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Non è facile interpretare i cambiamenti in corso, in particolare se l’obiettivo è esserne parte. La sovrastruttura è monopolizzata da una narrazione schizofrenica che esaspera e insieme appiattisce la complessità dei fenomeni rendendo molto ardui i tentativi di ricomposizione e di apprendimento. E invece gli elementi più profondi di trasformazione vengono presentati come salti di paradigma che relegano la vita quotidiana ad uno stato di eterna transizione, in perenne attesa che sorga il nuovo sol dell’avvenir.

Rompere la crosta dello storytelling e raffreddare il nucleo dei significati richiede di spostare il focus a livello di vettori di trasformazione (piuttosto che di esiti spesso più evocati che misurati). Driver di cambiamento sui quali è possibile agire qui ed ora attraverso soluzioni di politica e di organizzazione sociale ed economica la cui rilevanza è direttamente legata alla capacità di mobilitazione.

Concretamente si tratta di tre macro processi: creare le condizioni per un cambio di governo dell’innovazione tecnologica (facendo in modo che il valore sia più condiviso); rigenerare la cultura societaria che alimenta l’organizzazione della società civile (nei processi e nelle forme); ripristinare il policentrismo e la biodiversità della funzione pubblica (correggendo le disarticolazioni attuali). Rispetto a questi processi è molto forte la tentazione di ritornare agli assetti precedenti o di agire in chiave meramente controculturale. Soluzioni diverse, praticamente opposte, che però possono generare lo stesso risultato: irrigidire il sistema o attraverso un secco “ritorno all’ordine” oppure relegando le alternative al rango di sperimentazioni che “non disturbano il manovratore”, ma anzi fanno da laboratorio per elaborare soluzioni che ne correggono i fallimenti.

Stare dentro i processi di trasformazione significa invece saper guardare con occhi nuovi una realtà così appiattita sul pensiero dominante che basta poco per illuminare, anche solo fugacemente, nuovi schemi di azione. Qualche esempio: la rigenerazione sociale di immobili per scopi sociali è ormai una asset class sempre più rilevante delle politiche urbane e del mercato immobiliare. La combinazione tra approccio di mercato e orientamento publicness è il principale elemento non solo di startup ma anche di crescita del terzo settore. La socialità che genera impatto rimette in moto una sussidiarietà svilita da pratiche di amministrazione monopolizzate dalla gestione corrente sfidando i meccanismi di allocazione delle risorse (in particolare quelle della finanza sociale).

Ma cosa serve per accelerare l’intervento su questi processi senza attendere, colpevolmente, che si compiano “naturalmente”? In primo luogo una narrazione che abbia il coraggio e le risorse per essere mainstream e in secondo luogo soluzioni organizzative, d’impresa in particolare, capaci di scalare le proprie attività in modo che chi sta dentro il cambiamento non sia relegato, o si autoreleghi, al ruolo di comparsa, ma di vero e proprio attore protagonista. Oggi il bouquet dei modelli d’impresa orientati a generare innovazioni di sistema è ricco e, tutto sommato, non mancano le risorse. Forse quel che manca, come ricorda Mario Calderini, è l’intenzionalità dell’investimento il cui carattere radicale consiste, più che nel posizionarsi per differenza, nella capacità, tutta ibrida, di fare sintesi.

Questo articolo è stato pubblicato su Tempi Ibridi, blog curato da Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, con cui Percorsi di secondo welfare ha deciso di “contaminarsi”. 

Quanto scritto è opinione personale dell’autore e non rappresenta la posizione di Euricse.