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Come era accaduto anche nella scorsa primavera a proposito della riforma del terzo settore, l’intervista rilasciata qualche giorno fa da Enzo Manes su Il Sole 24 Ore non ha mancato di suscitare diverse reazioni. Così, dopo il nostro intervento della settimana scorsa che esprimeva alcune perplessità, soprattutto perché dalle parole dell’articolo di Paolo Bricco non si capiva se l’IRI del terzo settore si sarebbe avvalsa di strumenti di investimento veri e propri o solamente di una versione più esigente della comunque tradizionale filantropia, non è tardata la risposta di Manes.

Questi in una nuova intervista rilasciata a Stefano Arduini scioglieva i dubbi che avevamo avanzato, chiarendo una volta per tutte che la nuova IRI del terzo settore sarà una fondazione e che recupererà i propri capitali non attraverso meccanismi tipici o quantomeno analoghi a quelli del mercato, piuttosto punterà al fenomeno delle donazioni, stimato intorno ai 12 miliardi di euro l’anno.

Tuttavia il dialogo non si è chiuso qui, posto che a stretto giro Mario Calderini si è sentito in dovere di intervenire, riprendendo peraltro anche alcuni dei punti da noi già sollevati. È quindi utile riprendere quanto argomentato dal professore del Politecnico, perché la posta in gioco non sembra solamente legata ad opinioni divergenti rispetto una specifica scelta da compiere, piuttosto si tratta di mettere in discussione l’idea stessa di “economia” e dunque anche di “sociale”.


Innovare tra facili entusiasmi e resistenze al cambiamento

Si può iniziare riprendendo la provocatoria ma assolutamente efficace immagine suscitata da Mario Calderini, il quale sembra segnalare che il primo profilo critico della proposta di Manes consista in una sorta di anacronismo o, anche, in una assenza di visione. Sull’argomento delle maggiori somme dedicate alle donazioni rispetto a quelle attualmente impiegate nel mondo dell’impact investing, Calderini commenta che una scelta basata su tale dato sarebbe «un po’ come se all’inizio del secolo scorso uno avesse detto: in giro ci sono quattro automobili e milioni di cavalli, meglio occuparci della biada perché il petrolio è una questione irrilevante». Il primo argomento di Mario Calderini è quindi di natura eminentemente logica e ad avviso di chi scrive segna un punto decisivo anche in una prospettiva di analisi delle politiche pubbliche, peraltro già più volte richiamata anche in queste pagine: i cambiamenti che avvengono sul piano sociale, politico ed economico, così come quelli che si manifestano a livello delle idee, segnano non di rado vincoli e strettoie che limitano le scelte dei policy maker circa la formulazione di iniziative idonee a risolvere problemi inerenti la collettività; tuttavia spesso capita anche che i mutamenti di cui sopra costituiscano delle finestre di opportunità per la formulazione, l’adozione e l’implementazione di politiche pubbliche nuove, diverse da quelle che sino a quel momento sono state attuate.

Allora il tema, sulla scia della provocazione di Calderini che chiede di scegliere tra “biada e petrolio”, consiste nella lettura dei cambiamenti in corso: infatti dalla interpretazione di quanto sta accadendo a livello globale, come nel nostro Paese, dipende l’eventuale scelta di tentare nuove strade e quale grado di novità può essere ragionevolmente sostenuto. Al di là quindi delle scelte concrete occorre segnalare che se una qualche novità nel modo di fare politiche pubbliche si introduce, essa dovrà passare al vaglio di una sperimentazione rigorosa.

La valutazione è il cuore di ogni seria sperimentazione: purtroppo in Italia la cultura della valutazione delle politiche pubbliche è decisamente scarsa. Non che manchino tentativi di questo genere, tuttavia essi si configurano nella migliore delle ipotesi come interventi di assessment successivi, svincolati alle fasi precedenti il ciclo di policy. Per essere più chiari: il valore e l’importanza attribuita alla fase di valutazione delle politiche pubbliche si riscontra sin dal momento della loro formulazione, poiché nello stabilire obiettivi, principi, procedure e strumenti di una politica pubblica si dovrebbe stabilire altresì quali saranno gli indicatori che in una fase successiva dovranno essere considerati per stabilire se l’iniziativa ha avuto successo o meno. Al momento, nella proposta di Manes, forse ancora in fase di studio e quindi con margini di intervento utili nel senso sopra illustrato, sembra mancare la necessaria attenzione a questo aspetto. Anche qualora si concedesse un certo grado di novità all’iniziativa che è stata battezzata come “IRI del Terzo Settore”, rimane inevaso il problema della effettiva e puntuale verifica circa la sua efficacia.

Dal canto suo, il fenomeno dell’impact investing può essere sottoposto a numerose critiche, soprattutto con riferimento al fatto che esso è oggi «circondato da una retorica spesso insopportabile da parte dei suoi numerosi evangelist». Tuttavia se un merito si può riconoscere a tale insieme emergente di pratiche è proprio la sua totale disponibilità ad essere sottoposto a ferree valutazioni (talvolta, c’è da sottolineare, persino eccessive). La verifica dell’efficacia raggiunta dalle pratiche di impact investing è connaturata alla loro natura: non è un caso che i termini comuni di tale mondo ruotino intorno ad espressioni che costantemente si rifanno al tema della valutazione (pay-by-results, pay-for-success, outcome-based contract, ecc.).

Questo carattere genetico dell’impact investing, se preso sul serio, sembra proteggere dai due rischi principali che si possono correre nell’approcciare questo nuovo fenomeno: da un lato, anche con responsabilità di alcuni operatori e supporter degli investimenti ad impatto sociale, è possibile cedere a facili entusiasmi, pericolosi non solo perché suscitano aspettative destinate magari ad essere deluse, ma soprattutto problematici perché “abbassano il livello di guardia”, cioè l’attenzione all’efficacia dei nuovi strumenti impiegati, risolvendosi in una sorta di tradimento dello spirito stesso dell’impact investing. Dall’altro, il rischio consiste in resistenze al cambiamento richiesto dal ricorso a nuovi strumenti e nuove pratiche, posto che sottovalutando la necessità di programmare le politiche pubbliche anche alla luce del peraltro inevitabile fenomeno di policy learning, dunque al di fuori di serie logiche valutative, ogni tentativo di innovazione appare velleitario se non irragionevole, dunque estraneo ai paradigmi sui quali l’iniziativa di policy è costruita.

Un approccio empirico che guarda con curiosità all’impact investing

Alla luce della riflessione ora sviluppata si ritiene possibile comprendere ancora meglio alcuni degli argomenti di Mario Calderini che invita «a considerare qualche esperimento di piccola scala che vada un po’ oltre gli schemi classici». Peraltro giova segnalare in via preliminare che un simile invito non è appena uno dei possibili desiderata che qualche studioso può avanzare dall’alto della sua riflessione teorica: che “gli schemi classici” richiedano di essere superati lo documenta anche una analisi grossolana dello stato attuale del Paese.

Soprattutto che “gli schemi classici” siano per certi versi già stati superati – o siano in fase di superamento almeno potenziale – lo documenta un corposo studio (che abbiamo a più riprese approfondito) che muove peraltro da un approccio non dissimile da quello che sembrerebbe caratterizzare la sensibilità espressa da Manes: nell’estate del 2014 Lester Salamon, professore alla Johns Hopkins University, direttore del Center for Civil Society Studies presso la medesima università e forse il massimo esperto mondiale di filantropia, diede alle stampe “New Frontiers of Philanthropy: A Guide to the New Tools and New Actors that Are Reshaping Global Philanthropy and Social Investing”. Già il titolo del lavoro di Salamon sembra eloquente a proposito di qualche crepa che si sarebbe formata rispetto “gli schemi classici”, al punto che per dare conto del cambiamento in atto nel mondo della filantropia l’autore della monumentale ricerca sente la necessità di accompagnare la “filantropia globale” con un’altra espressione, proprio riferita agli investimenti ad impatto sociale (nel testo poi Salamon dedica anche alcuni passaggi ad una scelta definitoria specifica che lo porta a utilizzare il termine, appunto, “social investing”).

Tornando alla riflessione di Mario Calderini è significativo il passaggio nel quale egli sostiene che gli strumenti finanziari in futuro a disposizione dell’imprenditorialità sociale saranno una «proprietà emergente della complessa trasformazione dell’impresa sociale, di cui oggi cominciamo a intravedere alcuni tratti ma i cui esiti non sono facilissimi da prevedere». Con una finalità illustrativa Mario Calderini prosegue sostenendo come sia «possibile ipotizzare che la disponibilità di tecnologie a basso costo, per l’individuazione e la soluzione di problemi sociali, abiliti paradigmi di intervento molto diversi dagli attuali, innescando processi di crescita, capitalizzazione e trasformazione da labour intensive a capital-intensive molto repentini». Su tali possibili dinamiche evolutive dell’impresa sociale vengono formulate ulteriori previsioni di scenario che qui non stiamo a richiamare. Piuttosto sono le conclusioni che vale la pena riprendere, in particolare laddove Calderini ammette la difficoltà nel prevedere quali saranno gli esiti delle possibili evoluzioni che riguarderanno l’impresa sociale, pur segnalando nel medesimo tempo che «sembra altrettanto difficile escludere a priori che questa imprenditorialità avrà qualche caratteristica ibrida, diciamo pure di blended value e che come tale possa essere destinataria di investimenti della stessa natura». Una qualche sperimentazione dovrebbe pertanto essere presa in considerazione, non tanto per seguire una moda, ma per mantenere quell’approccio empirico conseguente alla curiosità che il processo in atto dovrebbe suscitare.


Una teoria economica eterodossa: non esiste una sola “economia”

Mentre Mario Calderini invita a non cedere a tentazioni autobiografiche, qui sembra però utile fare riferimento ad alcuni elementi che emergono dalla sua riflessione di economista e che magari si scopriranno non autonomi dal suo percorso biografico (in senso ovviamente scientifico). L’attenzione che egli naturalmente pone sul possibile cambiamento dell’imprenditorialità sociale non è qualcosa che può essere dato per scontato e con una certa probabilità deriva dai suoi precedenti studi in tema di innovazione tecnologica e management dell’innovazione.

Chi si è occupato di innovazione tecnologica nell’ambito dell’economia, sia essa politica o aziendale, difficilmente ha potuto servirsi degli approcci più classici, rectius neoclassici. Infatti, almeno a partire dagli anni Settanta sono emersi nuovi approcci nello studio dell’agire economico: al netto delle differenze di pensiero che possono intercorrere tra i diversi studiosi, si ritiene utile qui richiamare complessivamente quel filone di ricerche che è andata caratterizzandosi come evolutionary economics. Non è questa la sede per entrare nel merito di tale teoria economica eterodossa, tuttavia qualche cenno generale può essere proposto al fine di offrire una idea sommaria della pluralità che vige – e dovrebbe ancor di più esser sostenuta – nella teoria economica.

In estrema sintesi, quando ci si riferisce ad una teoria “evolutiva” dell’economia si intende una «interpretazione dei fenomeni economici basata sull’interazione tra molteplici agenti eterogenei i quali attraverso ripetute prove ed errori tentano continuamente di esplorare nuove tecnologie, nuove strategie comportamentali, nuove forme organizzative». Da tale assunzione generale discende che «le variabili macroeconomiche (investimenti, profitti, prodotto lordo aggregato, ecc.) risultano da comportamenti microeconomici (cioè dei singoli agenti) rispetto ai quali non si può in generale supporre che abbiano anticipato correttamente il valore delle variabili macroeconomiche stesse». Dunque appare evidente come un simile approccio si differenzi da quello mainstream, oggi nonostante tutto ancora insegnato nelle più importanti business school del mondo e «che in genere attribuisce molta più razionalità agli agenti economici e che presume molto più spesso che il mondo che empiricamente osserviamo rappresenti un qualche tipo di equilibrio» (Dosi, 2005). Ora, sulla base dell’agile lavoro di Dosi già richiamato, uno dei padri dell’economia evolutiva italiana (ma non solo), si possono individuare alcuni dei pilastri su cui tale teoria si fonda.

Un primo pilastro distintivo delle teorie evolutive (che peraltro le accomuna anche alle teorie cognitive dell’economia) riguarda – come lo stesso Dosi suggerisce – l’ampio tema dei comportamenti, della razionalità e dell’equilibrio, ossia «i processi attraverso i quali gli agenti economici – individui ed organizzazioni – esplorano, si adattano, apprendono». Qui infatti l’evoluzionismo si allontana nettamente dal modello di decisione “razionale” che presidierebbe comportamenti da interpretarsi sempre come il risultato di un processo di massimizzazione (dell’utilità, dei profitti, o di qualsiasi altra funzione obiettivo): «l’ipotesi evolutiva è che spesso i comportamenti sono governati da regole relativamente invarianti nel tempo, dipendenti da particolari contesti che innescano particolari repertori comportamentali, plasmati dalle specifiche storie di apprendimento degli agenti, dalle loro conoscenze preesistenti ed anche dai loro sistemi di credenze, valori e pure i loro pregiudizi». Pertanto secondo le teorie evolutive dell’economia ci sarebbe un persistente emergere di innovazioni, dovuto ad un sempre presente “margine innovativo” inesplorato. Secondo Dosi, «proprio perché niente garantisce l’ottimalità di qualsiasi pattern comportamentale, esistono sempre opportunità inesplorate di scoperta e innovazione» (2005).

Un secondo pilastro delle teorie evolutive riguarda i meccanismi di apprendimento e di innovazione, posto che «economisti e storici di ispirazione “evolutiva” hanno tentato di identificare le possibili regolarità nei processi di apprendimento tecnologico ed i loro determinanti». In tal senso si deve registrare come le direzioni lungo le quali le mutazioni avvengono non sono del tutto imprevedibili. Si tratta di un filone di studi ancora in piena espansione che però ha già in parte «permesso di identificare importanti invarianze nei processi di accumulazione di conoscenze e nei meccanismi attraverso i quali esse vengono incorporate in nuovi prodotti e nuovi processi produttivi». In un simile quadro alcune nozioni introdotte dall’economia evolutiva (ad esempio quelle di paradigmi e traiettorie tecnologiche, disegni dominanti, regimi tecnologici, ecc.), hanno consentito di identificare alcuni patterns nei percorsi di apprendimento che almeno in parte determinano anche le direzioni di esplorazione innovativa (Dosi 2000, Malerba 2005).

A loro volta, le caratteristiche di specifici paradigmi tecnologici esercitano importanti influenze su molteplici fenomeni economici, tra i quali è qui sufficiente richiamare le forme di organizzazione delle imprese industriali e la struttura delle industrie. Quest’ultimo elemento, quale punto di ricaduta pratica delle teorie evolutive dell’economia, è quello che fa al caso nostro, perché la persistente innovazione, dovuta alla necessità che le imprese hanno di adattarsi ai cambiamenti ambientali per sopravvivere ai vari meccanismi di selezione presenti nel mercato, incide fino alle forme organizzative delle stesse, potenzialmente introducendo aspetti ibridi. Se c’è un merito delle teorie evolutive dell’economia è esattamente quello di aver riavvicinato la teoria economica (economia politica) alle scienze aziendali (management studies): dai fenomeni di cambiamento in atto nel mercato e quindi pure nelle forme organizzative delle imprese, si possono trarre importanti suggerimenti in termini di adeguatezza degli “stili” di management. Tra questi ovviamente rientra a pieno titolo tutto ciò che riguarda la gestione finanziaria di una azienda, quindi anche gli strumenti finanziari per la sua crescita.

Questa “divagazione” sulle teorie evolutive dell’economia, sebbene possa apparire grossolana agli studiosi di economia, serve in questa sede per documentare come “non esista una sola economia”: la riflessione di Calderini si distingue rispetto a quella di Manes proprio perché assume un quadro teorico di riferimento differente. Se è concesso, si può dire che alla base della divergenza di opinioni sta una differente comprensione di cosa sia l’economia. Non è intenzione di questa sommaria riflessione suggerire quale scelta tra teorie neoclassiche e teorie eterodosse sia quella corretta (ammesso che esista). Piuttosto si vuole solo segnalare che il ruolo giocato dalla teoria economica non è secondario rispetto a molte delle scelte di policy che si è chiamati a fare. E l’opzione tra diverse teorie dovrebbe avvenire non tanto sulla base di una manifesta superiorità dell’una o dell’altra, bensì guardando all’oggetto su cui la decisione di policy dovrà essere presa e l’obiettivo che con essa si persegue.


Dopo la crisi: riconciliare agire economico e agire sociale

Se l’obiettivo su cui si concorda è quello di sostenere e far crescere il c.d. terzo settore, dunque se si perseguisse uno scopo prevalentemente quantitativo (giacché una crescita ed una maggiore efficienza del terzo settore si tradurrebbero in una maggiore quantità di impatto sociale) allora la strategia che ne consegue può tranquillamente poggiare su una teoria economica più ortodossa: in fondo si tratta di “giocare” sulla funzione di produzione che sarebbe l’impresa, andando a modificare alcuni parametri che legano gli input agli output. È il tema della efficienza e della ottimizzazione di costi e benefici. Tuttavia questo non è l’unico obiettivo possibile. In particolare il dibattito che ha preso avvio dalle note vicende del 2008 riguarda il terzo settore e l’ambito dei soggetti operanti a finalità sociale solo in maniera indiretta. Il punto che emerge, come necessità e al tempo stesso anche come ambizione, non è appena “più sociale”, posto che la crisi finanziaria globale e la correlata crisi del debito pubblico di molti paesi non sono dovuti ad una assenza di politiche sociali. La crisi finanziaria e quella del debito pubblico nemmeno sono legate in termini causali stringenti ad un eccesso di welfare (Saraceno 2013).

La necessità e l’ambizione che stanno emergendo, come documentano l’imponente studio già citato di Lester Salamon oltre che alcune esperienze di governo (leggasi Portogallo), riguardano la possibilità di incidere sulle strutture profonde dell’economia e non appena limitando alcuni profili di iniquità che le forme assunte negli ultimi decenni dal capitalismo imporrebbero. Forse intorno al termine innovazione sociale c’è spesso un po’ di retorica, ma quando nella sua più puntuale definizione si fa riferimento a quelle «nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che soddisfano dei bisogni sociali (in modo più efficace delle alternative esistenti)» sottolineando tuttavia che esse «allo stesso tempo creano nuove relazioni e nuove collaborazioni» si intende esattamente questo.

Allora, se l’obiettivo è quello di mutare le dinamiche di quella economia che prima è stata teorizzata nelle scuole di business e poi si è effettivamente incarnata nell’agire economico, con lo scopo di riconciliare (quasi integrare, si potrebbe dire) la dimensione economica e quella sociale (stabilendo appunto nuove relazioni), sembra più che ragionevole ritenere che l’oggetto ultimo di una possibile iniziativa di policy volta a generare un cambiamento, non è il “sociale” in se stesso, che eventualmente può essere il punto di innesto dell’intervento, quanto piuttosto un agire economico che va ripensato. Innanzitutto valutando quadri teorici di riferimento differenti.


Cambiare paradigma per comprendere davvero l’impact investing

Dunque, se da un lato sembra condivisibile l’invito avanzato da Mario Calderini affinchè si consideri l’ipotesi di avviare qualche sperimentazione sull’impact investing, dall’altro è sembrato opportuno provare a formulare un possibile itinerario per una riflessione che possa effettivamente contribuire ad approfondire – anche su un piano più teorico – quanto sta animando il dibattito pubblico italiano. Come peraltro si ha già avuto occasione di sottolineare, il tema dell’impact investing non può essere affrontato come un semplice ambito entro cui ricondurre prodotti finanziari che potrebbero interessare alcune tipologie di investitori, ma deve invece essere considerato come un fenomeno emergente che – al di là del numero di casi di successo o i suoi sviluppi – apre una finestra di opportunità per l’introduzione di alcune novità nel panorama degli strumenti di policy. Allora si capisce come appaia sempre più urgente comprendere di che tipo di strumenti si tratti e quali siano le logiche politiche, economiche e sociali da essi postulate. Così, attraverso un percorso anche di tipo teorico si scoprirà magari che sul piano della prassi filantropia e finanza non solo possono coesistere, ma addirittura convergere.