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Il 22 novembre a Roma lo studio legale Origoni&Partners ha organizzato il convegno "Social Impact Investing: nuovi modelli per un’economia sostenibile" con l’obiettivo di riflettere delle condizioni necessarie allo sviluppo di nuovi paradigmi di finanza a impatto sociale. Riceviamo e pubblichiamo le riflessioni di Federico Mento, Segretario Generale di Human Foundation, a partire da tale evento.

Dopo il convegno di qualche settimana fa promosso dallo studio Origoni&Partners, provo a mettere in fila alcuni pensieri, anche a partire dagli stimoli offerti da Alessandro Messina, in un suo recente contributo: lImpact Investing tra Penelope e Gramsci. La prenderò un po’ alla lontana.

Sino agli anni ’70, il fordismo aveva trovato il suo equilibrio basato su un modello di governance ben preciso. In primo luogo, era presente Stato fortemente ingaggiato nella creazione di valore, sino a costituirsi come un vero e proprio soggetto imprenditoriale, pensiamo al complesso sistema delle partecipate italiane. Al medesimo tempo, quello stesso Stato gestiva, in forma diretta, la propria moneta, utilizzando la politica monetaria come uno strumento per garantire competitività o piuttosto favorire gli investimenti. La moneta era solidamente “ancorata” alle riserve auree. Lo Stato, inoltre, interveniva attraverso il sistema di protezione sociale per riequilibrare gli effetti distorsivi nella distribuzione della ricchezza. Rispetto al mondo dell’impresa, esisteva un principio di proporzionalità tra valore della produzione ed il valore “finanziario”, espresso nella capacità di raccolta e remunerazione dei capitali. Nella società, le grandi organizzazioni collettive raccoglievano, organizzavano e mediavano i conflitti. La governance fordista, poi, ha saputo avere le sue declinazioni locali, penso ad esempio al sistema dei distretti della Terza Italia, che è stato la spina dorsale del paese, in una prospettiva di conciliazione tra gli interessi del capitale e quelli del lavoro.

L’illusione fordista, durata un paio di decenni, instillò nelle società avanzate l’idea che il ciclo di crescita non si sarebbe arrestato, se non momentaneamente in crisi congiunturali, superabili però grazie all’intervento dello Stato. Quando iniziarono a vacillare le fondamenta – il primo colpo fu certamente la fine della convertibilità dollaro-oro nel 1971 – le società avanzate iniziarono a vivere una fase di turbolenza economica e finanziaria, che sino ad allora aveva interessato le economie periferiche. Il ricettario utilizzato sino ad allora nei Paesi in via di sviluppo, spesso imposto con la violenza e con risultati fallimentari, venne applicato nelle società avanzate per disarticolare definitivamente la governance fordista. Lo Stato doveva dismettere il suo ruolo di “imprenditore”, cessava di fare politica monetaria, assottigliava la sua presenza e soprattutto il suo peso finanziario, ricercando il pareggio di bilancio. Dall’altra parte, l’impresa, priva di vincoli e barriere, era sospinta alla ricerca della massimizzazione del profitto, delocalizzandosi al fine di trovare per migliori condizioni per intraprendere. Nel frattempo, una gigantesca massa di denaro, non più ancorata all’economia e oramai libera di circolare, iniziava a muoversi bellicosamente, come i Proci evocati da Messina, avanzando verso le economie più fragili. Un mercoledì di settembre del 1992, bussarono alle nostre porte, bruciando nel giro di qualche ore miliardi di lire, con la conseguena di una rovinosa uscita dell’Italia dallo SME. I mercati non vanno per il sottile, dopo aver depredato le economie emergenti, si manifestava, anche attraverso la compiacenza dei Governi, l’opportunità di partecipare ad un banchetto decisamente più ricco. Gli ultimi 20 anni sono disseminati di crisi debitorie, prodotte dal mix tra misure macro-economiche recessive e feroci speculazioni finanziarie. La lista è davvero molto lunga: Messico, Brasile, Argentina, Turchia, Russia, Indonesia, Grecia…

Lehman Brothers è soltanto uno dei vari snodi di questa storia, il cui pregio, se possiamo definirlo tale, è stato farci aprire gli occhi sulla fragilità delle economie avanzate, sul fatto che la logica speculativa non ha riguardi per nessuno; colpisce, come fosse un grande predatore, il più debole, sapendo di poterlo sopraffare più facilmente. La perdita dell’innocenza post Lehman ha aperto un nuovo scenario, mettendo in discussione alcuni dei pilastri sui cui si è eretta la nuova governance neo-liberale. Nelle grandi e piccole fratture createsi in questi anni, possiamo, con fatica e pazienza, provare ad inoculare degli antidoti positivi per mitigare le pulsioni predatorie, pensando che il denaro possa essere utilizzato per generare valore sociale ed economico. Che, nonostante le contraddizioni, una parte sempre più rilevante della popolazione chiede alle imprese un maggior livello di responsabilità, che il business non possa erodere il diritto al futuro per le generazioni che verranno.

Per far germogliare questo nuovo ecosistema, dobbiamo costruire una filiera di finanza che guardi non solo al ritorno sull’investimento ma si interroghi sul ritorno sociale ed ambientale delle sue attività, misurando e verificando in maniera seria e rigorosa gli impatti prodotti. Sarebbe sciocco negare che oggi l’impact investing è sulla scena con i riflettori ben accesi e che questa visibilità improvvisa possa essere utilizzata da operatori spregiudicati come un’opportunità per risciacquare le proprie colpe ed acquisire una rinnovata credibilità. Uscendo, però, da una logica prettamente “difensiva”, per tornare al contributo di Alessandro, io credo che l’impact investing possa svolgere rispetto alla finanza speculativa lo stesso compito che Ulisse si attribuisce nel poema omerico: tornato ad Itaca e travestito da mendicante per non farsi riconoscere, affronta e sconfigge gli odiosi Proci. Il tema è comprendere quanto tempo ancora debba durare questo periglioso viaggio verso casa.

Immagine: La strage dei Pretendenti, Gustav Schwab, 1882