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Sul Sole 24 Ore del 30 luglio, a firma di Luca Bisio e Marco Nicolai, è apparso un interessante articolo sui saving cost bonds. Per dare seguito alla positiva provocazione contenuta nell’articolo, laddove si provava a definire i termini di uno strumento utile a superare «la miopia bilancistica» che sacrificherebbe una serie di investimenti importanti della pubblica amministrazione, proviamo a sviluppare una breve riflessione che contestualizzi lo strumento proposto e lo ricolleghi al discorso da tempo avviato sullo stretto rapporto tra impact investing e welfare.


Spending review e austerity: il tema della qualità del debito pubblico

Non di rado emergono espressioni che diventano in breve tempo degli slogan o delle parole d’ordine attraverso le quali leggere ogni fenomeno che si affaccia all’orizzonte del campo di osservazione. Più precisamente ci si riferisce all’espressione “spending review”, la quale a lungo ha occupato le pagine dei giornali italiani e il dibattito politico. Forse questa espressione ha fatto anche qualche vittima. Sicuramente è costata molto, almeno in termini di energie e risorse usate per discutere intorno alla sua legittimità. La revisione della spesa, che in italiano ha un suono meno affascinante pur conservando il medesimo significato, ha trovato il proprio fondamento nella logica della c.d. austerity. D’altra parte la maggioranza degli esperti hanno a lungo sostenuto che i livelli raggiunti dal debito pubblico non erano più sostenibili. Per completezza bisogna anche registrare posizioni eterodosse, come quelle di chi sosteneva la direzione esattamente opposta, ossia quella del necessario incremento della spesa pubblica affinchè ripartissero consumi e più in generale l’economia (in modo grossolano si potrebbe fare riferimento ad un approccio keynesiano).

Ciò che ha fatto molta fatica a trovare spazio nel dibattito intorno alle vicissitudini della spesa pubblica e del debito è il tema della qualità. In altri termini, il più possibile comprensibili, potremmo dire che al di là delle opzioni pro o contro austerity, il vero tema per la sostenibilità della spesa pubblica riguarda il suo impiego, non semplicemente la sua entità. E qui si ritorna al tema della revisione della spesa, che di frequente è stata fatta coincidere – nelle parole e nei fatti – con l’idea di tagli lineari. Una revisione della spesa che eliminasse sprechi che impoveriscono i bilanci dello Stato senza dare alcun tipo di beneficio in cambio ritengo sia perfettamente accettabile da parte di tutti gli interessati (salvo che in tali spese si nascondessero forme di rendita per alcuni). Se attraverso tagli drastici si riduce una spesa che assume invece i caratteri dell’investimento, automaticamente si riducono anche i possibili ritorni.

In parole povere la questione non può chiaramente essere ridotta alla dialettica tra i sostenitori e i detrattori della spesa pubblica. Ciò che è decisivo è la qualità del debito pubblico, non appena la sua esistenza in termini quantitativi. Considerati i rischi e i possibili ritorni di un investimento, se il profilo che ne risulta è in linea con le preferenze del soggetto chiamato ad investire quest’ultimo ragionevolmente potrebbe farsi carico di un ingente debito. Se così non fosse, cioè se il rapporto tra rischi e ritorni fosse sfavorevole, all’investitore chiunque consiglierebbe di ridurre la propria esposizione, ragionando sui modi e i tempi migliori per uscire dal gioco, quindi per tagliare il debito.


La prospettiva (pur ambigua) dell’investimento sociale

Senza rileggere il tema della spesa pubblica nei termini di una opposizione storicamente verificatasi tra diverse scuole di pensiero politico-economico e riconducibili con una certa dose di approssimazione a due importanti economisti del secolo scorso (J.M. Keynes e M. Friedman), si può dire che «la ridefinizione delle politiche del welfare ha fornito il vocabolario e la legittimazione politico-culturale per le argomentazioni a favore del welfare state come forma di investimento sociale, in primis nel capitale umano» (Saraceno, 2013). Questo approccio pone l’enfasi sul ruolo che le politiche sociali sono in grado di assumere quali strumenti di “attivazione” degli individui. Al tempo stesso la prospettiva dell’investimento sociale sembra assolutamente consapevole «della necessità di contrastare e compensare i fallimenti del mercato e ha, per questo, una immagine più positiva dell’intervento dello Stato» rispetto al pensiero del neoliberismo (Saraceno, 2013).

La prospettiva dell’investimento sociale implica chiaramente uno spostamento dalla protezione alla promozione, dall’emergenza alla prevenzione, dall’interno all’esterno e dalla staticità alla dinamicità (Ferrera, 2015). Peraltro il termine “investimento” stabilisce che l’orizzonte è più ampio di quello tradizionale e le politiche sociali derivanti da questo nuovo approccio sono caratterizzate da una forte componente inter-temporale (Ferrera, 2015). Ora i cambiamenti connessi all’avvento della prospettiva dell’investimento sociale sarebbero molti e investono peraltro aspetti importanti dei sistemi di welfare (si pensi a nodi cruciali quali la governance e i suoi diversi livelli, i diritti sociali e la cittadinanza, i soggetti produttori del welfare, ecc.). Qui è tuttavia sufficiente segnalare che si tratta di un approccio nuovo e il cui fondamento razionale è quello di modernizzare oggi i sistemi di protezione sociale con lo scopo di raccogliere benefici collettivi in futuro (Ferrera, 2015).

Tuttavia il punto critico di tale approccio è ovviamente quello della copertura finanziaria di questo processo di ammodernamento del welfare. Si tratta di un nodo politico consistente, posto che le uniche due possibilità che appaiono percorribili, eventualmente insieme, sono quelle di uno spostamento delle risorse da una funzione di protezione sociale ad un’altra (ricalibratura) e di un aumento del prelievo fiscale. In entrambi i casi i costi dovrebbero essere imposti, creando così perdenti e vincitori. Difficile immaginare che tra queste due ipotesi ne esista una ulteriore.

La riduzione della spesa come cash flow per i saving cost bonds

Come segnalato in apertura, qualche alternativa potrebbe derivare dall’impiego di alcuni nuovi strumenti finanziari. Questi sono di fatto schemi contrattuali basati su meccanismi di remunerazione di tipo pay-for-results (o pay-for-success come correttamente segnalato nell’efficace articolo di Nicolai e Bisio). Un simile meccanismo poggia su un cambiamento importante rispetto le logiche negoziali classiche della pubblica amministrazione: la stazione appaltante (cioè il settore pubblico) si impegna a pagare solo a fronte di determinati outcomes e non appena sulla base di outputs (o peggio ancora inputs) certificati in una qualche maniera. In altre parole l’oggetto del contratto non è più l’erogazione di un determinato numero di prestazioni o la quantità di risorse impiegate per l’implementazione di un servizio, piuttosto l’oggetto dell’accordo è il cambiamento effettivamente generato dall’azione del soggetto cui viene affidato l’appalto. Si tratta di un cambiamento non da poco: implica infatti il ricorso ad una serie importante di strumenti e metriche di misurazione che siano in grado non solo di quantificare il cambiamento generato, ma anche di attribuire ragionevolmente la causa del cambiamento avvenuto all’azione del soggetto che è stato chiamato a realizzarlo (e dunque lo rivendica).

Il saving cost bond ha la medesima struttura di un social impact bond, dal quale tuttavia Nicolai e Bisio ritengono si differenzi per via della «estensione dell’area di intervento non limitata ai soli progetti a valenza sociale, ma estesa a tutti i progetti di innovazione tecnologica, organizzativa e gestionale nei quali è possibile individuare risparmi di costi sul bilancio pubblico». In realtà i social impact bonds che sono stati implementati o progettati in giro per il mondo hanno già “sconfinato” l’area del “sociale” (ammesso che possano essere rigidamente tracciati i confini), come nel caso della rigenerazione urbana a Richmond, di cui ci siamo occupati qualche tempo fa. In ogni caso, ciò che è importante trattenere delle osservazioni proposte da Nicolai e Bisio è il tipo di argomentazione che può essere formulata per un impiego dei saving cost bond (o anche social impact bond) nel contesto italiano: infatti «i saving cost bond possono essere abbinati al processo di spending review e di razionalizzazione della spesa, qualificando questo processo che, senza investimenti in grado di creare efficienza, può solo ridursi a tagli lineari».

I saving cost bond sono a tutti gli effetti una ulteriore opportunità per sviluppare il ricorso a partenariati pubblico-privato capaci di funzionare come schemi negoziali che «anziché focalizzare l’attenzione sulla capacità di un progetto di generare flussi di cassa in entrata, considerino la sua attitudine a produrre risparmi di spesa, in particolare sui bilanci pubblici». D’altra parte, come giustamente osservano gli autori della proposta «la liquidità per nuovi investimenti poco importa che provenga da nuove entrate o da risparmi».

L’occasione offerta dalla riduzione della spesa

Nella generazione di savings, cioè di risparmi, è possibile che parte di essi rappresenti la remunerazione sul capitale degli investitori. Questo d’altra parte è il meccanismo finanziario sul quale si basa il funzionamento dei social impact bonds. In questo senso, attraverso il coinvolgimento di risorse private di investitori istituzionali e di lungo termine, la riduzione della spesa diventa l’occasione per attrarre investimenti. Al tempo stesso, gli investimenti raccolti diventano il modo con cui altre e ulteriori risorse divengono nuovamente disponibili alla pubblica amministrazione. E il nodo politico dietro la prospettiva dell’investimento sociale sembra trovare un certo ridimensionamento: una alternativa per la copertura finanziaria a tale modo di intendere le politiche sociali c’è e, anch’essa, poggia sull’idea di investimento.

Riferimenti

Saving cost bond: nuove soluzioni per investimenti locali

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