nostra ansia prestativa, ma può renderci più incapaci nell’arte d’improvvisare. Paradossalmente, infatti, chi è più abile nell’anticipazione è meno abituato a ritrovarsi in situazioni inattese, pertanto ha una minore competenza reattiva. È in questo senso che ritengo sia importante valorizzare l’improvvisazione nella progettazione, in particolare in quella sociale.

Anzi, la coesistenza di improvvisazione e anticipazione è proprio ciò che distingue la progettazione dalla programmazione. “Progettare” significa letteralmente “gettare avanti, nel futuro”, un’azione ben più aperta all’imprevisto rispetto al “programmare”, che invece significa “scrivere il futuro”, chiudendolo in un testo definito. È come se la progettazione si ponesse l’obiettivo di gettare degli input, come sassi nel mare futuro, con l’intento di generare un cambiamento, ma nella consapevolezza di non poterne controllare del tutto gli effetti. È per questo che l’improvvisazione si può solo progettare e non programmare: nel secondo caso, infatti, l’implementazione è prevista come una mera esecuzione di un piano che è già stato scritto, mentre nel primo c’è lo spazio per quel continuo lavoro di aggiustamento e adattamento dei piani iniziali che caratterizza il lavoro in ogni contesto sociale.

Ciò che voglio sostenere in questo articolo, dunque, è l’importanza dell’improvvisazione come strumento per la progettazione. Per comprenderne i meccanismi e le possibili applicazioni al lavoro sociale e di comunità, ci rivolgeremo – grazie alle ricerche condotte da diversi autori negli ultimi decenni – ad un ambito in cui l’improvvisazione è stata studiata e praticata parecchio: il jazz.

Improvvisare è un’arte

L’improvvisazione è l’unico modo che abbiamo per reagire all’imprevisto, eppure si tratta di una pratica poco valorizzata al di fuori dell’ambito artistico. Chi improvvisa è considerato poco abile nel proprio lavoro, o al contrario dotato di una particolare capacità innata che gli permette magicamente di riuscire senza sforzo (Sparti 2005, 2019).  In entrambi i casi si presume l’assenza di preparazione e competenza: niente di più falso.

Se prevedere e pianificare sono una scienza, improvvisare è un’arte, e in particolare un’arte performativa al pari del teatro, della musica e della danza (Hatch 1997, 1999). In tutte queste discipline è richiesta grande preparazione e competenza, soprattutto quando si esprimono attraverso l’improvvisazione. Come sosteneva il sassofonista Lee Konitz, bisogna essere molto preparati per agire senza preparazione.

L’arte dell’improvvisazione non è affatto qualcosa di relegato al mondo dell’arte. Tutti noi improvvisiamo quotidianamente: l’atto stesso del parlare richiede una certa dose di intuizione e spontaneità, sebbene guidato dalle regole grammaticali. Seguendo la riflessione del sociologo Davide Sparti, potremmo estendere questa lettura all’agire sociale più in generale: il nostro comportamento è influenzato dalle norme sociali, ma non ne è mai completamente determinato. Più che applicare tali norme, potremmo dire che improvvisiamo su di esse, interpretandole, seguendole o talvolta trasgredendole.

Classica e Jazz

Lo stesso ritengo debba valere per la progettazione sociale: il modo migliore per poter implementare azioni che siano in parte anticipatorie e in parte improvvisate è quello di elaborare un canovaccio che guidi l’azione senza determinarla completamente. La programmazione, nella sua versione più estrema, prevede che venga in un primo momento elaborato un piano che sarà pedissequamente eseguito. È esattamente ciò che accade per chi esegue uno spartito di musica classica: le note da suonare sono già scritte sul pentagramma e la bravura del musicista sta nel trasferirle e farle vibrare sul proprio strumento.

Ma se la programmazione è musica classica, la progettazione è musica jazz. Gli spartiti jazz non specificano tutte le note che andranno eseguite, ma trascrivono il tema (melodia) principale sulla quale si eseguirà l’improvvisazione. Anche l’accompagnamento è indicato esclusivamente tramite il nome in lettere degli accordi, che il musicista sceglierà come meglio adattare durante la propria esibizione. Così, anche per la progettazione è importante offrire delle indicazioni, degli spunti, qualcosa su cui improvvisare.

Perché progettare musica jazz dovrebbe essere meglio di programmare musica classica? La risposta è che in alcune situazioni può rivelarsi più flessibile, adattiva e capace di reagire all’imprevisto. Non si tratta, però, solamente di progettare in maniera differente, ma anche di prepararsi per l’esibizione: non ci si può improvvisare improvvisatori.  Diventare esperti nell’arte dell’improvvisazione, infatti, ci può aiutare a progettare meglio.

Quanto conta l’intuizione

Lo psicologo tedesco Gerd Gigerenzer (2011) ha sottolineato come in alcuni casi le decisioni intuitive siano più efficaci ed efficienti di quelle basate su un ragionamento logico-razionale. Gigerenzer sostiene che la valutazione di troppe opzioni in gioco non sia solo poco efficiente in termini di risorse impiegate, ma confonda il decisore nel prendere una scelta di maggiore qualità. L’intuizione, al contrario, cerca di eliminare le informazioni in eccesso, concentrandosi su pochi dati che permettono di scegliere più agevolmente. Ciò non significa che l’intuizione sia sempre migliore rispetto alla logica, ma che in alcune situazioni possa dare un vantaggio.

L’improvvisazione si esprime in una fitta serie di micro-decisioni intuitive, di cui la conoscenza tacita e l’intelligenza incarnata (embodied intelligence) sono componenti fondamentali (Sparti 2005). D’altra parte, la sua caratteristica peculiare è quella di condensare in un unico momento l’atto dell’ideazione e quello dell’esecuzione (Sparti 2019; Hatch 1997). La programmazione, al contrario, separa nettamente questi due momenti.

La progettazione, dunque, dovrebbe rappresentare una parziale separazione dell’ideazione, che viene avviata parzialmente in un primo istante, e completata solo con l’esecuzione. È come se una parte del pensare rimanesse sempre strettamente legata al fare.

Due tipi di improvvisazione

È necessaria, però, un’ulteriore distinzione tra due tipi di improvvisazione che vengono praticati sia nell’ambito artistico, che in quello organizzativo. Da un lato vi è chi improvvisa volontariamente perché possiede le competenze per farlo, dall’altro chi è costretto a improvvisare dalla propria incompetenza (Sparti 2019).

Hatch (1997) definisce questa seconda categoria come faking, una finzione attraverso la quale si cerca di nascondere la propria improvvisazione. Ne è un esempio il medico che non conosce i sintomi e la malattia del proprio paziente, ma comunque cerca di salvare la faccia, fingendo di avere la situazione sotto controllo e prendendo tempo, per poi consultarsi con i colleghi in privato chiedendo un supporto. Credo sia una situazione capitata almeno una volta nella vita a tutti i professionisti, e che caratterizza l’improvvisazione come risposta a una situazione di crisi.

Ma, nell’ambito artistico, vi è chi improvvisa volontariamente, conscio delle proprie competenze che gli permetteranno di affrontare una situazione inattesa. È l’esempio dei musicisti jazz, dei rapper che si cimentano nelle gare di freestyle, dei poetry slam, delle improvvisazioni teatrali. Tutti questi artisti si mettono volontariamente “nei pasticci”. È proprio su questo secondo tipo di improvvisazione che vorrei soffermarmi, in quanto rappresenta ciò che intendo con l’ossimoro “progettare l’improvvisazione”. Solo così potremo allenarci a essere impreparati.

Le regole dell’improvvisazione

Fino a questo punto abbiamo sostenuto come l’improvvisazione possa essere parte integrante della progettazione, come sia un’attività che richiede delle competenze che possono essere apprese con la pratica. Ma se siamo di fronte a una pratica che non è totalmente discrezionale o aleatoria, possiamo individuarne delle regole? Partendo dai lavori di Sparti (2005) e Hatch (1997) ho costruito (con nessuna pretesa di esaustività) un elenco di sei regole dell’improvvisazione. Il riferimento sarà al mondo musicale, come metafora per la progettazione e il lavoro in ambito sociale.

1. Improvvisare su qualcosa

Come sosteneva il contrabbassista Charles Mingus: “You can’t improvise on nothin’, man. You gotta improvise on somethin’Non puoi improvvisare su nulla. Devi improvvisare su qualcosa”. Si può improvvisare sulla melodia, sul ritmo, su una progressione di accordi, ma non si parte mai da una tabula rasa. Anche in ambito teatrale vale la stessa regola: i comici Ale e Franz nel programma “Buona la prima” ricevevano sempre un input esterno che fornisse loro una tematica, una situazione a partire dalla quale costruire la propria esibizione. Le canzoni jazz generalmente seguono una struttura: si parte con l’esecuzione di una melodia (tema) predefinita dallo spartito, sulla quale progressivamente prende vita l’improvvisazione. Solo alla fine del brano si torna a replicare il tema iniziale, arricchito delle innovazioni sperimentate durante l’improvvisazione (Hatch 1999). A questo dovrebbe servire la progettazione: fornirci una traccia su cui poter improvvisare, sperimentare e innovare.

2. Conoscere le scale

Lo abbiamo già detto più volte, non si nasce improvvisati. Bisogna conoscere bene la teoria musicale, sapere quali note possono accompagnarsi tra loro, identificare il ritmo, le dinamiche, la tonalità di un brano. Chi improvvisa ha uno stretto rapporto con la storia della musica, con le improvvisazioni che altri hanno sperimentato precedentemente, con le regole e le prassi consolidate del proprio genere (Hatch 1997). In altri termini, conosce il contesto in cui si muove e le sue norme. Il musicista non sa già quali note suonerà nella propria improvvisazione, ma ha ben presenti i vincoli e i limiti entro i quali deve restare.

3. Trasgredire le regole

L’improvvisatore non deve solo rispettare le regole, ma deve anche infrangerle, portandole al loro estremo. Se non è originale allora l’improvvisazione è solo faking, una finzione attraverso la quale si cerca di salvarsi la faccia. Se vogliamo promuovere una progettazione innovativa dobbiamo muoverci nella direzione di un’improvvisazione trasgressiva nei confronti delle norme che generalmente vincolano il nostro contesto di azione. Spesso non si tratta di stravolgere le regole: essendo una pratica che si basa su un forte ancoraggio al passato, legata all’esperienza pratica e alle conoscenze tacite, l’innovazione prodotta è quasi sempre incrementale.

4. Cogliere l’attimo

Quando si improvvisa, nessuno sa che cosa sta per fare. Spesso l’azione compiuta dall’improvvisatore è imprevista anche da lui stesso. Tutto ciò che viene creato esiste solo per un istante, non era pianificato prima, e scomparirà un attimo dopo la sua nascita. È per definizione irripetibile e istantaneo. Per questo è importante cogliere l’attimo, prendere decisioni istantanee ed intuitive, capaci di sorprendere noi stessi.

5. Non avere paura di sbagliare

Una caratteristica dell’improvvisazione è la sua irreversibilità: non è possibile cancellare un passaggio poco riuscito, fermarsi o correggersi davanti al pubblico (Sparti 2005). Questo è ciò che rende l’improvvisazione un’attività altamente emotiva, e che può generare ansia da prestazione. È molto importante quindi avere la predisposizione d’animo adeguata: anche se non si è preparati, bisogna essere pronti. Non è una questione di competenze, ma di emozioni. La paura dell’errore solitamente inibisce la sperimentazione e quindi l’originalità. D’altra parte, si può sbagliare se non si ha uno spartito al quale attenersi? E l’errore non è in fondo quella trasgressione delle norme che auspichiamo si realizzi attraverso l’improvvisazione?

6. Andare a tempo

Ultimo, ma non per importanza, l’improvvisazione è una pratica ricettiva, nella misura in cui reagisce e deve essere in forte sintonia con le variazioni del contesto nel quale è immersa (Sparti 2005).

Quando un’orchestra esegue un’opera di musica classica l’attenzione che ciascun musicista deve dedicare a ciò che fanno gli altri è importante, ma non fondamentale. Il loro sguardo, infatti, sarà rivolto allo spartito, fiduciosi del fatto che se eseguiranno ciò che vi è scritto riusciranno a coordinarsi tra loro. È proprio questo meccanismo che rende lo spartito un formidabile dispositivo di collaborazione che permette il coordinamento di centinaia di elementi. Sebbene questa descrizione sia evidentemente una banalizzazione del complesso lavoro degli orchestrali – che senza le prove, l’ascolto reciproco e la guida di un direttore non potrebbero affidarsi ciecamente allo spartito – ciò che voglio sottolineare è come il momento dell’improvvisazione musicale, in assenza di uno spartito predeterminato, richieda un livello di ascolto reciproco molto più elevato.

È importante che i membri del complesso siano quasi un tutt’uno, si muovano simultaneamente, riconoscendo e reagendo alle variazioni che gli altri mettono in atto. Bisogna agire con attenzione più che con intenzione (Sparti 2005). Lo stesso vale anche al di fuori del mondo musicale: i piani elaborati attraverso la programmazione, così come lo spartito, agevolano la collaborazione, ma disincentivano l’abilità collaborativa. Se ciascuno si attiene al programma predefinito, non ci sarà bisogno di prestare attenzione e ascolto a cosa gli altri stanno facendo. La progettazione, invece, dovrebbe andare in un’altra direzione, cercando di tenere costantemente in contatto i membri del gruppo di lavoro. D’altronde non si improvvisa mai da soli. La natura ricettiva dell’improvvisazione, infatti, la rende inevitabilmente una pratica intersoggettiva e non individuale: si tratta sempre di reagire, rispondere e adattarsi a stimoli prodotti da qualcun altro (Sparti 2005).

Prospettive per l’azione in campo sociale

Lungi da ogni pretesa di esaustività, questo articolo ha piuttosto l’intento di dare uno spunto di riflessione sul tema dell’improvvisazione per chi si occupa di progettazione in ambito sociale (e non solo). Più che uno spunto, una provocazione: possiamo progettare in modo da lasciare uno spazio all’improvvisazione? O – detto altrimenti – possiamo improvvisare sulle nostre progettazioni? E come è possibile realizzare questo obiettivo concretamente?

Personalmente, ritengo che il modo più efficace per muoversi in questa direzione sia quello della progettazione partecipativa. La partecipazione apre all’imprevisto: non è possibile quasi mai prevedere cosa faranno, penseranno o come reagiranno le persone coinvolte. C’è poco margine per programmare, e molto è inevitabilmente lasciato all’improvvisazione. Non possiamo prepararci a ogni possibile situazione, ma dobbiamo piuttosto essere pronti ad agire reattivamente, aggiustare il tiro in corso d’opera. Proprio per questo c’è bisogno di operatori competenti, capaci di trasgredire le regole, cogliere l’attimo, andare a tempo e che non abbiano paura dell’errore.

Allo stesso modo c’è bisogno di una progettazione, una traccia non eccessivamente invasiva, ma sufficientemente definita per fornire un oggetto, una base su cui improvvisare. Come l’improvvisazione volontaria, anche la partecipazione può essere dosata, si possono definire i momenti in cui delimitarla: come la maggior parte delle canzoni non è interamente improvvisata, nemmeno la maggior parte delle politiche pubbliche è completamente partecipata. Purtroppo, la natura performativa (e performante) dell’improvvisazione e della partecipazione generano ansia, in particolare tra chi è alle prime armi con questo tipo di processi (ma non solo!). Spesso reagiamo a queste paure con un aumento della programmazione. Al contrario, quello che voglio sostenere in questo articolo è che dovremmo diminuire (senza azzerare) la programmazione e aumentare le nostre competenze improvvisative. Solo in questo modo potremmo sentirci pronti anche se impreparati.

 

Bibliografia

  • Arnaldi, S. e Poli, R. (2012), La previsione sociale. Introduzione allo studio dei futuri, Carocci.
  • Beck, U. (2013), La società del rischio, Carocci.
  • Dente, B. (2011), Le decisioni di policy. Come si prendono, come si studiano, Il Mulino.
  • Gigerenzer, G. (2011), Decisioni intuitive: quando si sceglie senza pensarci troppo, Cortina.
  • Hatch, M. (1997), “Jazzing Up the Theory of Organizational Improvisation”, in Advances in Strategic Management, 14, pp.181-191.
  • Hatch, M., (1999), “Exploring the Empty Spaces of Organizing: How Improvisational Jazz Helps Redescribe Organizational Structure”, in Organization Studies, 20(1), pp.75-100.
  • Rosa, H. (2015), Accelerazione e alienazione, Einaudi.
  • Sparti, D. (2005), Suoni inauditi: l’improvvisazione nel Jazz e nella vita quotidiana, Il Mulino.
  • Sparti, D. (2019), Il disordine dell’interazione: l’improvvisazione come categoria sociologica. Quaderni di Sociologia, 81(LXIII), pp.27-45.
  • Taleb, N. N. (2015), Il cigno nero, Il Saggiatore.

 


Questo contributo è parte del Focus tematico Collaborare e partecipare, che presenta idee, esperienze e proposte per riflettere sui temi della collaborazione e della partecipazione per facilitare cooperazione e coinvolgimento. Curato da Pares, il Focus è aperto a policy maker, community maker, agenti di sviluppo, imprenditori, attivisti e consulenti che vogliono condividere strumenti e apprendimenti, a partire da casi concreti. Qui sono consultabili tutti i contenuti del Focus.

 

Foto di copertina: Graziano Maino, 2021