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Negli ultimi anni, la decisione di contenere la dimensione del disavanzo pubblico italiano entro i limiti imposti dai trattati europei ha indotto i diversi governi a ridurre le spese per i servizi di welfare, in particolare la componente assistenziale. Sono esempi emblematici di questa scelta il calo drastico del fondo nazionale per le politiche sociali e del fondo per la non autosufficienza, a cui si accompagna anche la riduzione della spesa sociale degli enti locali, indotta dal taglio dei trasferimenti statali.

La diminuzione dell’impegno finanziario pubblico si è realizzata, peraltro, proprio nel momento in cui la profonda crisi economica che ha colpito l’occidente ha fatto aumentare la richiesta di sostegno da parte dei cittadini, specie quelli che hanno perso il proprio posto di lavoro. E’ divenuto dunque sempre più difficile far tornare i conti e soddisfare contemporaneamente la crescente domanda di protezione dei cittadini e i vincoli sempre più stretti della finanza pubblica.

Sono queste le ragioni che spiegano la crescita del dibattito sulle risorse che – oltre ai fondi pubblici – possono finanziare i servizi di welfare. E’ opportuno e possibile aumentare i costi sopportati direttamente dagli utenti? Con quali conseguenze in termini di distribuzione del reddito e delle opportunità? Che spesa può essere coperta dal welfare aziendale? Che ruolo possono svolgere le istituzioni filantropiche? Come può contribuire il terzo settore produttivo?


La “finanza sociale”

E’ proprio in questo contesto che, negli ultimi anni, si è sviluppata la discussione sul ruolo che la “finanza sociale” (un termine ambiguo che include concetti a volte piuttosto diversi tra loro) può svolgere per sostenere il sistema di welfare. Al centro della riflessione dei promotori di questo concetto si trovano due filoni di riflessione.

Il primo filone ritiene che alcuni servizi di welfare – spesso non inclusi tra le prestazioni già finanziate attraverso la spesa pubblica – possano essere prodotti in maniera redditizia da soggetti privati grazie alla esistenza di una significativa (ma finora poco sfruttata) “disponibilità a pagare” da parte dei cittadini; questa disponibilità sarebbe destinata a crescere proprio a causa della riduzione progressiva della spesa pubblica, sempre più concentrata a coprire i bisogni dei più poveri e dunque più disattenta alle esigenze della classe media. Secondo questa impostazione, esisterebbero dunque settori di welfare ove possono essere investiti quei capitali privati che sono in cerca di remunerazione economica (magari “moderata”) e – seguendo i dettati della responsabilità sociale – sono anche attenti ai risultati sociali conseguiti grazie al loro investimento; si tratterebbe, secondo qualcuno, di masse finanziarie estremamente cospicue che attendono solo occasioni di investimento adeguate. Il secondo filone, con una riflessione certamente non nuova per le discipline economiche, sottolinea come alcuni servizi di welfare potrebbero essere gestiti da soggetti privati in maniera più efficace e meno costosa rispetto alla produzione pubblica; per tali servizi non si immagina comunque l’esistenza di domanda pagante da parte degli utenti, sicché il loro costo dovrebbe dunque essere sempre finanziato attraverso la spesa pubblica. Se ciò fosse vero, i privati potrebbero investire capitali per produrre e vendere quei servizi alle amministrazioni pubbliche, realizzando un profitto economico (più o meno moderato) e facendo anche risparmiare risorse alle amministrazioni stesse. In entrambe le linee di riflessione, i capitali finanziari privati potrebbero dunque giocare un ruolo nell’integrare, o nel sostituire, le prestazioni del welfare pubblico.

Il primo filone di riflessione approfondisce i modi in cui i mercati possono favorire – attraverso innovazioni di prodotto o di processo – l’accesso di fasce sempre più ampie della popolazione a beni o servizi di welfare. Si pensi, nel caso dei paesi di recente industrializzazione, alle esperienze di edilizia sociale o di distribuzione di acqua potabile a basso costo gestita da soggetti privati, come pure al micro-credito; oppure, nel caso dei paesi industrializzati, all’edilizia sociale o ai servizi residenziali per anziani gestiti da soggetti privati. In queste circostanze, la natura “sociale” della finanza e dell’investimento di capitale privato sarebbe garantita principalmente dalle caratteristiche dei beni o dei prodotti sviluppati, come pure dai soggetti (in condizioni economiche medie o medio–basse) a cui gli stessi sono destinati. Il secondo filone si innesca invece su una tradizione ben più antica che ha avuto una massiccia ripresa con le sperimentazioni sui “quasi-mercati” avviate dalle amministrazioni inglesi e americane degli anni Ottanta. Questa tradizione – riconoscendo le difficoltà e le inefficienze intrinseche della produzione pubblica di beni e servizi – mira a introdurre nei sistemi di welfare alcuni meccanismi di carattere competitivo che imitino il funzionamento dei mercati, ad esempio affidando la produzione dei servizi a soggetti privati (il cosiddetto contracting-out), anche remunerando le prestazioni sulla base dei risultati conseguiti (payment for success).

E’ dentro tale ambito di riflessione che – dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti – è partita la proposta di sperimentare e adottare i Social Impact Bonds (o Pay for Success Bonds negli Stati Uniti, SIB d’ora in poi); questi ultimi sono pensati come strumenti finanziari che dovrebbero garantire il raggiungimento di diversi risultati: l’investimento di capitali privati nella produzione di servizi di welfare, così da garantirne un’ampia disponibilità, nonché l’introduzione di innovazione nei servizi stessi, così da accrescerne l’efficacia e, potenzialmente, anche ridurne il costo per la finanza pubblica.


Le caratteristiche dei Social Impact Bond

I promotori dei SIB hanno posto molta fiducia in questi strumenti che essi ritengono in grado di migliorare il sistema di welfare grazie alla capacità di legare in maniera stretta la spesa pubblica con l’efficacia delle prestazioni sociali erogate e alla possibilità di mobilitare risorse finanziarie private per favorire sia la produzione dei servizi che l’innovazione sociale. Manca ancora, tuttavia, una loro valutazione serena e rigorosa. Finora, la gran parte della letteratura sul tema è priva della terzietà di giudizio che dovrebbe caratterizzare la riflessione scientifica; inoltre, buona parte della letteratura ha un carattere retorico e propagandistico, mentre manca una disamina attenta dei meriti e dei problemi che possono caratterizzare i SIB. Questi possiedono alcune caratteristiche comuni a tutte le (pochissime) esperienze finora avviate, pur nella diversità che le contraddistingue.

  1. Il SIB si basa sulla possibilità di identificare un bisogno collettivo insoddisfatto che potrebbe essere affrontato con interventi più efficaci di quelli garantiti dall’amministrazione pubblica, talvolta inesistenti. Negli esempi finora avviati, il caso più frequente è quello dei detenuti in uscita dal carcere che potrebbero essere aiutati a reinserirsi nel contesto sociale, così da ridurre l’elevato tasso di recidiva; l’amministrazione pubblica spesso non fornisce alcun servizio o, se lo fa, la sua capacità di ridurre il tasso di recidiva è assai modesta.
  2. Il SIB presuppone l’esistenza di fornitori privati (tipicamente, ma non necessariamente, senza scopo di lucro) che – se adeguatamente remunerati – sono in grado di erogare un intervento potenzialmente efficace nell’affrontare il bisogno collettivo insoddisfatto. Sempre nei casi sinora realizzati, alcune organizzazioni non profit gestiscono servizi di accompagnamento per gli ex-detenuti, aiutandoli nella ricerca di una casa e di un lavoro.
  3. Esistono investitori disponibili a finanziare la fornitura privata dei servizi che mirano ad affrontare il bisogno collettivo in modo efficace. Finora questi soggetti sono stati rappresentati – in maniera quasi esclusiva – da fondazioni filantropiche o da soggetti assimilati ma, nelle intenzioni di chi propone il modello, anche normali investitori dovrebbero trovare conveniente investire in questi strumenti.
  4. L’amministrazione pubblica è disponibile a rimborsare agli investitori privati il costo sostenuto per la produzione del servizio (oltre a un tasso di interesse prefissato) nel caso in cui esso raggiunga effettivamente i risultati previsti (misurati da un soggetto terzo); nel caso in cui i risultati non siano invece raggiunti, l’investitore privato otterrà dall’amministrazione pubblica un rimborso solo parziale, o addirittura nessun rimborso, facendosi carico del costo del fallimento. Il rimborso da parte dell’amministrazione pubblica dovrebbe comunque garantire a quest’ultima un risparmio di spesa corrente grazie all’efficacia dell’intervento. Nei casi avviati, gli interventi finanziati dagli investitori privati promettono di ridurre il tasso di recidiva (e dunque le spese di amministrazione della giustizia) in misura sufficiente a garantire, oltre al rimborso dei prestiti e al pagamento degli interessi agli investitori, anche un risparmio di spesa pubblica.
  5. L’intera operazione di “investimento rimborsato dalla amministrazione pubblica sulla base dei risultati” è resa possibile dalla presenza di un intermediario che promuove l’accordo e stipula i contratti con tutte le parti in causa, rappresentando dunque il fulcro dell’intero intervento.

In sintesi l’operazione, più che come una obbligazione vera e propria (un bond), si configura come un prestito che alcuni investitori concedono all’amministrazione pubblica per finanziare l’erogazione di alcuni servizi attraverso soggetti privati. Il prestito viene rimborsato dall’amministrazione pubblica solo nel caso in cui i servizi raggiungano l’obiettivo minimo prefissato.


I meriti dei Social Impact Bond

I caratteri innovativi dei SIB sembrano concentrarsi in due elementi specifici.
Il primo elemento consiste nella necessità di misurare in termini rigorosi l’efficacia dei servizi erogati. Si tratta – nel caso italiano, ma anche in un contesto più vasto – di una innovazione radicale nel campo delle politiche sociali, area in cui raramente gli interventi – anche quelli sperimentali – sono oggetto di analisi critica e in cui, quando ciò accade, il giudizio sulla bontà del risultato raggiunto è affidato all’opinione soggettiva di un valutatore che, spesso, considera solo elementi di processo (si è fatto tutto ciò che era previsto?) o, nel migliore dei casi, giudica gli esiti sulla base della propria sensibilità, delle proprie convinzioni a priori o di elementi di tipo qualitativo, trascurando completamente misurazioni che possono essere condivise anche da soggetti diversi. Per perseguire questo risultato assai innovativo nelle politiche sociali, i SIB avviati sinora adottano generalmente approcci di tipo controfattuale che confrontano i risultati ottenuti dal gruppo degli individui assoggettati all’intervento con quelli ottenuti da un apposito gruppo di controllo identificato attraverso metodologie statistiche o, più raramente, con processi di randomizzazione.

E’ fuori discussione che un simile approccio non possa che giovare alle politiche sociali, consentendo di identificare gli interventi inefficaci e dunque di destinare meglio le risorse economiche sempre più scarse di cui le amministrazioni dispongono. Purtroppo questa attitudine è molto rara nel nostro paese, sicché la qualità delle nostre politiche continua a essere misurata principalmente sulla base della quantità delle risorse impiegate (più si spende meglio è), o su approcci di tipo ideologico, più che sui risultati effettivamente raggiunti. Va pertanto dato atto ai promotori dei SIB di avere individuato un elemento cardine di riforma delle politiche sociali su cui il nostro paese dovrebbe effettuare un investimento massiccio.

Un secondo elemento innovativo consiste nell’addossare a soggetti diversi dalla amministrazione pubblica il rischio dell’innovazione in campo sociale. Una certa retorica tende a esaltare l’innovazione in sé, considerandola come attività meritoria, spesso a prescindere dai risultati che produce. Non bisogna tuttavia dimenticare che l’innovazione – in campo sociale come negli altri settori dell’economia – presenta significativi gradi di rischio ed è ragionevole immaginare che solo un numero limitato di “interventi innovativi” potrà effettivamente produrre i risultati sperati, contribuendo a migliorare il modo in cui sono affrontati i problemi sociali. Pertanto, molte risorse vengono investite per avviare interventi che non produrranno alcun effetto sociale e che non saranno affatto in grado di incidere sui problemi che vogliono affrontare. In contesti che valutano attentamente gli esiti delle politiche, anche i fallimenti possono rappresentare un risultato utile poiché consentono di non sprecare risorse in futuro, evitando di destinarle ad attività che non sono in grado di produrre i risultati sperati. Ma non tutti i soggetti che popolano il campo delle politiche sociali sono ugualmente attrezzati per affrontare i fallimenti. In particolare, proprio gli amministratori pubblici – sempre assoggettati al giudizio elettorale, che male tollera ciò che potrebbe venire percepito come uno spreco di risorse pubbliche – paiono essere soggetti poco adatti a sopportare il rischio dei fallimenti delle innovazioni sociali; ciò porta gli amministratori pubblici a preferire interventi dai risultati certi o (il che è peggio) a sostenere la retorica dell’innovazione sociale ma non la valutazione della sua efficacia.

Anche da questo punto di vista i promotori dei SIB hanno dunque colto un importante elemento critico dell’attuale impostazione delle politiche di welfare, spesso legate – per pura resistenza al cambiamento da parte degli amministratori pubblici – a interventi riparativi e a politiche tradizionali, mentre gli interventi di natura preventiva stentano a decollare. Affidare a soggetti privati il finanziamento della innovazione nelle politiche sociali potrebbe, infatti, consentire di mobilitare risorse per sperimentare azioni che vadano nella direzione della prevenzione dei problemi, oltre che del loro contenimento. Da questi punti di vista, i SIB paiono rappresentare una innovazione significativa e foriera di potenziali sviluppi positivi per il sistema di welfare italiano. Non mancano tuttavia alcuni elementi problematici.


Le difficoltà dei Social Impact Bond

La principale criticità dei SIB deriva dalla loro “inutile” complessità. L’intera struttura finanziaria dei SIB non è – a mio giudizio – indispensabile per produrre i risultati promessi in termini di “valutazione d’efficacia” e di “spostamento del rischio dell’innovazione”, risultati ottenibili anche attraverso approcci più semplici. Inoltre, questa sovra-struttura è sorretta da meccanismi organizzativi (rappresentati principalmente dall’intermediario che consente la realizzazione dell’intera operazione) che rischiano di essere particolarmente costosi.

Sia in ambito anglosassone che, progressivamente, anche nell’Europa continentale, alcune amministrazioni pubbliche hanno infatti avviato serie valutazioni degli effetti delle proprie politiche utilizzando rigorose tecniche controfattuali. La tendenza pare prendere piede anche a livello dell’Unione Europea. Le valutazioni sono state sperimentate sinora principalmente in campo scolastico ed educativo – come mostrano ad esempio le esperienze della Education Endowment Foundation inglese e della What Works Clearinghouse statunitense – ma non mancano i tentativi di estendere la valutazione sistematica anche ad altri campi di azione delle politiche di welfare. Non mi pare dunque che l’introduzione di nuovi prodotti di “finanza sociale”, come i SIB, si riveli indispensabile per promuovere la valutazione degli effetti delle politiche, caso mai il contrario.

Lo stesso si può dire per quello che riguarda l’assunzione del rischio connesso con l’innovazione. Anche in questo caso, non mi sembra che la complessa architettura finanziaria dei SIB sia indispensabile per consentire di avviare un maggior numero di interventi innovativi nel campo delle politiche sociali. Sia nel nostro sistema di welfare che in quelli dei principali paesi occidentali, esistono infatti soggetti che possono sostenere il rischio connesso al fallimento di una innovazione meglio delle amministrazioni pubbliche. Si tratta dei soggetti di terzo settore che presentano un elevato grado di patrimonializzazione e, in particolare, di quelli che gestiscono patrimoni liquidi per finanziare erogazioni a fondo perduto. Come ho sostenuto più volte (ad esempio, Barbetta, 2000 e 2014), proprio le fondazioni erogative (come le fondazioni di origine bancaria in Italia) si trovano nella condizione ideale per finanziare sperimentazioni di innovazioni sociali, valutarne rigorosamente gli esiti e produrre la conoscenza che può orientare le scelte delle amministrazioni pubbliche verso gli interventi più efficaci. Un maggior rigore nella valutazione degli interventi delle fondazioni e una maggiore attenzione delle amministrazioni pubbliche nello sfruttare la conoscenza da loro prodotta può generare gli stessi risultati dei SIB, con costi minori. Non è un caso, d’altra parte, che – nel caso dei SIB sinora sperimentati – le risorse finanziare necessarie a finanziare gli interventi siano arrivate principalmente proprio dai soggetti filantropici e non dai mercati finanziari che dovrebbero garantire la mobilitazione di presunti capitali “attenti agli esiti sociali” (chissà se esistono davvero).

I risultati promessi dai SIB sarebbero dunque ottenibili più semplicemente immaginando nella “filiera del policy-making” una nuova “divisione del lavoro” tra soggetti privati e pubblici, che faciliti ogni soggetto a specializzarsi nella parte del processo per cui gode di un vantaggio comparato: gli enti ben patrimonializzati del terzo settore – che possono assumersi rischi di fallimento – nella sperimentazione e valutazione rigorosa delle innovazioni sociali (concordate con l’ente pubblico) per stabilirne l’efficacia e la cost-effectiveness; gli enti pubblici (che godono di risorse assai più ampie rispetto al terzo settore ma i cui amministratori faticano ad assumersi il rischio di fallimento e dunque spesso preferiscono non valutare) nella diffusione delle politiche che hanno mostrato di funzionare.

Ulteriori limiti dei SIB (fatali, a mio avviso) sono invece intrinseci alla loro struttura finanziaria. Nelle intenzioni dei proponenti, i SIB servono due scopi principali (non necessariamente disgiunti):1) finanziare con risorse private l’innovazione sociale nel campo del welfare, e 2) portare a scala più ampia nuovi modelli di intervento che – su scala sperimentale – abbiano già mostrato di funzionare producendo un miglioramento (nell’efficacia e/o nella cost-effectiveness) dei servizi. Come abbiamo visto, in entrambi i casi, l’idea dei proponenti è che i risparmi futuri di spesa pubblica derivanti dalla maggiore efficacia dell’intervento consentano ai governi di ripagare con gli interessi il capitale investito dai soggetti privati.

Nel caso in cui il SIB serva a finanziare innovazioni, saremmo di fronte a interventi la cui efficacia non è ancora stata provata e che, come abbiamo visto, potrebbero non funzionare affatto; come evidenzia – ad esempio – un recente rapporto della Coalition for evidence-based policies (2013), circa il 90% degli interventi innovativi in campo educativo finanziati (dal 2002 al 2013) dall’Institute for Education Sciences del Department of Education statunitense e valutati con metodi rigorosi non ha prodotto alcun effetto sui destinatari. Innovare con efficacia è un mestiere difficile. In questo contesto, i soggetti che decidessero di investire in un SIB non si confronterebbero perciò con un rischio quantificabile (una certa probabilità di successo) ma piuttosto con incertezza rispetto agli esiti possibili dell’intervento e con l’impossibilità di calcolare a priori la probabilità di fallimento. Ritengo molto improbabile che investitori finanziari motivati (sia pure non esclusivamente) da ragioni di profitto possano quindi decidere di investire in SIB che finanziano innovazioni sociali. Infatti, gli investitori non fanno scommesse, ma bilanciano rendimenti e rischi probabilistici, che qui non sono calcolabili. Per acquistare i SIB che finanziano interventi sperimentali non resterebbe dunque che ricorrere agli investitori privati di natura filantropica (le fondazioni) che, come abbiamo già evidenziato, potrebbero essere comunque disponibili a sostenere le innovazioni sociali che paiono avere qualche chances di successo, anche senza pensare di recuperare il capitale. In fondo, l’innovazione sociale è l’obiettivo di molti di loro. Ciò renderebbe inutile l’infrastruttura finanziaria dei SIB.

Diversa potrebbe essere la storia nel caso in cui i SIB mirino invece a estendere su scala più ampia interventi sociali che si sono già mostrati efficaci. In questo caso, la disponibilità di informazioni rispetto alla probabilità di successo degli interventi potrebbe infatti attirare gli investitori privati motivati da profitto. Vi è tuttavia da chiedersi perché mai le amministrazioni pubbliche – per finanziare la produzione (diretta o indiretta) dei servizi che si sono dimostrati cost-effective – dovrebbero decidere di indebitarsi con l’intermediario dei SIB anziché chiedere risorse direttamente al mercato. Infatti, per l’amministrazione pubblica, il costo dell’indebitamento sul mercato è sicuramente più basso di quello che dovrebbe essere corrisposto all’intermediario del SIB il quale, oltre a ripagare gli investitori, deve fare fronte anche ai costi di transazione necessari a organizzare il contratto. In fondo, in ogni paese, l’amministrazione pubblica è generalmente il debitore che riesce a spuntare il tasso di interesse migliore.

Infine, un ulteriore limite dei SIB riguarda la loro capacità di sostenere l’innovazione che si riveli efficace (cioè in grado di raggiungere il risultato previsto) ma non cost-effective, cioè più costosa, per unità di risultato, rispetto agli interventi già in corso. In queste circostanze, l’adozione della innovazione non darebbe luogo ad alcun risparmio di spesa da parte dell’amministrazione pubblica, risparmio su cui si basa – nel caso dei SIB – la possibilità di ripagare il debito contratto. Si tratta di un caso tutt’altro che teorico se si pensa che molta parte dell’innovazione in campo medico e farmacologico ha esattamente questa natura.

Tutte queste ragioni mi inducono a ritenere che, pur con alcuni meriti, il futuro dei SIB sia tutt’altro che semplice.

 

Riferimenti

Barbetta G.P. (2000), Il settore nonprofit italiano, Il Mulino.

Barbetta G.P. (2014), Se la riforma del terzo settore si fa nella legge di stabilità, Lavoce.info 

Coalition for evidence-based policies (2013), Randomized Controlled Trials Commissioned by the Institute of Education Sciences Since 2002: How Many Found Positive Versus Weak or No Effects

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