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Con la DGR 12620 del 2004, la Regione Lombardia ha istituito le RSD, Residenze Socio-Sanitarie per Disabili, “per accogliere le persone con grave disabilità non più assistibili a domicilio”. La nuova unità d’offerta, che sostituisce il Centro Residenziale Handicap (CRH) – destinato ad accogliere esclusivamente “persone con grave e gravissima disabilità” – svolge la sua attività all’interno di scenari territoriali altamente disomogenei, caratterizzati da livelli di variabilità elevatissimi rispetto a molti dei fattori socio-ambientali e produttivi che entrano in gioco nel processo di costruzione ed erogazione del servizio. Tra questi fattori anche i servizi pubblici esistenti sul territorio, le scelte degli amministratori locali in materia sociale e socio-sanitaria, le istituzioni effettivamente attive e coinvolte, il livello di attuazione delle linee di indirizzo di politica sociale e socio-sanitaria la concreta esigibilità dei diritti sanciti, e le rappresentazioni culturali prevalenti con cui la comunità inquadra il fenomeno oggetto di intervento.

E’ dunque interessante affrontare il tema della disabilità e riflettere sulle possibili soluzioni prendendo in considerazione un caso concreto, quello della RSD che si è consolidata nel corso degli ultimi 10 anni a Mortara, in provincia di Pavia. Qui si è operato infatti un tentativo di utilizzare il servizio RSD per costruire concrete opportunità abitative alternative alla famiglia anche per le persone con gravi disabilità. Abbiamo posto alcune domande a Marco Bollani, direttore della Cooperativa sociale COME NOI, che si occupa da oltre vent’anni di servizi sociali e socio-sanitari per persone con disabilità e che ha contribuito alla gestione della RSD di Mortara.

Come si è arrivati alla costruzione di una RSD a Mortara? Quale è la genesi di questo progetto?

La struttura oggi RSD è stata realizzata dalla Cooperativa COME NOI, una cooperativa fondata da genitori di persone con disabilità e volontari dell’Anffas locale preoccupati e angosciati soprattutto dal progressivo venir meno delle loro capacità di cura e di presa in carico dei figli. Le famiglie dell’Anffas di Mortara (fondata nel 1984) avevano già costituito una cooperativa nel 1986 per attivare servizi di accoglienza diurna dei loro figli. Alla fine degli anni Novanta, dopo dieci anni di cooperazione tra genitori e volontari che aveva portato alla creazione di servizi diurni informali nuovi per il territorio, molto ricchi sul piano umano e ideale di vicinanza alle persone, costruiti su un grande impegno del volontariato e degli obiettori di coscienza, la cooperativa decise di acquistare un terreno e di attivarsi per la costruzione di una struttura in grado di aiutare i familiari a “non rimanere da soli, a non essere tagliati fuori dal mondo”.

Nasce così il progetto di realizzare un complesso residenziale destinato ad accogliere genitori anziani con figli disabili in mini-alloggi attrezzati, realizzati all’interno di una palazzina a due piani circondata da sei unità abitative indipendenti anch’esse destinate ad accogliere famiglie con figli con disabilità. La struttura oggi adibita a RSD è stata quindi costruita e concepita all’interno di un progetto sociale che prevedeva di organizzare la convivenza di genitori anziani e figli disabili nell’ambito di una comunità residenziale allargata di famiglie associate alla locale Anffas di Mortara. Si trattava di famiglie socie della cooperativa che ha realizzato la costruzione dell’immobile.

La struttura realizzata e il progetto di residenzialità che l’ha ispirata non sono stati quindi originariamente concepiti come RSD. Non era ancora stata istituita e disciplinata tale unità d’offerta. La Regione Lombardia a quel tempo prevedeva tra i servizi residenziali per persone con disabilità il CRH, Centro Residenziale Handicap, destinato ad accogliere esclusivamente persone con grave e gravissima disabilità. Il progetto e la successiva costruzione portata a termine a Mortara rispettano i requisiti di esercizio e funzionamento del CRH ma contestualmente le stanze del primo piano dell’edificio centrale destinate alla parte residenziale oggi RSD vengono concepite con la possibilità di suddividere gli spazi in diversi mini-alloggi per accogliere insieme genitori anziani e figli.

Nell’autunno del 2000 la struttura è pronta – dagli impianti agli arredi – ma resta utilizzata solo nella parte al pianterreno, dove si trasferisce il servizio diurno nel frattempo trasformato in unità d’offerta autorizzata, e poi accreditata come CSE a dicembre dello stesso anno. Delle sei unità abitative indipendenti realizzate insieme all’immobile a due piani, cinque sono affittate a famiglie con familiari in condizioni di disabilità e una è adibita a servizio di pronto intervento. Dal 2000 al 2004 la struttura residenziale al primo piano della palazzina resta inutilizzata. Le famiglie, coerentemente con il loro progetto iniziale, hanno deciso che non l’avrebbero utilizzata subito, ma solo al momento del loro effettivo bisogno. I genitori sono così rimasti a casa loro, con i loro figli, finché la loro condizione familiare non fosse diventata insostenibile.

Quando ha preso avvio il servizio e come si è sviluppato nel tempo?

Il servizio residenziale, oggi RSD, nasce solo nella seconda metà del 2004, in risposta a una serie di bisogni e di eventi di emergenza. Nel 2004 viene infatti ricoverata in casa di riposo la mamma del più anziano degli ospiti del CSE, che viene inserito nell’alloggio del pronto intervento insieme ad un altro ospite del CSE senza genitori che manifesta già da tempo difficoltà di convivenza con il nucleo familiare della sorella. Nello stesso anno restano senza genitori due ospiti di sesso femminile del servizio diurno CSE. Nel 2004 pertanto, la cooperativa avvia il servizio residenziale accogliendo quattro persone, due uomini e due donne. Di queste quattro persone, due (un uomo e una donna) avevano già manifestato apertamente il loro desiderio di uscire di casa. Le altre due persone presentano un quadro di sindrome autistica e livelli di funzionamento molto deficitari, e sono rispettivamente il più anziano e la più giovane degli ospiti del CSE.

Nel corso dell’anno la cooperativa modifica il proprio regime di autorizzazione al funzionamento da CRH in RSD, scegliendo una modalità di intervento che garantisca una copertura socio-sanitaria più elevata, spinta soprattutto dalla preoccupazione di dover far fronte a bisogni e carichi assistenziali molto elevati e crescenti. Il primo nucleo di accoglienza residenziale dell’attuale RSD nasce così in risposta ad un’emergenza caratterizzata da tensioni e disagi in un certo senso di segno opposto: da un lato la mancanza improvvisa di tre genitori ma contestualmente anche il bisogno e il desiderio di emanciparsi dalla famiglia di due persone con disabilità già accolte nel servizio diurno.

Di fatto questo avvio del servizio segna anche la fine dell’ipotesi di intervento concepita nel progetto residenziale originario. Segna la fine dell’assunto di base attorno a cui i genitori della cooperativa e dell’Anffas avevano concepito il loro progetto di residenzialità auto-assistita insieme ai figli. La possibilità, in sintesi, di vivere insieme aiutandosi tra famiglie. Le persone con disabilità vengono, infatti, accolte presso la struttura residenziale senza i genitori, non insieme a loro. Il cambiamento è irreversibile e il servizio procede con questa impronta. Gli inserimenti successivi al 2004 rispecchiano anch’essi queste due istanze di segno opposto: “genitori che non ce la fanno più ” e allo stesso tempo figli sempre più “impazienti” di uscire di casa. La struttura raggiunge il livello di saturazione alla fine del 2009, a quasi dieci anni dall’ultimazione dei lavori e dell’allestimento completo dei suoi spazi, seguendo un flusso di inserimenti costante.

Che cosa è cambiato dal 2009 a oggi?

La saturazione del servizio RSD segna l’avvio di una nuova “genesi progettuale” all’interno della Cooperativa COME NOI che nel frattempo, tra il 2000 e il 2009, è profondamente cambiata. La capacità organizzativa dell’ente è cresciuta attraverso il convenzionamento con i comuni e l’accreditamento con la Regione Lombardia. Sono cresciute anche le competenze professionali e specialistiche degli operatori coinvolti e il progetto sociale della cooperativa si orienta sempre più verso la possibilità di costruire risposte personalizzate ai bisogni delle persone accolte presso i servizi diurni e residenziali. L’offerta dei servizi ha garantito e dimostrato sul campo ai familiari la possibilità di costruire percorsi di emancipazione dei figli dai loro genitori. Le persone con disabilità accolte presso i servizi diurni e residenziali hanno sperimentato in prima persona il cambiamento della loro condizione esistenziale uscendo dalle famiglie. Molti di loro l’hanno comunicato apertamente manifestando anche nuove aspettative di vita ulteriormente evolutive rispetto all’abitare in RSD.

Contestualmente per tutto il 2010 e il 2011 i servizi diurni e residenziali della cooperativa hanno dovuto rispondere a una crescente domanda di accoglienza residenziale molto diversificata: sono infatti aumentate, presso i servizi della cooperativa le richieste di interventi di sollievo e di pronto intervento connessi a necessità di cure o di ricoveri per i genitori anziani; le richieste di inserimento in struttura residenziale da parte di comuni alle prese con situazioni “borderline” in cui l’insufficienza mentale del soggetto e la non adeguatezza delle strategie familiari di presa in carico hanno determinato preoccupanti situazioni di conflittualità intra-familiare non gestibili; le richieste di opportunità abitative di vita indipendente o a bassa intensità assistenziale anche da parte di persone con lieve disabilità intellettiva e complesse disabilità fisiche.

A fronte di una domanda crescente così diversificata e in presenza di servizi saturi, la cooperativa – già dalla fine del 2009 – ha disposto l’attivazione in forma sperimentale di due progetti di vita in comunità, utilizzando tre delle sei unità abitative costruite attorno alla struttura a due piani. Tali unità – inizialmente pensate per accogliere i nuclei familiari con genitori e figli disabili con difficoltà assistenziale – si sono infatti rivelate uno spazio idoneo a coltivare e costruire prospettive di autonomia abitativa per le persone accolte in RSD ma con disabilità meno complesse dal punto di vista assistenziale e con deficit relazionali e comportamentali più accentuati, nonché una risorsa essenziale per allargare gli spazi di residenzialità per persone con maggiori autonomie.

Tra il 2009 e il 2011 si sono così sperimentate due opzioni nuove di residenzialità: da un lato l’occasione per una ulteriore evoluzione del progetto abitativo e di vita per alcune persone accolte in RSD che hanno manifestato nel corso del tempo necessità di spazi e luoghi più “riservati” e soprattutto meno “impegnativi” sul fronte delle relazioni, con la possibilità di una strutturazione più personalizzabile degli ambienti e dei ritmi della loro vita quotidiana; dall’altro la possibilità di avviare verso la vita indipendente persone con disabilità intellettive meno accentuate, inizialmente rivoltesi alla cooperativa per bisogni di assistenza o di sollievo temporaneo delle famiglie ma in seguito non più disponibili a tornare in famiglia.

Nel corso del tempo ben quattro persone che vivevano in RSD riescono a sperimentare la possibilità di vivere “in villetta”, e manifestano sempre più convintamente la loro disponibilità e la loro aspettativa di un cambiamento ulteriore del loro progetto di vita, che si concretizza con le dovute gradualità nell’arco del 2011.

Questo lavoro complessivo di ri-aggiustamento dei processi di presa in carico delle persone potenzialmente più autonome accolte in RSD e saltuariamente nell’unità di pronto intervento, oltre a favorire un’evoluzione dei progetti di vita delle persone con disabilità, ha consentito di rispondere ad alcune ulteriori richieste pressanti di accoglienza presso la stessa RSD da parte di altre famiglie in difficoltà. A novembre 2011 la cooperativa inaugura ufficialmente l’apertura di una comunità alloggio – ricavata dalla ristrutturazione e dall’accorpamento di due delle sei unità abitative indipendenti – e riconfigura complessivamente l’organizzazione dei servizi residenziali attualmente in essere, che comprendono un progetto per la vita indipendente, la comunità alloggio e la RSD. Contestualmente, nel corso del 2011, l’Anffas di Mortara e la Cooperativa COME NOI riescono nell’intento di sensibilizzare un gruppo di genitori a sperimentare – sulla scorta di esperienze analoghe già avviate in Lombardia – forme innovative di “abitare sociale”, utilizzando le abitazioni di proprietà degli stessi genitori.

In che senso la RSD si configura come una opportunità abitativa alternativa alla famiglia?

Il tentativo della Cooperativa COME NOI di caratterizzare l’esperienza della RSD di Mortara come un’opportunità abitativa alternativa alla famiglia origina dalla scelta dei genitori di impegnarsi in prima persona nella costruzione di interventi di sostegno per loro e per i loro figli in assenza di interventi pubblici territoriali. Da questa scelta “obbligata” nasce l’idea di concepire un nuovo “modo di abitare” delle famiglie con un figlio disabile in risposta ai loro bisogni di assistenza e presa in carico. I genitori non pensano a costruire qualcosa per accogliere i figli quando loro non ce la faranno più. Pensano invece di realizzare un’opportunità abitativa nuova, comunitaria, fatta di case e alloggi raggruppati, vicini, in cui andarci a vivere con i figli. Questo cambiamento radicale di vita delle famiglie però non si realizza e gli alloggi e le case serviranno ad accogliere i figli senza di loro.

Questo errore di valutazione dei genitori, tuttavia, risulta decisivo per aprire ai figli nuove prospettive di cambiamento, inedite e in un certo senso insperate. Tali possibilità si determinano infatti anche in virtù di quella spinta iniziale a costruire qualcosa di molto più protettivo che non prevedeva la possibilità di emancipazione dei figli dalle famiglie. Possiamo dire che il bisogno dei genitori di costruire una struttura residenziale capace di accoglierli insieme ai figli ha generato la possibilità di realizzare strutture e alloggi per i figli che prima non c’erano sul territorio. Inoltre la tensione a realizzare strutture e servizi in cui si potesse vivere “come a casa” da parte di chi li utilizza e li vive, non solo resta impressa come elemento distintivo di tutto il progetto sociale realizzatosi a Mortara, ma in un certo senso lo alimenta di una spinta nuova, contagiando in primo luogo i figli che chiedono di uscire di casa non appena riscontrano che si può vivere bene in RSD e alimentando ulteriormente le progettualità degli operatori per favorire l’emancipazione delle persone adulte con disabilità dalla famiglia. La RSD infatti non si limita ad accogliere soltanto le persone “non più assistibili a domicilio” ma si lascia in un certo senso investire anche dai bisogni di persone che potrebbero continuare a vivere a casa loro ma hanno bisogno di staccarsi dalla famiglia di origine per provare a darsi una prospettiva di vita più “loro”, più autonoma.

L’esperienza praticata dei servizi residenziali attraverso la RSD ha poi fatto emergere e in un certo senso ha promosso tra i familiari dei servizi diurni e dell’Anffas la possibilità di riconoscere il bisogno e soprattutto la possibilità dei figli di vivere “adeguatamente protetti” e presi in carico fuori di casa senza i genitori. E’ stata poi successivamente la residenzialità socio-sanitaria, protetta, con un impianto ed un mandato istituzionale piuttosto rigido che ha consentito anche a molte persone con disabilità con un bisogno iniziale di contenimento molto elevato di essere accolte, per essere poi avviate a nuove prospettive di vita comunitaria meno “contenitive”. Paradossalmente la sola presenza del medico, dell’infermiere, di un rapporto uno a uno in RSD ha consentito alle persone di poter essere avviate a situazioni di vita più autonoma, meno dipendente.

Infine, oggi molte opportunità di vita più indipendente e la stessa scelta di sperimentare forme temporanee di abitare sociale per formare alla residenzialità le persone con disabilità discendono dall’esperienza di “vivibilità” della RSD. Attraverso l’esperienza della RSD i genitori di Mortara riconoscono oggi di aver “centrato l’obiettivo sbagliando il tiro”. La “centratura” iniziale del progetto di Mortara sulla realizzazione di nuove opportunità “abitative” è risultata “generativa” perché ha favorito dei cambiamenti significativi nelle aspettative e nei progetti di vita dei genitori, dei loro figli e anche nelle progettualità di vita e di presa in carico delle persone con disabilità.

Quali sono i principali punti di forza del progetto RSD di Mortara?

Nella particolare caratterizzazione della RSD di Mortara i punti di forza e gli elementi di criticità del servizio finiscono per coesistere e rispecchiarsi gli uni negli altri, in una sorta di “ambivalenza” che è insieme contraddittoria ma vitale, molto difficile da gestire ma allo stesso tempo ricca perché ammette, assume e promuove la possibilità di cambiamento dei progetti di vita delle persone accolte.

I principali elementi di forza che hanno portato e poi sostenuto tale scelta risultano facilmente individuabili nel bisogno di trovare un nuovo modo di abitare “insieme” implicito nella concezione originaria del progetto dei genitori dell’Anffas, ma anche nella possibilità e nel desiderio di uscire di casa dei loro figli e infine nelle modalità di accompagnamento e di sostegno assunte dagli operatori per rendere praticabili tali prospettive.

Dalla prospettiva dei genitori, quindi, vi è l’obiettivo di creare una nuova casa per quando loro non ce la faranno più. Sotto questo profilo i genitori si aggregano e si impegnano insieme ai volontari per costruire una nuova struttura fatti di alloggi e case nuove dove poterci vivere con i loro figli. I figli ci vivranno poi da soli ma la struttura e le case le hanno volute e le hanno costruite loro. La RSD costituisce la cornice normativa per “accreditare” il loro progetto ma la struttura che ospita i loro figli costituisce la loro nuova abitazione, non può in alcun modo rinunciare ad essere il luogo dove i figli andranno ad abitare: “non può assomigliare ad un ospedale o ad una casa di riposo per anziani”. Inoltre la struttura viene realizzata dalla cooperativa dei genitori ed i genitori si sentono a tutti gli effetti i “padroni di casa” nel senso di garanti di una condizione di vita “come se i nostri figli vivessero a casa loro”.

Dal punto di vista dei figli, va menzionata la volontà di uscire di casa per andare ad abitare senza i genitori. I figli non “stanno a guardare” e riescono a manifestare la loro scelta: in alcuni casi ad anticipare i genitori, in altri casi riescono ad imporre ai genitori il loro bisogno di uscire di casa. Da questo punto di vista la RSD rappresenta un’opportunità di scelta per le persone con disabilità. Oltre che un luogo dove abitare, anche un luogo di cambiamento e di rielaborazione di un progetto di vita: “vado a vivere da solo, ma questo è solo l’inizio”. L’emancipazione dalla famiglia rappresenta per chiunque un punto di partenza. Per molte persone con disabilità (ma non solo) uscire dalla famiglia ha costituito, anche a Mortara, la fine di un’emergenza, lo sciogliersi di un vincolo alla realizzazione di sé, l’inizio di un percorso esistenziale nuovo, tuttora in corso, di cui non si conosce il punto di arrivo.

Dal punto di vista degli operatori, si è trattato di una esperienza educativa e pedagogica “radicale”: gli operatori che hanno accompagnato e sostenuto le famiglie e le persone dell’Anffas in questa esperienza hanno accettato la sfida di “mettersi in mezzo” tra genitori e figli, tra famiglie e istituzioni, da una posizione decisamente non facile, totalmente asimmetrica entrando direttamente all’interno del sistema familiare dell’Anffas in cui le famiglie ed i genitori sono contemporaneamente i portatori dei bisogni e i datori di lavoro.

Quali sono stati invece gli elementi di criticità?

Gli elementi di criticità più evidenti nell’esperienza RSD di Mortara riguardano principalmente la sostenibilità del servizio. Tra il 2004 e il 2011, il servizio RSD si è progressivamente consolidato attraverso l’accreditamento regionale e le convenzioni con i comuni che hanno supportato lo sforzo economico e gestionale delle famiglie che l’hanno posto in essere. Il 2011 e il 2012 tuttavia hanno registrato le prime difficoltà della Regione nella remunerazione per intero delle prestazioni effettuate dalla RSD con una riduzione del 2% dei budget assegnati a valere sul Fondo sanitario regionale e conseguente ricaduta negativa sui risultati di esercizio della cooperativa, già caratterizzati da un elevato e fisiologico indebitamento dell’ente conseguente agli investimenti strutturali compiuti. Anche i comuni, alle prese con tagli generalizzati delle risorse sociali hanno manifestato nel corso del 2012 la difficoltà ad adeguare i livelli di finanziamento e di copertura dei costi conseguenti i nuovi inserimenti presso il servizio. In tal senso costituisce un indicatore di criticità il progressivo incremento dei costi sociali esposti alle famiglie, se si considera che la RSD costituisce a tutti gli effetti un servizio che rientra nei livelli essenziali di assistenza.

Più in generale, senza entrare troppo nel merito di un’analisi gestionale che richiederebbe riflessioni ben più ampie, dall’interno del servizio non si può non rilevare una crescente difficoltà delle istituzioni nel riconoscere la specificità dell’offerta della RSD in relazione ad un bisogno che sta crescendo ma che spesso fatica ad emergere come domanda e che risulta difficilmente inquadrabile ed assumibile all’interno di una politica di contenimento dei costi e di riduzione delle risorse destinate al comparto socio-sanitario. Il bisogno di emanciparsi dalla famiglia di molte persone adulte con gravi disabilità e il bisogno di molti genitori di essere precocemente sgravati da un carico di cura eccessivo, non si manifestano con la facilità e l’immediatezza di altri bisogni di cura e presa in carico dell’area sanitaria e socio-sanitaria. Si tratta di bisogni che spesso confliggono tra loro, che tendono ad essere in vario modo occultati all’interno delle famiglie. Famiglie che a fronte di situazioni di grave e gravissima disabilità dei figli riescono ad adattarsi ed a riconfigurare le loro strategie di vita, al prezzo di costi personali, sociali, economici ed esistenziali elevatissimi per le persone con disabilità e per i loro familiari.

Quali osservazioni/spunti per migliorare la normativa sulle RSD si possono ricavare dall’esperienza di Mortara?

Appare inadeguato l’inquadramento generale del provvedimento normativo, che disciplina attualmente la RSD come unità d’offerta socio-sanitaria destinata alle persone con disabilità “non più assistibili al domicilio”. Si tratta, infatti, di un inquadramento che riflette una concezione estremamente riduttiva della “residenzialità” delle persone con disabilità anche gravi e gravissime, e che le espone al rischio di un marcato restringimento del raggio d’azione del servizio a un ambito prettamente assistenziale. Con il rischio di escludere dalla presa in carico la sfera dei bisogni esistenziali delle persone in esso accolte. La normativa concede inoltre uno spazio decisamente ancora troppo ampio a concezioni del servizio e a conseguenti modalità organizzative più improntate alla cura sanitaria e assistenziale delle persone con disabilità, in controtendenza con i dettami dell’OMS e con i riferimenti normativi della convenzione ONU. Principi peraltro ripresi e recepiti anche dalla normativa regionale, e in particolare dal Piano di Azione Regionale per la Disabilità.

L’esperienza di RSD di Mortara contiene in un certo senso anche il tentativo e lo sforzo di allargare progressivamente il mandato istituzionale di questa particolare unità d’offerta verso la possibilità di accogliere un bisogno più articolato delle persone di cui assume la presa in carico. Così come declinatasi nell’esperienza di Mortara, la mission della RSD sembrerebbe suggerire un inquadramento notevolmente più ampio delle sue finalità. Essa è stata avviata perché l’aspettativa di vita delle persone con disabilità si sta alzando progressivamente, e l’invecchiamento progressivo dei loro genitori le espone a rischi molto elevati di esclusione sociale e di difficoltà esistenziale. Per questo appare necessario prevedere anche per le persone con disabilità complesse delle prospettive di vita dignitose, capaci di garantire condizioni di benessere esistenziale e di promuovere opportunità inclusive attraverso soluzioni abitative e residenziali diversamente modulabili, tra cui servizi residenziali come le RSD in cui le persone possano vivere, abitare e sentirsi, il più possibile, come a casa loro.

Un’idea che pare in linea con i contenuti del Piano di Azione Regionale per la Disabilità. Il paragrafo 4.1.2 del PAR “Sostegno alle persone con disabilità nei loro progetti di vita” prevede infatti che “Le azioni messe in campo, devono offrire un luogo in cui vivere a persone con disabilità prive della famiglia ma, anche e soprattutto, rappresentare un’occasione in cui realizzare quel progetto di vita autonoma e di indipendenza dalle figure genitoriali, che costituisce il naturale percorso di sviluppo della persona e che supera i confini del mero accadimento”.

Ci sono considerazioni più generali che si possono fare alla luce dell’esperienza della RSD di Mortara?

L’esperienza della RSD di Mortara si presta anche ad alcune riflessioni più generali di politica sociale e socio-sanitaria rispetto ai cambiamenti di welfare in atto. Di fatto, dal 2004 al 2012, l’attivazione della RSD di Mortara ha contribuito a coprire parzialmente il deficit tuttora decisamente consistente di servizi residenziali per la disabilità presenti sul territorio di Mortara e dell’intera Lomellina.

Tale carenza è ben rappresentata nei documenti di programmazione e coordinamento dell’attività sanitaria e socio-sanitaria 2010 e 2011 della ASL di Pavia: i dati contenuti evidenziano infatti una differenza notevole tra il potenziale di domanda e l’offerta di servizi residenziali, nonché una distribuzione disomogenea sul territorio della provincia di Pavia. La stessa disomogeneità ma di segno inverso la riscontriamo nell’ambito dei servizi residenziali per le persone anziane. Quasi il 50% dei “posti letto” accreditati per anziani di tutta la Provincia sono, infatti, collocati in Lomellina. Risultati che mostrano uno “sfasamento” complessivo tra la domanda e l’offerta di servizi residenziali (per anziani e per persone con disabilità) che non appare giustificato dai dati generali sulla fragilità della popolazione. “Sfasamento” caratterizzato da una marcata insufficienza di opportunità residenziali per la disabilità, e da un verosimile eccesso di offerta residenziale per persone anziane. Questo ci consente di tratteggiare meglio il contesto di intervento su cui si è realizzata l’esperienza di RSD di Mortara aprendo alcuni interrogativi rispetto ai processi di governo delle politiche sociali ed alle ipotesi oggi in agenda di riorganizzazione degli assetti e dei sistemi di finanziamento del comparto socio-sanitario.

A quali processi di governo delle politiche sociali sono imputabili gli sfasamenti di risposta ai bisogni di persone non autosufficienti (persone anziane e con disabilità) rilevabili sul territorio oggetto della presente descrizione e che in un certo senso hanno “costretto” un gruppo di genitori di persone con disabilità a impegnarsi direttamente per costruire i servizi necessari ai loro figli?

In che modo l’attuale ipotesi di ridefinizione dei criteri di finanziamento del comparto socio-sanitario che prevede espressamente l’assegnazione diretta delle risorse alle persone destinatarie del servizio in funzione del fabbisogno di assistenza e della capacità economica potrà correggere fenomeni di sfasamento come quello evidenziato tra bisogni in crescita di servizi residenziali per persone con disabilità, offerta insufficiente e assegnazioni di risorse in diminuzione al comparto socio-sanitario?

Il percorso “necessariamente sussidiario” che ha portato un gruppo di genitori ad associarsi all’Anffas, a creare una cooperativa sociale e in seguito a realizzare un sistema differenziato di servizi e di interventi di pubblica utilità convenzionati con i comuni e accreditati e finanziati dalla Regione, sarebbe riproducibile, riprogettabile per i prossimi dieci anni e sostenibile oggi, esattamente dieci anni dopo l’avvio dell’esperienza di Mortara?


Riferimenti

Le Residenze Socio-Sanitarie per Disabili

Il sito della Cooperativa sociale COME NOI

Il PAR sul sito di Regione Lombardia

 

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