Nel dibattito sempre più acceso sulla socialità delle piattaforme l’efficienza è il convitato di pietra. Il dato bruto col quale è necessario fare i conti per poter poi disquisire di questioni più raffinate come assetti di governance e modelli di gestione ispirati a principi di condivisione e cooperazione “autentici”. Il capitalismo delle piattaforme estrae valore (economico e di conoscenza) per concentrarlo nelle mani di pochi ed è pervasivo nel monopolizzare le culture d’uso e gli stili di vita. Tutto vero, ma c’è un problema: è dannatamente efficiente nella prestazione, in particolare nel fare incontrare domanda e offerta, come ci ricorda il premio nobel Alvin Roth nel suo ultimo libro intitolato, non a caso, matchmaking. Talmente efficiente da sedurre molti dei soggetti coinvolti nella click economy a cedere risorse aggiuntive a titolo gratuito attraverso recensioni, consigli per gli acquisti, modalità di utilizzo, ecc.

Così i modelli di economia e socialità che si pongono in alternativa a quello dominante devono duellare non solo su elementi di principio, ma sulla declinazione di questi attraverso prestazioni che risolvono i problemi. Un tema, questo della competizione sul lato dell’efficienza, non nuovo, anzi. E’ vecchio almeno quanto l’impresa sociale. Perché proprio questa forma d’impresa è apparsa e si è progressivamente affermata come organizzazione economica e produttiva che ha accettato di competere su elementi di natura gestionale che incarnavano finalità diverse da quelle perseguite dagli attori dominanti. Attori nel campo del mercato (imprese for profit) ma anche, e soprattutto, in quello dello Stato (tecnostrutture burocratiche). Un passaggio decisivo perché ha fatto fare un salto di qualità all’azione di advocacy, il classico strumento adottato da coloro che intendono evidenziare le storture del sistema, le sue esternalità negative. Un po’ come sta avvenendo oggi con le campagne volte a denunciare le distorsioni del platform capitalism, ad esempio per quanto riguarda la tutela del lavoro, la redistribuzione delle risorse (come e dove pagano le tasse) e le derive dei modelli di consumo compulsivo online.

L’impresa sociale insegna quindi che produrre in modo efficiente per la una larga platea di beneficiari è un imperativo non disgiunto dalla dimensione di missione. Distinguere i due versanti della questione è rischioso – anche e soprattutto per le stesse impresa sociali – perché si lascia senza governo la produzione perdendone la dimensione di significato (obiettivo, finalità) e all’opposto i principi di giustizia sociale, uguaglianza, condivisione, democrazia, ecc. rischiano di diventare simulacri, utili, al massimo, come testimonianza del passato ma con poca o nulla capacità di adesione. Costruire organizzazioni efficienti nel dare risposte ai bisogni quotidiani è il miglior modo per dimostrare che cooperare e condividere funziona e conviene. A maggior ragione in un’epoca connotata da un diffuso pragmatismo, dove gli elementi di valore più che essere dichiarati ex ante attraverso leggi quadro e principi costituenti funzionano nella misura in cui vengono messi all’opera coalizzando portatori di interesse e risorse in vista di obiettivi che, cammin facendo, diventano “di interesse generale”. Se fino a qualche decennio fa gli intermediari di senso (i famosi “corpi intermedi”) predeterminavano questa funzione-obiettivo, oggi il valore sociale bisogna produrlo come esito di un processo di coinvolgimento ad ampio raggio, anche di chi a quei principi non crede o crede poco, altrimenti segmenti sempre più ampi della società si auto-escluderanno dal processo vanificando così la produzione di valore condiviso e lasciando campo libero all’efficienza del “tecnocapitalismo” e alla sua “libertà immaginaria” come ci ricorda Mauro Magatti.

Ma nell’era delle piattaforme serve un cambio di rotta anche per l’impresa sociale. Nel passato, e in buona parte ancora oggi, l’efficienza è stata perseguita da parte delle imprese sociali metabolizzando dosi massicce di efficienza amministrativa e aziendale, forti di una missione di pubblico interesse fortemente legittimata. Oggi invece è necessario ridefinire l’efficienza per riscoprire, attraverso essa, elementi finalistici misurabili come impatto sociale. Il tempo, da questo punto di vista, è propizio perché si stanno progressivamente affermando, grazie anche al mutamento della domanda, nuovi canoni di efficienza, slegati dalla disponibilità di un catalogo di servizi standardizzati e riconducibili invece alla capacità di allestire luoghi di coproduzione di beni e servizi tagliati su misura. Un campo dove le organizzazioni sociali di natura produttiva possono recuperare, rigenerandoli, elementi di cultura e di gestione che oggi spesso sono “asset sottoutilizzati”, ad esempio guardando alla capacità di progettazione individualizzata, alla relazionalità della cura, al valore dell’esperienza, ecc.

Certo il capitalismo platformista non sta a guardare e si muove, anche se con gradi diversi di investimento, nella stessa direzione. Basti guardare alla strategia di airb&b dove l’efficienza del matching è sempre più spostata da un core-business ormai maturo (trovare una stanza) a nuovi elementi di valore, tutti sociali come il turismo locale ed esperienziale, come dimostra il nuovo fondo “community tourist programme“. A dimostrazione che le infrastrutture digitali hanno significativi margini di flessibilità nel modularsi non solo su prestazioni puntuali, ma su beni relazionali.

La sfida sta quindi nella capacità di condividere i fini in schemi di progettazione e gestione dei servizi. Un design delle soluzioni per dilatare il perimetro dell’offerta di servizi di pubblica utilità (Daniela Selloni) ma anche per nuovi percorsi di democrazia partecipata (Ezio Manzini). Un approccio e un’attrezzatura necessari ad attraversare la via stretta dell’efficienza e giungere così al nucleo dei significati che sostanziano l’agire sociale ed economico nella società d’oggi.

Questo articolo è stato pubblicato anche su Tempi Ibridi, blog curato da Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, con cui Percorsi di secondo welfare ha deciso di “contaminarsi”.