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Welfare state sotto pressione

Al sesto anno dall’inizio della crisi sono evidenti le conseguenze che questa ha prodotto e le sfide che i governi sono chiamati ad affrontare. L’attuale fase di austerità si caratterizza per l’emergere di rischi e bisogni sociali nuovi, che originano da profonde trasformazioni del contesto demografico, economico, sociale e culturale e dall’esigenza di contenimento della spesa pubblica. Le recenti dichiarazioni del re dei Paesi Bassi Guglielmo Alessandro possono venire annoverate come una delle tante testimonianze di come la crisi stia portando molti paesi europei a mettere in discussione il proprio welfare state,ritenuto nel breve periodo responsabile di disavanzi elevati e nel lungo finanziariamente insostenibile, facendone così oggetto di tagli.

Il welfare state è poi posto sotto attacco perché considerato uno dei principali ostacoli alla crescita e allo sviluppo. Parallelamente sta emergendo l’esigenza di un rinnovamento complessivo del welfare per rispondere efficacemente a una domanda più differenziata di protezione, che richiede il ripensamento dei programmi di tutela sociale resi inadeguati dai processi di cambiamento e maggiori capacità di tenere sotto controllo la dinamica dei costi. I programmi di welfare hanno continuato a erogare prestazioni generose per la tutela di rischi già largamente tutelati mentre hanno trascurato nuovi rischi come la non autosufficienza e la povertà tra i minori, o i bisogni di conciliare vita lavorativa ed esigenze di cura dei figli o di familiari a carico.

Per questo, di fronte all’aggravarsi dei problemi derivanti dalla crisi, si sono iniziate a valutare e sperimentare nuove soluzioni e forme di intervento. Accanto ai tagli e a misure di ricalibratura della spesa, che non sono state abbandonate come approcci possibili e come risposta alla crisi, si è fatto nel nostro paese progressivamente più articolato un ampio dibattito circa il contributo che attori e risorse non pubbliche possono fornire e sull’emergere di un nuovo modello di welfare, in cui alle azioni tradizionalmente garantite da soggetti istituzionali si affianchino quelle svolte da realtà non appartenenti al settore pubblico, ovvero che il primo welfare si integri con il secondo welfare. Insomma, come mobilitare il risparmio privato in forme più efficienti, mobilitare risorse di “pagatori” privati e anche mobilitare (nuovi) erogatori non pubblici o ripensare il loro ruolo e contributo per disporre di maggiori risorse e di un’offerta più estesa di servizi e prestazioni.


Quali sono gli ambiti in cui è possibile agire in una logica di secondo welfare?

Un primo fronte ha a che fare con la ridefinizione delle modalità di erogazione dei servizi alla persona. L’obiettivo è fare in modo che la fornitura sia sempre meno accentrata in campo all’attore pubblico e venga invece garantita – più di quanto avvenuto in questi anni – grazie ad una più diffusa e sistematica rete di attori privati e del privato sociale. In questo modo si potrebbe aumentare l’offerta di servizi e al contempo contribuire alla creazione di nuova occupazione.

Un secondo fronte riguarda le prestazioni, a partire da un ripensamento dell’attuale definizione troppo ampia e onnicomprensiva dei livelli essenziali delle prestazioni. Una società che ha imparato a beneficiare di un insieme ampio e generoso di diritti sociali, che è diventata sempre più affluente e che ha di fronte a sé la prospettiva di un progressivo allungamento degli anni di vita in buone condizioni è portata a considerare un numero sempre maggiore e una qualità sempre più elevata di interventi sociali come essenziali e quindi irrinunciabili, indipendentemente dai costi e dalla loro sostenibilità.

Occorre, invece, rivedere l’idea che tutte le prestazioni debbano essere finanziate grazie a risorse pubbliche e poste in campo al welfare statale.Va quindi rivisto il ventaglio delle prestazioni e per quelle non essenziali si deve puntare ad aumentare i livelli di contribuzione individuale incentivando al contempo l’idea che una quota non residuale di prestazioni e servizi sia da finanziarsi tramite soluzioni assicurative, in parte regolate dal settore pubblico, e grazie a forme mature e innovative di risparmio privato.


Il ruolo presente e futuro del mutualismo italiano

In quest’ottica può certamente trovare spazio e rinnovato attivismo il mutualismo. In Italia le società di mutuo soccorso hanno un ruolo limitato nell’ambito dell’assicurazione integrativa, coprendo intorno al 15% della spesa sanitaria privata, e quindi molto meno di quanto non facciano le mutue operanti in altri paesi europei. Ci sarebbe quindi margine per un ulteriore sviluppo della mutualità nel nostro paese.

Con riferimento al settore sanitario, guardando all’esperienza di altri paesi emerge infatti che per garantire la sostenibilità dei sistemi sanitari altrove si ricorre alla spesa privata in modo strutturale e organizzato. Livelli di assistenza e di servizi integrativi a quelli essenziali sono opportunamente regolamentati e affidati ad un sistema articolato fatto di fondi integrativi, mutue e compagnie di assicurazione. La sfida nel nostro paese è quella di individuare ragionevoli e chiari livelli essenziali delle prestazioni in campo sanitario ma anche assistenziale che devono essere garantiti a tutti i cittadini e finanziati interamente con l’intervento pubblico. Ma va al tempo stesso evitata una logica solo formalmente universalistica che in realtà offre standard qualitativi o tempi di attesa inaccettabili per chi ha bisogno di cure.

Per altro, la ricerca RBM Salute-Censis sul ruolo della sanità integrativa – presentata al terzo “Welfare Day” che si è svolto a Roma il 4 giugno scorso – ha mostrato che il 20% degli italiani sarebbe disposto a spendere una somma annuale pari in media a 600 euro per avere una copertura sanitaria integrativa per alcune prestazioni. La percentuale sale tra le famiglie con figli (23,4%), disposte a versare in media 670 euro all’anno. Il ricorso crescente alla spesa privata porta molte famiglie a considerare con maggiore interesse la possibilità di aderire a fondi sanitari integrativi per vedersi garantita una copertura soprattutto per le visite specialistiche e la diagnostica ordinaria (52%), le cure dentarie (43%) e i farmaci (23%).

Sarebbero incentivati ad aderire a forme integrative se l’iscrizione al Fondo sanitario garantisse un’assistenza medica in modo continuativo, se riducesse i tempi d’attesa per le prestazioni di cui si ha bisogno (32%), se offrisse la copertura per tutta la famiglia e non solo per il sottoscrittore (30%). Necessario ed urgente sarebbe anche individuare un corretto equilibrio tra iniziativa pubblica e privata rispetto al rischio della non autosufficienza, prevedendo adeguati benefici fiscali ai fondi e alle coperture assicurative e mutualistiche, insieme ad iniziative di sensibilizzazione e all’accumulo di risorse dedicate per questo settore. Anche in questo caso (come avviene in parte per il welfare aziendale), la contrattazione collettiva potrebbe svolgere un ruolo di primaria importanza, eventualmente inserendo questo tipo di copertura all’interno dei fondi complementari già in essere.

Fondazione Welfare Ambrosiano: alcuni esempi concreti

Nell’ottica sopra descritta potrebbe essere preso ad esempio il fondo mutualistico di carattere sanitario aperto, interprofessionale e a carattere territoriale promosso dalla Fondazione Welfare Ambrosiano di Milano nella primavera dello scorso anno. L’iniziativa – destinata a tutti coloro che lavorano a Milano e alle loro famiglie e realizzata dalla Fondazione insieme alla Società di Mutuo Soccorso Cesare Pozzo – si propone di intervenire nell’ambito della prevenzione sanitaria e con particolare attenzione alle categorie più deboli: minori, donne e anziani.

Il dibattito pubblico sulla crisi del welfare si concentra più sui problemi di ordine finanziario che sull’importanza di tutelare i nuovi bisogni ed è tradizionalmente più generoso nei confronti di alcune categorie di cittadini, coloro cioè che lavorano e lo fanno con continuità, mentre si dimostra più debole proprio nel proteggere le fasce più bisognose. Proprio con l’idea di “riempire i buchidell’assistenza pubblica favorendo l’attivazione degli individui è nato Microcredito Milano, il primo progetto della Fondazione che fornisce prestiti agevolati a famiglie in difficoltà e a piccole realtà imprenditoriali. Ma fin dalla costituzione di questo schema la Fondazione aveva manifestato l’intenzione di operare lungo una seconda direttrice costituita da interventi a carattere universalistico destinati alla copertura di bisogni trasversali all’interno della popolazione locale e non efficacemente tutelati dal welfare pubblico.

In quest’ottica è iniziata la ricerca di nuove forme di mutualità rivolte alla città, ricerca che nei prossimi mesi porterà appunto alla sperimentazione di un fondo mutualistico sanitario incentrato sull’implementazione di percorsi di prevenzione. Per i minori il fondo mutualistico propone un piano di prevenzione odontoiatrica. Alle donne viene offerto un programma di prevenzione per specifiche patologie oncologiche. Infine gli anziani potranno usufruire di assistenza domiciliare di vario tipo, da quella sanitaria alle necessità legate alla vita quotidiana. E’ prevista la possibilità di adesione libera, volontaria e individuale, ma anche collettiva, attraverso la contrattazione aziendale e territoriale, per coloro che non hanno accesso a un fondo professionale. Sono poi allo studio una quota di adesioni assistite per soggetti particolarmente vulnerabili.

L’idea alla base dell’iniziativa rimane quella che ha ispirato la costituzione della Fondazione: fornire un aiuto, integrativo rispetto al servizio pubblico, favorendo al tempo stesso la partecipazione attiva dei beneficiari. Utilizzare dunque la mutualità come strumento per la promozione dell’individuo ma anche dell’intera collettività. Alla base del progetto c’è un’idea di compartecipazione che presuppone il coinvolgimento sia dei singoli iscritti sia di tutte le realtà locali, non profit e imprenditoriali, che scelgono di prendervi parte come fornitori di servizi.

Rapporto tra primo e secondo welfare: alcune considerazioni

I sistemi di welfare non sembrano oggi in grado di fronteggiare tutti i bisogni che la società esprime. Anche quando questa lunga fase di crisi sarà superata, i problemi sono destinati a restare a causa dei vincoli finanziari e dei rischi crescenti. Il welfare deve quindi diventare sempre più un motore di crescita e livelli consistenti di sviluppo possono a loro volta contribuire a finanziare il welfare e a renderlo sostenibile oltre che inclusivo.

Sotto questo profilo la strategia più promettente per far fronte alla crisi strutturale del nostro Stato sociale sembra essere quella di imboccare in modo più deciso la strada della ridefinizione e riorganizzazione del primo welfare, affiancando a questo un secondo welfare alimentato da risorse non pubbliche. Questo senza che venga meno la presa in carico e l’erogazione diretta, da parte di enti e strutture pubbliche, di prestazioni e servizi per i soggetti privi di mezzi e più vulnerabili mentre si deve favorire l’ampliamento delle agevolazioni fiscali per le fasce di popolazione più abbienti per sostenere un uso più efficiente del risparmio privato. E parallelamente – attraverso un allargamento del ruolo del terzo settore e del welfare contrattuale e territoriale – si dovrebbe contribuire ad accrescere la capacità di risposta ai problemi.

 

Una versione estesa di questo articolo è stata pubblicata sul numero 13 della rivista Solidea
 


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