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Il 9 e 10 novembre a Milano si è tenuta Sharitaly, una due giorni sull’economia collaborativa che ha coinvolto aziende, pubbliche amministrazioni e terzo settore chiamati a discutere del presente e del futuro dello sharing nel nostro Paese. L’evento rientra nella Collaborative Week, settimana dedicata all’innovazione sociale e alla collaborazione in tutte le sue forme, dalla sharing economy all’abitare collaborativo, dal coworking al crowdfunding. 


Bisogno di conoscenza

L’economia collaborativa si conferma un settore in espansione ma per certi aspetti ancora molto frammentato e confuso: “con Sharitay quest’anno vogliamo fare il punto sul dibattito ma anche focalizzarci su un piano applicativo, presentando le esperienze esistenti e offrendo gli strumenti necessari alla diffusione dell’economia collaborativa” ha spiegato Marta Mainieri, ideatrice e curatrice – insieme a Ivana Pais – di Sharitaly. “In Italia peraltro scontiamo un digital divide che ne rende lo sviluppo più complesso. Occorre migliorare la formazione e la cultura per ampliare il pubblico e interpretarne meglio le esigenze” spiega Ivana Pais.


Sharing economy: la mappatura

Secondo uno studio realizzato da Marta Mainieri su 118 piattaforme collaborative italiane, trasporti (19%), turismo (15%) e scambio di beni di consumo (15%) sono i settori in cui si concentrano le imprese dell’economia collaborativa. Gli utenti sono pressoché omogeneamente distribuiti tra donne (52,8%) e uomini (47,2%), mentre si concentrano nelle fasce d’età 34-54 (49%) e 18- 34 anni (44%). L’economia collaborativa ha iniziato ad affacciarsi nel 2000, ma il grande boom è cominciato dal 2009, in parte per la diffusione di tecnologie digitali e social network, in parte per la ricerca di modelli alternativi di consumo, culminando tra il 2013 e 2014. Anche su questo fronte si conferma un gap territoriale: se il 70% delle piattaforme ha sede nel Nord Italia, il Sud Italia non conta alcuna piattaforma, mentre va un po’ meglio al Centro (18%) e nelle Isole (12%). Il 65% delle piattaforme è composto due o tre soci fondatori, il 50% ha meno di 5 dipendenti. Parliamo dunque di un settore che potrebbe espandere l’occupazione ma attraverso logiche profondamente diverse dal mercato del lavoro tradizionale. Interessante infine notare come anche il settore dell’economia collaborativa, per quanto innovativo, tenda a replicare le differenze di genere del mercato del lavoro italiano: il 73% degli imprenditori sono uomini.


Sharing e welfare

Ma l’economia collaborativa ha importanti implicazioni anche nel welfare, ad esempio nel welfare aziendale. “Si potrebbero creare delle reti aziendali per aggregare i bisogni dei dipendenti (carpooling, servizi condivisi, ecc.), favorire le banche de tempo” ci racconta Ivana Pais, curatrice dell’evento e docente di sociologia della Cattolica. Oppure nel volontariato, dove l’approccio della collaborazione, basato sul “breve termine” può contribuire a allargare le reti dei volontari: “più persone si possono impegnare, per tempi più brevi e con un minore investimento emotivo. E’ un logica più leggera, che dunque attiva più risorse. Si realizza la ricostruzione delle reti tra pari, che non sono più solo ricettori fruitori di un servizio, ma diventano protagonisti attivi, produttori di beni e servizi”.

La collaborazione diventa inoltre un veicolo per il superamento del dualismo tra solidarietà e mercato, con un numero sempre maggiore di imprese private a vocazione non profit e di organizzazioni non profit che acquisiscono caratteristiche aziendali e producono economia. Un processo per cui il welfare diviene comunitario, le politiche collaborative e l’economia coesiva. Gli stessi attori non sono più divisi come erano in passato, ma sempre più connessi e interdipendenti. Un esempio la riorganizzazione dell’assistenza familiare del Comune di Milano, che punta all’aggregazione della domanda e alla condivisione dei servizi da parte dei cittadini come veicolo per migliorare l’accessibilità e la qualità dei servizi e per abbattere l’economia informale. E, di riflesso, creare comunità – condividere un servizio per costruire relazioni.


Le incertezze

Certo, i punti di forza sono tanti, ma anche le criticità. La sharing economy genera la monetizzazione di risorse latenti ma non sempre crea solidarietà, socialità, sviluppo di relazioni – pensiamo al caso Uber. Oppure può favorire esperienze di socialità ma non durevoli. L’economia delle piattaforme genera talvolta una forte discrepanza tra i colossi societari – che hanno un enorme potere di mercato, potere di influenzare il dibattito e capacità manageriali – e i prestatori di servizi – ad esempio i proprietari che affittano casa – che spesso prestano appunto servizi per arrotondare redditi modesti. Infine, il dilemma tra la necessità di norme che tutelino lavoratori e qualità dei servizi senza irrigidire un settore la cui dinamicità e anomalia sono esse stesse tra gli ingredienti che ne hanno favorito lo sviluppo.