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Il 29 gennaio su Corriere Buone Notizie, inserto settimanale del Corriere della Sera, è stata pubblicata un‘inchiesta curata da Percorsi di secondo welfare sui Centri di servizio per il Volontariato. Di seguito trovate l’articolo di contesto di Davide Illarietti, giornalista del Corriere, e l’l’infografica curata da Sabina Castagnaviz sui dati annuali di CSVnet; qui invece trovate il commento firmato dalla nostra ricercatrice Elisabetta Cibinel.


Il volontariato in Italia ha più sportelli delle Asl, più iscritti dei partiti politici. Una giungla in cui anche i punti d’orientamento, dove i naviganti del Terzo settore approdano in cerca di direzione, secondo alcuni sono troppi. I Centri di servizio per il volontariato, istituiti nel 1991 da una legge oggi abrogata per «sostenere e promuovere» la cittadinanza attiva, stanno diminuendo e non è per forza un male. In Molise, per esempio, fino al 2015 erano tre, per un territorio grande un quinto della Toscana (che ne ha uno solo). In Calabria i centri sono cinque, ma dovrebbero scendere a tre. A Bolzano non ce n’è nemmeno uno. Squilibri e stranezze italiche. Di cui la legge delega del 2016 ha decretato la fine. Prima i lavori a questa grande impalcatura del Terzo settore erano delegati, per prassi, dallo Stato alle Regioni a colpi di decreti ministeriali. Risultato: i servizi a cui gli enti non profit possono accedere, nelle diverse zone d’Italia, variano molto assieme al numero di addetti e sportelli. Dove questi ultimi sono di più, non sempre i servizi sono migliori. Mapparli è un’ardua impresa in cui si cimenta ogni anno CSVnet, l’associazione-mantello dei Csv, che ha pubblicato a fine dicembre il suo rapporto annuale.

Qualcosa sta cambiando? Sì. Negli ultimi due anni i Centri sparsi lungo la Penisola sono diminuiti da 71 ai 64 attuali e, in futuro, dovrebbero scendere ancora (a 49). In Lombardia – il caso più «virtuoso» – le aggregazioni sono avvenute spontaneamente, creando dei comprensori multi-provinciali e dimezzando le sovrastrutture (6 centri al posto dei 12 pre-esistenti). Ma il processo è compiuto a metà, e non sono mancati i dibattiti. «È diffusa e in parte giustificata la preoccupazione che a una semplificazione possa corrispondere un calo di attenzione verso i singoli territori», spiega il presidente di Csvnet Stefano Tabò. La paura «non è tanto che diminuiscano i soldi: in questo senso – aggiunge – abbiamo ricevuto rassicurazioni sufficienti dalla politica. Semmai da parte di alcuni c’è il timore di dovere “rifare daccapo” un lavoro ormai ventennale». Per ora i timori non sono stati confermati. Il numero di sportelli attivi non è cambiato: 386 su tutto il territorio nazionale. Nemmeno è calato (molto) il personale retribuito, 821 impiegati (erano 843 nel 2016) di cui il 67 per cento donne.
 


Sono aumentati i beneficiari dei servizi, in tutto 48.161 soggetti
(+11,3%) che sono per lo più associazioni ma anche imprese, enti pubblici e gruppi informali (circa 2mila). Senza contare i comuni cittadini (37mila) che si sono recati agli sportelli in cerca d’informazioni e orientamento. «I dati fotografano un successo del servizio, a riprova che l’infrastruttura nel complesso è funzionante – commenta Tabò – e ben costruita. Ma c’è ancora molto lavoro da fare». Doppioni e sprechi da tagliare, anzitutto. I «tagli» saranno coordinati da un neonato Organo nazionale di gestione (anch’esso parto della Riforma) cui toccherà sovrintendere al processo e far tornare i conti. I soldi, si diceva: nel 2017 le spese correnti dei Centri sono ammontate a 45,5 milioni (1,1 milioni in meno) di cui il 45 per cento per gli stipendi del personale (22,3 milioni). A saldare il conto sono state le Fondazioni d’origine bancaria, che per legge destinano ai Csv un quindicesimo dei ricavi annui. In futuro – è la novità – parte delle risorse «verranno invece allocate per realizzare servizi centralizzati». Per esempio la reportistica, la raccolta di dati, una comunicazione su scala nazionale, elenca Tabò. «Tutti strumenti importanti che i singoli centri non potrebbero permettersi, e di cui potrà beneficiare la comunità intera del volontariato».

Infine c’è una trasformazione più sottile, ma profonda, che riguarda il «popolo» dei Csv. Da una parte a iscriversi non sono più (solo) associazioni tradizionali ma fondazioni, cooperative, gruppi informali: la voce «altro» si è ingrossata in un anno del 10 per cento. L’insieme è più «fluido» e «liquido» come l’impegno sociale delle nuove generazioni, che «sono meno legate all’associazionismo tradizionale e più orientate a un volontariato episodico e mutevole, ma non per questo meno importante», ricorda Lorenzo Bandera del laboratorio Percorsi di Secondo Welfare, think tank del Centro di ricerca Einaudi di Torino e dell’Università Statale di Milano. «L’offerta dei servizi dovrà essere ricalibrata sulle esigenze di questo nuovo tipo di utenza, o il rischio è di non rimanere al passo con i cambiamenti in atto». L’altro dato «sorprendente» è come il popolo dei Csv sta affrontando la sfida. Studiando. Le ore di formazione erogate nel 2017 sono state 32.647, un quinto in più rispetto all’anno precedente. Segno che il volontariato «non è più un’attività da svolgere a tempo perso, ma qualcosa che i volontari vogliono fare nel modo migliore possibile», sottolinea Bandera. Intanto anche gli «sportelli» sono sempre più hub, luoghi ibridi e multifunzionali dove non si fa la fila ma si lavora insieme, come in tanti coworking del sociale. «Questo almeno è l’obiettivo a cui puntare» conclude Bandera. Il processo, comunque, è già iniziato.