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Dei 28 paesi europei, solo otto – Bulgaria, Grecia, Francia, Italia, Lussemburgo, Slovenia, Svezia, e Regno Unito – hanno introdotto politiche per sostenere lo sviluppo dell’impresa sociale. Proprio per questo, la DG Occupazione, Affari Sociali e Inclusione ha pubblicato per la prima volta un rapporto che “mappa”, misura e compara gli “eco-sistemi” delle imprese sociali nei diversi paesi.

Nell’ambito della Social Business Initiative, lanciata nel 2011 per promuovere lo sviluppo di un mercato dell’economia sociale più competitivo, la Commissione aveva definito l’impresa sociale come un business caratterizzato da:
– fini sociali e bene comune come ragione prima dell’attività commerciale, spesso accompagnata da un alto grado di innovazione sociale;
– profitti reinvestiti al fine di raggiungere gli obiettivi sociali preposti;
– organizzazione interna che riflette la natura sociale ed etica del business attraverso processi decisionali democratici e partecipativi ispirati all’idea di giustizia sociale.

Il rapporto operazionalizza la definizione attraverso l’identificazione di tre dimensioni, a loro volta composte da più indicatori. La prima, l’entrepreneurial dimension o dimensione imprenditoriale, fa riferimento alla presenza di attività economica per la fornitura di beni e servizi che distingue l’impresa sociale dal non-profit. La social dimension connota invece la vocazione sociale dell’impresa all’interno del più ampio mercato for-profit. La governance dimension mira infine a riconoscerne l’effettiva vocazione sociale, espressa attraverso l’inclusione degli obiettivi sociali come fondanti dell’organizzazione ed esercitata grazie a meccanismi di “lock in” degli obiettivi. L’impresa sociale, come mostra la figura 1, nasce proprio dall’incontro dei tre elementi. E’ la terza dimensione a risultare più problematica ai fini della comparazione, perché ogni paese conserva la propria “idea” di impresa sociale, e conseguentemente il proprio assetto giuridico: dalla tradizione italiana delle cooperative alle Community Interest Companies britanniche, i contesti nazionali variano per requisiti richiesti e trattamento fiscale.


Figura 1. Le tre dimensioni dell’impresa sociale in Europa

 

Fonte: A map of social enterprises and their eco-systems in Europe, European Commission 2014, p. 2.

Queste invece le principali aree di attività delle imprese sociali:
– l’integrazione sociale ed economica delle categorie svantaggiate, come le attività di formazione e inserimento lavorativo;
– i servizi sociali di interesse generale, che vanno dall’assistenza agli anziani e ai disabili ai servizi educativi per l’infanzia, fino all’housing sociale e alla sanità;
– altri servizi pubblici, come il trasporto e la manutenzione di spazi pubblici;
– la promozione della democrazia, dei diritti civili e della “partecipazione digitale”;
– la tutela ambientale, attraverso attività di riduzione dei rifiuti e la promozione delle energie rinnovabili;
– pratiche solidali nei confronti dei paesi in via di sviluppo, come lo sviluppo del mercato equo e solidale.

Interessante però notare che – nonostante lo sviluppo delle imprese sociali e l’allargamento del “raggio di azione” a nuove e sempre più varie attività – in molti paesi è la stessa legislazione vigente a limitare le opportunità di business sociale, riconoscendo la “valenza sociale” solo in relazione alle attività WISE – work integration of disadvantaged groups – destinate a una fascia più ristretta di beneficiari.

L’Italia presenta, rispetto ad altri paesi, un ecosistema di imprese sociali piuttosto ricco, ben sviluppato e diversificato, che gode di supporto da parte delle istituzioni pubbliche locali e nazionali e presenta efficaci sistemi di supporto reciproco, come i consorzi. Nel nostro Paese – stima il rapporto – ci sono circa 35.000 imprese sociali, che presentano tutti i requisiti definiti dall’Europa e rappresentano lo 0.8% delle imprese italiane. Sebbene le cooperative siano la forma più rappresentativa di impresa sociale italiana, esse rappresentano solo un terzo del “patrimonio” nazionale di imprese sociali, che include anche tutte quelle associazioni, fondazioni e altre imprese “tradizionali” ma con vocazione sociale che potrebbero essere raggruppate sotto il grande ombrello della social entrepreneurship o imprenditoria sociale. Questo variegato ecosistema fornisce ai cittadini servizi sociali e socio-sanitari, ma opera anche negli ambiti della formazione e dell’inserimento lavorativo, nella salute, nella scuola e nella ricerca. Quali sono però gli ostacoli che le imprese sociali incontrano in Italia? Primi tra tutti, i tagli pubblici al welfare che si ripercuotono sull’offerta di servizi ai cittadini. Certo, ricorda il rapporto, le imprese sociali reagiscono diventando più innovative e “aggredendo” nuovi mercati. Ci sono poi i ritardi nei pagamenti delle prestazioni da parte della pubblica amministrazione che minano la sostenibilità delle imprese, cui si sommano la crescente competizione da parte di nuovi attori for-profit in aree tradizionalmente servite dalle imprese sociali e la difficoltà per queste organizzazioni di attrarre le competenze manageriali necessarie per lo sviluppo del proprio business.

In aggiunta alla mappatura e alla misurazione dell’evoluzione dell’impresa sociale nei 28 Stati Membri e in Svizzera, il rapporto identifica i fattori che ne limitano lo sviluppo e dunque le possibili azioni da intraprendere a livello comunitario per supportare le iniziative nazionali. Le maggiori sfide da affrontare riguardano l’assenza di un’idea chiara e condivisa di “impresa sociale”, la mancanza di competenze specifiche per lo sviluppo di questo tipo di business, la necessità di aggiornare le normative, e i problemi di accesso ai mercati e al credito. Inoltre, la ricerca sottolinea l’utilità di un meccanismo efficace di monitoraggio e valutazione necessario per condividere informazioni e diffondere le esperienze, valorizzando le peculiarità di ogni contesto nell’ambito di un “ecosistema” funzionale.


Riferimenti

La notizia sul sito della Commissione europea

I report nazionali

La comunicazione della Commissione sulla Social Business Initiative


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