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Tanti giovani italiani oggi sta affrontando con grandi difficoltà il passaggio dal mondo della scuola o della formazione universitaria a quello del lavoro. Per sostenerli in questo passaggio è necessario ripensare al loro empowerment e al loro potenziale ruolo all’interno della comunità in cui vivono. Questo il pensiero di Lorenzo Bandera, espresso nell’ambito dell’inchiesta realizzata da Secondo Welfare per Corriere Buone Notizie.


Un elevato numero di giovani italiani oggi sta affrontando con grandi difficoltà il delicato passaggio dal mondo della scuola o della formazione universitaria a quello del lavoro
. A dirlo sono i dati sulla disoccupazione giovanile (stabilmente sopra il 30%), sugli under 35 che vivono ancora coi genitori (67%) e sui cosiddetti Neet, ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi formativi (24,1%, mentre la media Ue è del 14,2%). E proprio quest’ultima categoria dovrebbe preoccupare maggiormente: oggi in Italia c’è un esercito di 2,2 milioni di giovani scoraggiati e generalmente incapaci di trovare strade che possano condurli verso la «vita adulta». Una condizione certamente riconducibile ai lunghi strascichi della crisi economico-finanziaria, ma anche a un generale clima di sfiducia evidente soprattutto a livello sociale e relazionale. A cui va aggiunta l’incapacità del nostro Paese di mettere in campo politiche occupazionali e misure strutturate di welfare per sostenere adeguatamente chi si trova in questa fase di vita.

Come affrontare questa situazione? Se lo sono chiesti Patrik Vesan e Rosangela Lodigiani, che nel Terzo Rapporto sul secondo welfare hanno cercato di fornire una risposta partendo dall’idea di empowerment, cioè quell’insieme di processi attraverso i quali le persone sviluppano una più elevata consapevolezza di sé e una maggiore capacità di controllo delle proprie scelte al fine di intervenire con maggiore efficacia nei contesti in cui vivono. Secondo gli studiosi questo concetto – tradizionalmente legato alla dimensione occupazionale e agli skills necessari a migliorare la propria posizione lavorativa – oggi chiede di essere «allargato».

In parole povere, per affrontare la situazione attuale non è più possibile concentrarsi esclusivamente sul mero potenziamento delle competenze e abilità delle singole persone in ambito lavorativo, «piegando» nei fatti queste ultime alle necessità occupazionali. Serve ripensare l’empowerment guardando al ruolo che le persone, e in particolare i giovani, possono giocare in relazione alla comunità in cui vivono, creando condizioni favorevoli a una crescita che non si limiti alle competenze lavorative, ma abbracci anche la capacità di contribuire al benessere della collettività.

La grande sfida sta dunque nel restituire valore a processi di socializzazione che vadano «oltre il lavoro», che favoriscano la piena inclusione e partecipazione alla vita politica e sociale all’interno delle comunità di appartenenza. In questo senso Vesan e Lodigiani segnalano l’esempio delle Youth Bank. Si tratta di progettualità innovative che offrono ai giovani la possibilità di sperimentare intense esperienze di cittadinanza attiva, capaci anzitutto di dare nuovo respiro alle prospettive di inserimento, non esclusivamente lavorativo, di chi oggi è spesso ai margini. Le Youth Bank tendono infatti a creare o rafforzare alcune abilita trasversali dei giovani, coinvolgendoli nell’individuazione, selezione e gestione di progetti ritenuti di utilità sociale, favorendo al contempo il miglioramento della qualità della loro vita delle comunità. Uno strumento da tenere d’occhio, utile ad avviare processi di attivazione e coinvolgimento di cui il nostro Paese ha evidentemente un gran bisogno.

 

Questo articolo è stato pubblicato su Buone Notizie del 2 ottobre 2018 ed è stato realizzato nell’ambito della collaborazione tra Percorsi di secondo welfare e il settimanale del Corriere della Sera.

Alle Youth Bank è dedicato il secondo capitolo del Terzo Rapporto sul secondo welfare, curato da Patrik Vesan e Rosangela Lodigiani.