Qual è lo stato di salute dei meccanismi di generazione del valore nella nostra società?

Gode di cattiva salute, e probabilmente andrà sempre peggio, la redistribuzione per via pubblica, stretta a monte da un gettito fiscale sempre più difficile da alimentare come dimostra la “rottamazione” delle cartelle esattoriali che da misura “una tantum” si fa continua. A valle, invece, si evidenziano, da una parte, difficoltà croniche nell’allocazione della risorse per effetto della polarizzazione sull’elettore mediano e, dall’altra, tentazioni sempre più diffuse di disintermediare il finanziamento del welfare, rimettendo il denaro “nelle tasche dei contribuenti” (bonus, assegni, voucher) con vincoli di utilizzo che spesso vengono aggirati. Meglio invece la redistribuzione per via filantropica che in questi anni ha investito sulla qualità dell’allocazione del denaro a sua disposizione, accettando di lavorare a fianco dei beneficiari grazie a servizi di coprogettazione e accompagnamento e, al tempo stesso, investendo sul “ritorno” delle erogazioni attraverso valutazioni sempre più approfondite sull’impatto sociale generato.


E il mercato?

Meglio nella relazione di scambio, sia nel campo dei servizi che dei beni materiali, perché è sempre meno anonima e ricca di implicazioni che, opportunamente catturate, generano valore aggiunto. Meno bene invece sulla condivisione di questo valore economico, socioculturale e financo emotivo che fatica a diventare patrimonio comune, non solo attraverso la già citata redistribuzione filantropica, ma attingendo direttamente alla fonte della ricchezza. L’esito di questa difficoltà si legge nella remunerazione non più adeguata del lavoro per chi è formalmente inquadrato in un ruolo di produzione, ma anche per quei consum-attori che ormai sono parte integrante dei business model perché testano, montano, recensiscono e così facendo coproducono valore più o meno intenzionalmente. Insomma, a sei anni di distanza dal famoso paper di Porter e Kramer, lo shared value è ancora un obiettivo a cui tendere, nonostante la cultura imprenditoriale lo abbia assunto come riferimento.

C’è poi la “terra di mezzo” che Mauro Magatti delimita tra il “venduto” del mercato e il “mediato” dallo Stato. Un’area una volta caratterizzata soprattutto da principi di reciprocità e informalità. Una lunga radice di antropologia culturale che oggi è un reliquiario di comunità in cerca d’identità, di una “naturalità nostalgica” periodicamente rispolverata come ultimo baluardo contro la tecnocrazia statalista e mercatista. Ma questo luogo è molto cambiato negli ultimi anni. Ha ormai rotto il legame con i suoi archetipi originari (la comunità naturale) e ha fatto i conti sia con l’economia estrattiva del capitalismo industriale e cognitivo che con la burocrazia del welfare della programmazione e degli interventi standard, soprattutto grazie ai soggetti imprenditoriali del terzo settore.

Oggi il reciprocare rinasce intorno a una rinnovata capacità di riconoscere la comunità come mezzo per prendersi cura di sé e come esito di economie che fanno della produzione e dello sviluppo locale “fatti sociali”.

Tutto ciò è possibile grazie a due fattori: la capacità di progettare servizi collaborativi come metodo e il digitale come amplificatore della connettività. Se nel recente passato la reciprocità era confinata allo “stato nascente” di una nuova iniziativa sociale o a esperienze iper specifiche e iper contestuali lasciando poi ineluttabilmente il passo a Stato e/o mercato perché non in grado di reggere la sfida della continuità e della crescita, oggi invece può affermare il proprio modello. Esistono infatti tecniche di service design e piattaforme digitali che includendo consentono di avviare e stabilizzare processi collaborativi complessi basati su scambi reciproci e volontari che si ibridano economie di mercato. E’ possibile così espandere e adattare queste nuove modalità di relazione in diversi contesti e settori senza dover tracciare la linea produttiva o di servizio che separa produttore da consumatore e, così facendo, spesso apre la strada a meccanismi di standardizzazione gestionale e di concentrazione del valore. La progressiva rimodulazione di forme dello scambio tradizionalmente separate svela quindi l’esistenza di uno spazio che non è semplicemente quel che risulta dai fallimenti o dai limiti dei modelli pre-esistenti.

Uno spazio per il “comune” che contribuisce a risolvere due importanti limiti dello sviluppo. In primo luogo il fatto che il mercato, anche quello orientato al valore sociale, non debba essere condannato a raggiungere punti di break even parametrati ad imprese che intendono la competizione come unico driver (le economie inclusive richiedono invece, come componente strutturale, anche l’accesso a risorse come il dono che non transitano dal mercato). In secondo luogo emerge come la redistribuzione non abbia come unico destino la dispersione delle risorse “a fondo perduto”, ma si trasformi, almeno in parte, in investimento sociale, magari proprio co-finanziando le economie di cui sopra. In questo risiede la sostenibilità tanto reclamata da più parti: in un blend di risorse per nuovi modelli di creazione di valore, come dimostra l’apertura a Bologna di Food Coop: una versione reloaded della cooperazione di consumo che basa la sua sostenibilità e la propria capacità di offerta potenziando la dimensione relazionale rispetto a comunità che si costituiscono sempre più “a misura d’impatto”.


Questo articolo è stato pubblicato anche su Tempi Ibridi, blog curato da Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, con cui Percorsi di secondo welfare ha deciso di “contaminarsi”