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La crisi del welfare state – e ancora prima la crisi economico-finanziaria – può essere adeguatamente compresa utilizzando una prospettiva psico-sociale. La cultura dominante del no limits che ci fa desiderare più di quanto ci serve, da un lato, e la crisi della partecipazione, dall’altro, determinano una crescita esponenziale delle nuove vulnerabilità. Intercettando queste vulnerabilità e re-includendole nella società attraverso processi partecipativi di tipo innovativo, possiamo recuperare risorse importanti ed attivare un circolo virtuoso che può aiutarci a superare contemporaneamente sia i problemi della democrazia che quelli del welfare. E’ questo l’assunto di fondo di Spazio Comune, rete di esperienze di cittadinanza attiva che dal 2010 connette laboratori, persone e organizzazioni di diverse regioni italiane prevalentemente sui temi del welfare. Abbiamo intervistato Gino Mazzoli, uno dei suoi promotori, che ci ha spiegato come la crisi possa costituire anche un’opportunità per riprogettare sistemi di welfare qualificati e a basso costo.

 

Che cos’è Spazio Comune? 

Spazio Comune è nato nel 2010 dall’iniziativa di un gruppo di persone provenienti da settori eterogenei (terzo settore, Università, servizi di welfare, amministrazioni locali, professionisti impegnati in ambito socio-sanitario, urbanistico ed economico, famiglie protagoniste di cittadinanza attiva) col sostegno della Fondazione “Volontariato e Partecipazione” di Lucca e della rivista Animazione Sociale e coinvolge complessivamente circa 300 persone in 8 regioni italiane.

Spazio comune si propone di tenere in stretta correlazione l’impegno sulle nuove povertà con i problemi della democrazia, muovendo dall’ipotesi che le contemporanee crisi dei legami sociali e della partecipazione politica possano essere utilmente affrontate se si dispone di ipotesi di lettura adeguate per comprendere la trasformazione in gioco. In particolare si ritiene decisivo scommettere sulle metodologie di lavoro cresciute in questi anni intorno al lavoro di comunità, della ricerca-azione e alle pratiche di cittadinanza attiva e soprattutto sulle energie carsiche presenti nell’area delle nuove vulnerabilità che attraversano una fascia crescente di cittadini in esodo silente dalla cittadinanza e che sono scarsamente percepibili dalle categorie di lettura in dotazione alla Pubblica Amministrazione, poiché si tratta di povertà che faticano a mostrarsi (la cultura dominante esige dalle persone un’iper-prestatività assoluta; mostrare di avere bisogno significa assumere le stimmate del “fallito”, di chi non è riuscito a reggere il ritmo performativo imposto dalla società)

Spazio comune
si colloca a metà strada tra la casa (lo spazio privato) e l’agorà (lo spazio pubblico). È uno spazio di connessione, ricomposizione e riflessione che ci pare poco presidiato e di cui ci sembra si senta la mancanza e l’urgenza. Si propone come luogo di confronto riflessivo in grado di consentire al proprio interno la coabitazione di differenze di appartenenze culturali e organizzative (tecnici e politici, terzo settore e pubblica amministrazione), di livelli gerarchici (operatori, quadri, dirigenti), di ambiti disciplinari e di impegno (sociale, sanitario, economico, urbanistico). L’impegno è quello di: mappare le esperienze che stanno muovendosi per fronteggiare in modo attivo le nuove vulnerabilità; connettere queste esperienze; costruire, a partire da queste connessioni, nuove ipotesi di lavoro; promuovere l’avvio di percorsi e progetti in grado di fronteggiare queste nuove criticità attraverso lo sviluppo di itinerari partecipati in grado di arricchire e articolare le attuali forme della democrazia.

La stessa storia di Spazio comune sembra dimostrare la plausibilità di queste ipotesi. Partiti nel marzo 2010 in una ventina di persone con l’idea di testare alcune ipotesi intorno a vulnerabilità e partecipazione, abbiamo realizzato, a partire da gennaio 2011, 5 incontri regionali di ‘carotaggio’ con lo scopo di raccogliere suggerimenti da portare in un convegno nazionale in grado di sdoganare il tema delle nuove vulnerabilità da una lettura esclusivamente welfaristica, evidenziando le eccezionali potenzialità innovative delle prassi partecipative.

In realtà ogni incontro regionale ha avviato un percorso partecipativo e si è costituito, con forme varie, in un laboratorio permanente di mappatura di esperienze, connessione e, in prospettiva, di promozione di nuove iniziative. I contesti attualmente attivi sono: Cosenza per Calabria, Puglia e Campania; Firenze per la Toscana; Bergamo e Milano per la Lombardia; Torino per Piemonte e Liguria; Monteveglio (BO) per l’Emilia-Romagna.

I laboratori hanno un sistema organizzativo leggero e informale che favorisce le relazioni dirette tra i partecipanti – gli incontri locali si svolgono al massimo tra 50 persone, in modo che tutti possano prendere la parola ed ascoltarsi; molti partecipanti hanno responsabilità (tecniche, amministrative e sociali) apicali, ma intervengono a titolo esclusivamente personale; sono spazi eterogenei che mettono insieme professioni, ruoli, generazioni e competenze diverse al fine di utilizzare sguardi interpretativi pluridimensionali e dare un’interpretazione polifonica della realtà. Uno dei presupposti di Spazio Comune è, infatti, che mettendo insieme codici diversi e favorendo il confronto e le relazioni tra le persone, si possano generare opportunità di incontro e di scambio che favoriscono progetti innovativi. Progetti, però, che verranno gestiti direttamente dalle persone e dalle organizzazioni che si incontrano, non da Spazio Comune.

La vostra parola chiave è “vulnerabilità”. Chi sono oggi i “vulnerabili”?

La nuova povertà ha una radice culturale
(in senso storico-antropologico): la cultura dominante è caratterizzata da una “bulimia di consumi” che ci induce/costringe a comprare, agire, desiderare in misura molto maggiore rispetto alle nostre possibilità. Lo slogan di quest’epoca (che dopo il ’68 è succeduta a un tempo gravido di costrizioni) è su per giù questo:“finalmente sei libero.. ma devi arrangiarti da solo nel mare di opportunità che ti circonda.. e se non riesci a realizzarti con tutto questo ben di Dio a disposizione, sei un fallito”. Così si genera uno stigma sotterraneo per chi non è all’altezza e di conseguenza una diffusa vergogna nel chiedere aiuto quando ci si trova in condizioni di bisogno. Le conseguenze di questa nuova condizione sono facilmente immaginabili: un’esistenza trafelata, la percezione di costante inadeguatezza rispetto alla perfezione dei modelli proposti. Non a caso depressione ed indebitamento sono problemi estremamente diffusi.


I vulnerabili oggi sono quindi persone in genere proprietarie di un’abitazione, con un titolo di studio che va oltre la scuola dell’obbligo, con un reddito da lavoro e tuttavia spesso con una condizione economica traballante, perché vivono al di sopra dei loro mezzi
(a diversi livelli di reddito e di status sociale), facendo un consistente ricorso ad acquisti rateali di ogni tipo. Quest’area presenta alcuni tratti trasversali ricorrenti: scarsa tenuta interna alla famiglia, debolezza delle reti parentali e di vicinato, vergogna nel chiedere aiuto, risentimento verso le istituzioni, scivolamento verso la povertà a motivo di eventi che un tempo appartenevano alla “naturalità” dello svolgimento della vita di una famiglia (perdita temporanea del lavoro, separazioni coniugali, anziani che da caregiver dei nipoti si trasformano in anziani dementi da assistere) e che oggi, in uno scenario segnato dall’evaporazione dei legami familiari e di vicinato, si trasformano in fattori di impoverimento.


La reductio ad welfare delle nuove povertà
, che prevale nelle riflessioni sui servizi socio-assistenziali, secondo cui l’area di vulnerabili coinciderebbe con quella dei “quasi marginali” esplosa numericamente a fronte della crisi e dell’indebolimento dell’airbag del welfare, è quindi discutibile. La crisi finanziaria infatti ha solo esasperato quella tendenza a vivere al di sopra delle proprie possibilità faticando ad arrivare a fine mese, che era già in atto dalla fine degli anni ’90 nei Paesi occidentali. Un problema culturale – di stile di vita – che non può essere affrontato con i tradizionali strumenti del welfare – casa, lavoro, formazione.


Lei sostiene che “il welfare state si trova a un punto di non ritorno. O si riprogetta insieme ai cittadini o rischia di erogare prodotti di nicchia”. Quali sono questi limiti? Perché parla di prodotti di nicchia?

Le difficoltà del nostro sistema di welfare, concepito negli anni ’70, sono principalmente dovute al fatto che si è verificata una trasformazione del suo oggetto di lavoro – la società – e che, a fronte di un aumento esponenziale delle persone bisognose, i nostri servizi possono accogliere solo un totale determinato di cittadini.

Il confronto a livello nazionale sullo Stato sociale registra oggi una polarizzazione del dibattito intorno a due modelli:
il primo tende, giustamente, a incentivare l’imprenditività della società civile, ma, illudendosi che abbia al suo interno energie autoregolative in grado di far fronte "naturalmente", senza un accompagnamento delle istituzioni, ai nuovi problemi che attraversano la società, rischia una deregulation selvaggia;

il secondo, altrettanto giustamente, dà fiducia a servizi che hanno accumulato nel tempo un’enorme know-how, ma che oggi, a fronte di profonde trasformazioni sociali, sono chiamati a riformulare le letture di cui dispongono, i metodi con cui intervengono e soprattutto a misurarsi col numero crescente di persone povere, o in via di impoverimento, che affollano la società. Rispetto a questa situazione il secondo modello rischia di gestire la decadenza della Pubblica amministrazione all’interno di nicchie certificate accreditate, mentre intorno crescono forme di auto-organizzazione sommersa o for profit.

Serve quindi un’altra via, non necessariamente intermedia, ma semplicemente diversa.
Se negli anni ‘80 la società era composta da 2/3 di cittadini benestanti, oggi abbiamo un ceto sempre più ricco – e sempre meno numeroso -, in basso i marginali e nel mezzo una nuova società di 2/3 di persone vulnerabili. È questo il nostro principale problema, sia per il welfare che per la democrazia. Non che i marginali debbano essere abbandonati, ma è sul ceto medio impoverito – dotato ancora di parecchie risorse che potrebbero venire messe in circolo – che dobbiamo concentrare i nostri sforzi. Nei servizi pubblici e nel terzo settore si fatica ad assumere quest’ottica perché ci si sente più sicuri di “fare la cosa giusta” stando vicini ai marginali.

Anche le forme e i numeri del disagio sono mutati. La rivoluzione dei vulnerabili ha creato un’area grigia tra il disagio conclamato – letto dal mandato affidato ai servizi, certificabile da diagnosi mediche e norme giuridiche – e le situazioni di agio, che sta attraversando la maggioranza dei cittadini, rispetto alla quale i servizi sembrano sprovvisti di strumenti di lettura e di intervento: la tossicodipendenza è passata da una visibilità nelle piazza a un diffusione estrema nelle case; la malattia mentale dalla schizofrenia facilmente diagnosticabile e “stoccabile“ all’interno di strutture protette alla diffusione della depressione e di svariati disturbi della personalità in tantissime famiglie; il drappello circoscritto di minori da “riformatorio” si è trasformato in bullismo diffuso in tante scuole. Sono problemi che non possono più essere affrontati con servizi di attesa, “a sportello”, o con “l’affido del caso problematico all’ufficio competente”.

Rispetto ai due modelli sopracitati, Spazio Comune ha quindi segnalato una terza via, che non è intermedia, ma semplicemente diversa: generare nuove risorse corresponsabilizzando i cittadini e le forze della società civile, con un forte ruolo di regia del pubblico visto non come gestore, ma come broker di territorio, capace di accompagnare la crescita di nuove risposte e di favorirne l’autonomia all’interno di un mercato sociale co-costruito e co-gestito da pubblico, privato sociale, cittadini attivi, imprese. Com’è possibile perseguire questa via e generare nuove risorse?

Se ci muoviamo nell’ottica del welfare tradizionale non riusciamo a risolvere nessun problema, dobbiamo invece cogliere lo tsunami psico-sociale sottostante e lavorare a partire da questo punto. Oggi c’è un intenso traffico tra i ceti sociali che individua una nuova mappa di tipologie di cittadini [Figura 1], partendo dalla quale possiamo trovare nuove strade di lavoro sia politico che sociale. 


Figura 1. La nuova mappa dei cittadini


Fonte: rielaborazione da Costruire partecipazione nel tempo della vulnerabilità, Supplemento al n. 259/2012 di Animazione Sociale.

Se utilizziamo due semplici variabili (le risorse economiche – asse verticale – e quelle di rete – asse orizzontale) emerge una mappa dei ceti sociali completamente rivoluzionata rispetto a 20 anni fa, quando si potevano distinguere nettamente due aree: da un lato i cittadini indigenti, portatori di disagi evidenti; dall’altro lato i cittadini in grado di farcela da soli di fronte a difficoltà e imprevisti e, anche in assenza di consistenti risorse culturali ed economiche, dotati di un ragguardevole patrimonio di reti. Oggi abbiamo l’area degli emarginati che costituiscono il target tradizionale dei servizi sociali, con scarse risorse economiche e legami sociali scarsi o assenti (quadrante D); una seconda grande area composta da cittadini istruiti e benestanti con una funzione di traino e leadership – i promotori di coesione – e il buon vecchio ceto popolare, oggi perlopiù monogenerazionale anziano, con meno risorse economiche ma un’alta tenuta interna della famiglia. Questa seconda grande area (quadranti B + parte alta di C) ha da sempre fornito le risorse più importanti per l’imprenditività politica e sociale, ma va restringendosi sul piano numerico; una terza area composta dal nuovo ceto popolare immigrato (quadrante C in basso) che ha buone reti familiari e in genere una visione più ottimistica del futuro rispetto a quella degli autoctoni; un’ultima area, quella dei nuovi vulnerabili (quadrante A) di cui abbiamo parlato prima, caratterizzata da legami sociali deboli e con la tendenza a vivere al di sopra delle proprie possibilità, che è a rischio di precipitare nell’area della marginalità.

Al riguardo basta fare "due conti demografici in tasca" alle amministrazioni locali per mostrare la portata di questo cambiamento. Proviamo a immaginare un comune di 10.000 abitanti. L’area dei cosiddetti “marginali cronici” si attesta mediamente intorno all’1% della popolazione. Se il raddoppio di quest’area a causa della crisi costituisce un passaggio dall’1 al 2% (da 100 a 200) non suscettibile di produrre smottamenti tellurici nella percezione collettiva della povertà, il “salto” da 0 al 20-30% di persone (2000 o 3000) dall’area della vulnerabilità a quello della povertà conclamata significherebbe una vera e propria rivoluzione epocale nella comunità locale.

Intercettare i vulnerabili oggi, quando hanno bisogno prevalentemente di ascolto e di aiuto per ri-orientare lo stile di vita, non comporta l’erogazione di contributi, ma la predisposizione di risorse -tempo di operatori e volontari. Intercettarli domani, quando saranno necessari soprattutto sussidi economici, renderà impossibile l’intervento. Inoltre il ceto medio vulnerabile oggi è ancora ricco di risorse per gestire i problemi che l’attraversano. Questi cittadini vanno aiutati a trasformare una posizione meramente rivendicativa in un’altra capace di co-generare, insieme a istituzioni e terzo settore, nuove risposte (nuovi servizi) da progettare e gestire in modo partecipato.

Ciò non significa dimenticare gli ultimi per occuparsi solo dei penultimi e dei terzultimi, ma rappresentarsi che, a fronte di risorse finanziarie decrescenti e di un numero crescente di poveri vecchi e nuovi, lavorare per generare nuove risorse tra i vulnerabili significa creare un contesto sociale più ospitale anche per gli ultimi. Del resto un welfare partecipato è meno costoso di un welfare assunto totalmente dai servizi, perché parte del prodotto viene erogato in collaborazione con i cittadini. Questo comporta una reinvenzione degli strumenti. Il microcredito, ad esempio, dovrebbe essere rivolto principalmente al ceto medio impoverito, agli immigrati integrati, alle giovani coppie con lavori precari. Se questi si riprendono sono dei treni che possono trainare tutti. Se eroghiamo microcredito ai marginali cronici invece eroghiamo forme mascherate di sussidio che raramente riescono ad attivare un circolo virtuoso.

Come si possono agganciare i vulnerabili e favorire la partecipazione?

Bisogna costruire dei gruppi di lavoro in grado di generare nuovi manufatti sociali a partire dalla gestione delle difficoltà delle persone, accompagnando il lavoro con la riflessione, perché senza riflessione ci si limita alla riproduzione di routine consolidate. Se l’elemento centrale per favorire l’attivazione di persone e famiglie è la riflessività, questa non può avvenire in astratto o su temi generali: serve un fare, un oggetto di lavoro concreto in grado di toccare le persone direttamente e fare aprire in loro nuovi orientamenti rispetto alla bulimia esperienziale dominante.

Bisogna poi scegliere temi non stigmatizzanti, data la riluttanza dei vulnerabili nel mostrare le loro difficoltà: ad esempio, il tema dell’educazione al bilancio familiare non può venire proposto come oggetto di lavoro con questo nome, ma ci si potrebbe arrivare proponendo incontri sui possibili risparmi intorno ai consumi fissi.

Infine, il lavoro di comunità non deve essere autoreferenziale, ma deve proiettarsi verso l’esterno. Questi gruppi si differenziano dai gruppi di formazioni, psicoterapia e auto aiuto perché il loro baricentro è verso il fuori, verso la costruzione di progetti; ma si differenziano anche dai gruppi di progettazione perché hanno cura di cogliere qualsiasi spiraglio di riflessione per attivare momenti in cui le persone possano vedere ciò che stanno facendo e come lo stanno facendo. In questi gruppi le persone molto spesso portano problemi che mai avrebbero raccontato allo psicologo o all’assistente sociale. È importante in quei momenti non smistare la persona col suo problema all’ufficio competente, ma utilizzare il gruppo come risorsa per elaborare quella criticità in termini di progettazione sociale. L’esito è che la difficoltà di uno, assunta da tutti, diventa un manufatto sociale che modifica il contesto.

Quali soggetti deve coinvolgere questa terza via?

I protagonisti possono essere tutti, non c’è necessariamente una primazia.
Il principio di sussidiarietà va ripensato e attualizzato. All’epoca della sua formulazione c’era una comunità coesa, mentre oggi i legami sociali stanno evaporando, quindi l’istituzione non deve solo riconoscere le vitalità autonomamente prodotte dalla società civile, come correttamente recita la Costituzione, ma anche ricostruire i legami sociali, attivarli laddove sono evaporati. Se ieri c’erano attori nettamente identificabili (partiti, sindacati, servizi sociali, associazionismo ecc.) e che poggiavano la loro azione su un letto di relazioni sociali fortemente intrecciate, oggi gli stessi soggetti non solo sono diminuiti (ad esempio i partiti non sono più agenzie formative, informative e generatrici coesione sociale) e sono in relazione solo con una cerchia definita (il loro “giro” stretto), ma c’è una vasta area di cittadini che non è in relazione con nessuno di questi attori sociali e istituzionali. Le stesse organizzazioni di volontariato spesso producono solidarietà perimetrate nell’ambito della loro azione e diventano isole non comunicanti.

Sussidiarietà non significa né deregulation, né controllo oppressivo di tutto ciò che si muove nella vita sociale. In questo quadro alle istituzioni spetta il compito di accompagnare la crescita di nuove esperienze fino a che possono camminare con le loro gambe, limitandosi successivamente a una blanda supervisione. Se c’è un calo di partecipazione, al pubblico spetta riattivarla. Se c’è un calo di connessione tra le iniziative, al pubblico spetta di collegarle. Se tutto funziona il pubblico lo lascia funzionare (pur vigilando sulle eventuali dinamiche entropiche).

Se da un lato un welfare tutto pubblico, oltre ad essere insostenibile rispetto alle attuali possibilità finanziarie, finisce per impoverire le risorse di autoattivazione presenti tra i cittadini, dall’altro lato il diffuso fastidio per la regia del pubblico equivale all’irritazione che provano i sostenitori del liberismo in economia rispetto alle regole che lo Stato può porre al mercato. Se lo Stato è la parte del corpo sociale specializzata negli interessi del tutto, oggi il tutto della comunità chiede la generazione di nuove risorse. Le istituzioni sono allora chiamate a far crescere fra i cittadini nuove disponibilità a collaborare, nuovi partner in grado di affiancarsi ai soggetti già presenti.

E’ possibile fare un bilancio a due anni dalla nascita di Spazio Comune?

La scommessa di Spazio comune è complessa anche al nostro interno. Non è facile far uscire i soggetti dalle loro appartenenze. I nostri laboratori si sono rivelati innanzitutto un importante strumento di connessione tra differenze. Molti dei partecipanti ci hanno ringraziato per averli messi in contatto e incoraggiati a collaborare. Alcune ipotesi di Spazio comune stanno transitando nel piano sociosanitario della Regione Emilia-Romagna e nelle politiche per il volontariato, perché alcuni dirigenti e alcuni politici hanno sentito ciò che proponiamo come consonante con alcune loro intuizioni e preoccupazioni che non avevano ancora una formulazione precisa.

Per concludere, lei sostiene che “la crisi può essere vista come una grande opportunità”. In che modo?

Se la radice della crisi che ci attraversa è culturale (e dunque psico-sociale), il tema che ci propone è quello di un ri-orientamento del nostro stile di vita. Aumentano gli abitanti del pianeta e c’è una torta identica da spartire. Non siamo una nazione destinata a rimanere tra quelle che guideranno lo sviluppo, perciò dobbiamo attrezzarci a vivere con meno. Dal momento che viviamo in una società bulimica che ci dopa di opportunità, questa nuova condizione si presenta come un’opportunità per modificare in senso più sobrio il nostro stile di vita. Poiché, però, il basso continuo della nostra società continua e continuerà a ripeterci che tutto è a portata di mano -basta passare al low cost e agli acquisti rateali-, la sfida non è semplice e non si vince con un discorso pronunciato da qualche balcone o con un documento ben scritto.

Serve un fare concreto e locale intorno a problemi circoscritti sentiti come utili dalle persone a partire dal quale: ricavare ipotesi più ampie; creare una connessione tra tanti “fare” locali appartenenti a province, regioni e nazioni diverse (di locale si può anche morire); investire nello sviluppo in forma diffusa di competenze per gestire questi processi partecipativi nell’area del welfare; individuare nuovi criteri di valutazione del lavoro sociale quali, ad esempio, la capacità di generare nuove risorse -umane, non solo finanziarie- rispetto a quelle già date, la capacità di coinvolgere cittadini che non appartengono al circuito dei soliti noti, la capacità di allestire nuovi servizi in collaborazione coi cittadini e col terzo settore a costi estremamente contenuti.

In sostanza, i servizi di welfare sono chiamati a:
1. cercare collaboratori con cui gestire i problemi (sia nel senso che agli utenti va chiesta collaborazione, sia nel senso che nuovi attori vanno chiamati in causa: vicini di casa, vigili urbani, gestori di esercizi commerciali, ecc.);
2. andare verso i nuovi vulnerabili anziché attenderli in qualche servizio;
3. generare insieme a loro nuove risorse per far fronte a una situazione in cui aumentano i problemi e diminuiscono le disponibilità finanziarie;
4. far transitare le istanze dei singoli dall’ “io” al “noi”, favorendo la costruzione di contesti in cui sia possibile un’elaborazione collettiva dei problemi individuali.

 

Riferimenti

Sito internet di Spazio Comune

Fondazione Volontariato e Partecipazione

Rivista Animazione Sociale

 

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