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Con la crisi economica, si stanno diffondendo numerose iniziative di contrasto alla povertà alimentare – banchi alimentari, supermercati solidali, ecc. (per approfondimenti vedi i nostri articoli su Emporio Parma, Portobello Modena e Banco Alimentare). Nonostante gli indubbi aspetti positivi di tali esperienze, non mancano critiche sulla loro efficacia.

Se n’è discusso alla 5^ European Public Policy Conference, Rethinking Poverty in the Developed World (per conoscere gli altri approfondimenti sulla conferenza leggi il nostro articolo), dove Stefan Selke, docente dell’Università di Hochschule Furtwangen, ha illustrato la sua ricerca su Tafeln – rete di food banks attiva in Germania – in base alla quale le food banks sarebbero una soluzione di emergenza, ma non sarebbero in grado di aiutare i poveri a trovare una reale via di uscita dalla povertà, correndo, anzi, il rischio di istituzionalizzarla. Questo perché la lotta alla povertà in uno Stato democratico non dovrebbe essere “scaricata” sulle iniziative di volontariato – le cui risorse e capacità di impatto sono, ovviamente, limitate – ma richiede profondi cambiamenti che solo politiche strutturali su larga scala possono attuare.

 

La ricerca

 
La ricerca di Selke parte dallo studio di Tafeln, organizzazione non profit nata in Germania nel 1993 per distribuire cibo ai senza tetto principalmente attraverso le eccedenze alimentari – si tratta prevalentemente di prodotti non commerciabili perché in scadenza o con confezioni danneggiate – e che oggi conta 906 sedi sul territorio tedesco. Tafeln funziona esclusivamente grazie all’aiuto di soci, sponsor e donatori e non riceve fondi dal governo federale, ma solo talvolta, dalle autorità locali.
La ricerca si basa su tre livelli di analisi: monitoraggio della situazione attuale, framework sociale; dimensioni del conflitto (Figura 1).
 

Figura 1 – Quadro analitico impiegato nel progetto di ricerca “Foodbank-Monitor“ (2011-2013)

Fonte: Selke, 2013.

 

Il monitoraggio della situazione attuale

 

L’analisi del contesto rivela innanzitutto un risultato poco soddisfacente nell’andamento della richiesta di aiuto: nell’85% dei casi essa appare in aumento, per il 13% uguale e solo nel 3% in calo (Figura 2).
 

Figura 2 – Andamento delle richieste di aiuto

Fonte: Selke, da Caritas NRW 2011.

Emerge, inoltre, un’alta disparità a livello territoriale e, in particolare, uno scarso equilibrio tra domanda e offerta che porta ad una situazione paradossale. Come si vede dalla figura 3, le aree dove le Tafeln sono più concentrate (figura a sinistra, densità di Tafeln), sarebbero in realtà, in molti casi, proprio quelle dove c’è meno necessità (figura a destra, livello ipotetico di diffusione sulla base dei potenziali clienti di Tafeln). Questo perché essendo così connesse al volontariato e al tessuto produttivo locale, sorgono dove i territori sono più ricchi di persone ed aziende sponsor e quindi, paradossalmente, dove c’è meno bisogno.
 

Figura 3- Disparità regionali (densità delle food banks – povertà)
Fonte: Sedelmeier, in Selke/Maar, 2011.

Dal punto di vista dei beneficiari, si tratta di una forma di aiuto che comporta fattori di stress fisico (attesa in coda, spazi inadeguati) e psicologico (vergogna, percezione di inferiorità, impossibilità di lamentarsi). Dal punto di vista delle motivazioni dei volontari, invece, prevale il desiderio di impiegare parte del proprio tempo svolgendo un’attività appagante (49%), seguita dalla ricerca di dare un significato alla propria vita. Si tratta dunque di motivazioni che, secondo l’autore, rendono difficile produrre valutazioni oggettive in quanto si basano su opinioni e sentimenti.

Guardando il quadro normativo che in Germania regola le food banks, ci sono molteplici norme che ne regolano il funzionamento e i criteri di accesso, mentre si abbassano i livelli richiesti per la qualità del cibo e del valore equivalente dell’aiuto ricevuto. A livello simbolico, le food banks assumerebbero quindi un valore ambivalente: positivo per i volontari, “dipinti” come everyday heroes, e per le aziende donatrici, che ne ricavano un ritorno in termini di immagine; negativo per gli utenti, per cui esse alimenterebbero il sentimento di esclusione sociale e la percezione di essere gli ultimi della società. Le donazioni da parte di privati, tra l’altro, sono l’opposto dell’aiuto incondizionato richiesto da un sistema di solidarietà istituzionalizzato in un welfare state.

Il framework sociale

Passiamo ora al contesto sociale. Le food banks hanno un’origine storica molto lontana, che risale alle forme di carità di epoca pre-moderna. Col tempo, si sono evolute e consolidate in modo strutturato al punto da determinare, oggi, la professionalizzazione del settore, per cui anche al suo interno si impiegano modelli di gestione aziendale (quality managment, logistica, ecc.), e l’imitazione da parte di esperienze simili (banco per bambini, banco per animali, banco di medicinali, banco degli occhiali).

Anche i presupposti con cui le food banks vengono “legittimate” stanno cambiando ed esse stanno lasciando la loro motivazione originaria, prettamente sociale – aiuto per i senza tetto – per assumere una ragione ”ecologica” – gestire gli sprechi alimentari in modo virtuoso – che però si fonderebbe, secondo Selke, su presupposti errati: lo spreco di cibo non ha raggiunto livelli così alti e, comunque, la povertà non può essere eliminata semplicemente attraverso il recupero delle eccedenze alimentari. Il boom dell’aiuto privato contro la povertà, infine, sarebbe parte della ristrutturazione neo liberale del welfare state avvenuta, in particolare, dopo la riduzione dei social benefits introdotta dalla legge Hartz del 2005 in materia di disoccupazione. La partecipazione e la mobilitazione civica segnerebbe, quindi, il passaggio dalle garanzie pubbliche alle mere attività volontarie.

Le dimensioni del conflitto

Le food banks sono generatrici di conflitti per diversi motivi, a cominciare dal giudizio sulla loro efficacia: c’è chi le apprezza e chi le rifiuta, chi ha aspettative di successo e chi teme comportino effetti negativi irreversibili. Da una parte il coinvolgimento di volontari è visto come socialmente desiderabile, ma dall’altra si teme che esperienze di rifiuto o vergogna vengano così socialmente legittimate e istituzionalizzate.
Ci sono poi conflitti su interessi e risorse: le food banks impiegano criteri economici (efficienza, crescita, market share) per questioni sociali e spesso tutelano legalmente nomi o aree di intervento per evitare “imitazioni” e proteggere la propria area di intervento.
Ci sono, infine, i conflitti a livello di social policy: le food banks sarebbero solo dei rimedi di breve periodo; in un’ottica di sostenibilità sembra essere più accettato usare il volontariato che le politiche pubbliche; la povertà viene stabilizzata perché supportata da aziende, agenzie sussidiate e privati.

Food banks e lotta alla povertà

Dall’analisi condotta sulle tre dimensioni Selke giunge quindi a proporre una serie di considerazioni di ordine più generale sullo strumento dei food banks in Germania. L’istituzionalizzazione delle food banks potrebbe avere importanti implicazioni sui diritti umani. Innanzitutto perché la povertà rischia di diventare una merce che può generare profitto; in secondo luogo perché i volontari diventano dei gap-fillers, dei “sostituti” che colmano le lacune dello Stato; infine, crea una privatizzazione del diritto al cibo, una dipendenza dalla volontà di sponsor e volontari che è l’opposto rispetto all’autonomia e all’indipendenza che si dovrebbero garantire agli individui in uno stato democratico.

In sostanza le food banks, limitando gli impatti della povertà, ostacolerebbero la formazione di un’advocacy che reclami diritti umani e sociali adeguati e la produzione di politiche strutturate su larga scala. Il problema – secondo Selke – è che in uno Stato democratico, la lotta alla povertà non può essere delegata alle associazioni di volontariato, il cui impatto ovviamente può essere solo limitato, ma richiede che vengano messe in atto politiche in grado di produrre cambiamenti su larga scala e di garantire a tutti i cittadini condizioni di vita accettabili.

Quali alternative abbiamo? Bisognerebbe prendere atto delle riflessioni fatte, dell’ambivalenza di questo tipo di aiuto e dei costi che si celano dietro l’economia della
povertà. Nella messa in opera di politiche e progetti, occorre passare dal paradigma mezzo-fine a quello del conseguimento di obiettivi socially integrative e, soprattutto, fare il modo che le food banks restino una soluzione di emergenza, ma non diventino una soluzione permanente ed istituzionalizzata di contrasto alla povertà, ruolo che compete, appunto, ad altre istituzioni e che richiede la messa in atto di politiche strutturali più complesse.

Quale valenza per la teoria? Alcune riflessioni

L’analisi di Selke presenta diversi spunti di riflessione, alcuni condivisibili, altri meno, almeno se applicata al contesto italiano. Che l’impatto sulla riduzione della richiesta di aiuto sia scarso è evidente, ma non inaspettato, se diamo per scontato che ai banchi alimentari si rivolgono per lo più persone che si trovano in condizioni di emergenza.

Quello delle disparità territoriali è invece un pericolo molto probabile, soprattutto se pensiamo al nostro Paese dove, infatti, le iniziative – in particolare i progetti di comunità e le iniziative laiche (non quelle religiose, che invece sono distribuite in modo abbastanza uniforme) – si stanno diffondendo con maggiore concentrazione al Nord, dove è presente un maggiore capitale sociale, un tessuto produttivo più ricco in termini di potenziali aziende solidali, ma anche un tasso di povertà piuttosto basso rispetto al Sud. Anche qui, inoltre, si rilevano spesso sovrapposizioni di aiuti e difficoltà di comunicazione tra enti che quasi competono nel sostegno agli indigenti, con evidente spreco di risorse.

Più difficile sembra invece che tali iniziative possano diventare una misura permanente ed istituzionalizzata di contrasto alla povertà, almeno in Italia, dove esse non hanno ancora raggiunto livelli di professionalizzazione e diffusione tali da pensare che si possa loro delegare la “competenza esclusiva” del sostegno agli indigenti. Non è una soluzione al momento realizzabile e tantomeno sarebbe auspicabile, in quanto, appunto, i banchi alimentari non avrebbero le risorse sufficienti per generare una riduzione della povertà su così larga scala, pur essendo validi strumenti per fornire aiuto immediato e soprattutto l’inclusione sociale dei beneficiari, oltre che attivatori di quel capitale sociale e di quel welfare di comunità essenziali per superare la crisi del nostro welfare state.
 

 

Riferimenti 

Die Tafeln

Tafelnforum

Stefan Selke website

 

I nostri approfondimenti sul tema

European Public Policy Conference

L’esperienza di Emporio Parma tra povertà economica e relazionale: intervista a Sandro Coccoi e Giacomo Vezzani

Modena: nasce Portobello, un "market di comunità" contro la povertà alimentare

Il Banco Alimentare: "Condividere i bisogni per condividere il senso della vita"

 

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