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La conciliazione conviene? Il progetto LaFemMe, nato nel 2012 in seno all’agenzia Italia Lavoro, ha organizzato un seminario a Roma proprio per rispondere alla domanda più posta dalle aziende. L’evento ha raccolto esperti e studiosi di fama internazionale, ma non solo. E’ stato anche l’occasione per il team di LaFemMe di presentare i primi risultati del progetto e raccogliere le suggestioni provenienti dagli esperti in sala.

Paolo Reboani, Presidente e A.D. di Italia Lavoro, ha introdotto i lavori ricordando la complessità del tema della conciliazione, che richiede numerose componenti di incentivo come quella fiscale, contributiva, di offerta dei servizi – pubblici o privati che siano – e di flessibilità nell’organizzazione del lavoro. Questioni che toccano anche le relazioni industriali. Se negli ultimi anni numerose grandi aziende sono diventate esempi di sviluppo di pratiche di conciliazione – ha continuato Reboani – il tentativo di Italia Lavoro è oggi quello di sviluppare un’azione diffusa sul territorio e capillare, non basata su incentivi finanziari ma sulla costruzione di strumenti di knowledge e assistenza tecnica, e finalizzata al coinvolgimento attivo di enti locali, parti sociali e imprese. L’investimento di cui ha bisogno il Paese non è solo di capitale, ma anche e soprattutto culturale: non solo coesione sociale e produttività possono essere conciliate, ma lo sforzo si tradurrà in un beneficio per entrambe.

Per quanto riguarda i servizi sul territorio – ha spiegato Antonella Marsala, Capo Progetto di LaFemMe – il problema principale è costituito dai costi. In alcune aree del Paese i servizi sono poco diffusi e soprattutto cari, favorendo così il perpetrarsi di “vecchi” modelli, come quello del male breadwinner e delle nonne caregiver. Quella delle donne sarebbe dunque una scelta razionale: rinunciare al lavoro per prendersi cura personalmente dei figli o, se possibile, affidarli alle nonne, è economicamente più conveniente che sostenere i costi eccessivi dell’asilo nido. Anche nelle aziende si sentono però i costi della “non-conciliazione”, in termini di assenteismo, turnover, clima aziendale, rispetto delle consegne e abuso dello straordinario, solo per citarne alcuni. I dati Eurostat parlano chiaro: gli strumenti di conciliazione, come la banca ore e il part-time, in Italia sono sottoutilizzati o utilizzati male. Il part-time è abbastanza sviluppato, ma per il 60% degli uomini e il 50% delle donne è involontario. Il progetto LaFemMe introduce innovazione organizzativa e maggiore flessibilità nelle aziende, attraverso l’offerta di consulenza ad aziende e parti sociali. Nel tentativo di creare un circolo virtuoso: supporto, formazione e sensibilizzazione ad aziende e parti sociali come strumento per sviluppare e raccogliere soluzioni nuove da “restituire” alle amministrazioni regionali come esempi di innovazione e crescita sostenibile.
Questi i propositi di LaFemMe per i prossimi anni: creare know how a livello locale, intraprendere iniziative di formazione su vasta scala, diventare un punto di riferimento nazionale per la diffusione di pratiche sperimentali – anche attraverso il rinnovato portale web come “ambiente cooperativo online” – e coinvolgere maggiormente parti sociali e amministrazioni regionali. Marsala ha terminato il suo intervento con un appello alle Regioni – perché ci sia più impegno, più coordinamento tra assessorati, e più dialogo con aziende e comunità locali – e a tutti i presenti, perché l’anno della conciliazione 2014 non sia “sprecato in convegni” ma produca un programma di lavoro condiviso.

In un anno di attività LaFemMe ha raccolto 63 manifestazioni di interesse da aziende di diversi settori e dimensioni, e con 39 di queste ha portato a termine attività di accompagnamento all’innovazione organizzativa. Emanuela Mastropietro, Coordinatore operativo del progetto LaFemMe, ha scelto tre esempi da raccontare: si tratta di piccole e medie imprese, localizzate nelle regioni del Sud, per dimostrare come le politiche di conciliazione siano praticabili anche in contesti diversi da quelli più abituali, come quelli delle grandi imprese e dei grandi centri produttivi. Nella prima azienda, una micro impresa di 10 dipendenti – di cui 8 donne – operativa in Sicilia nel settore dei servizi farmaceutici, LaFemMe ha contribuito alla realizzazione di una serie di strumenti di flessibilità oraria e servizi – banca ore, mensa e rimborso di spese scolastiche – inseriti nel contratto integrativo aziendale. La seconda invece, cooperativa pugliese con quattro supermercati per un totale di 54 dipendenti, ha chiesto consulenza per poter concedere il part-time a tutte le donne che lo chiedevano. LaFemMe ha così proposto un ventaglio di part-time funzionali ai picchi di vendite settimanali. Per l’ultima impresa, un call center con 331 dipendenti di cui il 77 per cento donne, è stato invece elaborato un complesso sistema di orari “a menù”, studiati in base alle preferenze di diversi gruppi di lavoratori. E’ necessario – ha ribadito la Mastropietro – far comprendere alle aziende il nesso tra conciliazione e produttività, coinvolgendo tutte le componenti aziendali nella realizzazione di un sistema condiviso e personalizzato.

Sarà difficile far capire quale sia il reale impatto della conciliazione sulla performance aziendale, finché non saranno sfatati falsi miti come l’idea della conciliazione come un costo, e come un problema delle sole donne. Così Anna Maria Ponzellini, sociologa e consulente di Italia Lavoro, ha passato in rassegna i tanti studi internazionali che misurano proprio il “ROI del work-life balance” attraverso una varietà di indicatori economici, gestionali (turnover, assenteismo, capacità di attrarre talenti) e qualitativi (clima, soddisfazione, motivazione). Se la letteratura anglo-americana sul tema è ormai consolidata, anche la Commissione europea ed Eurofound hanno iniziato attività di sensibilizzazione e monitoraggio di “high performance work practices”, tra cui flessibilità oraria e welfare aziendale.

Francesca Rizzi, Practice Manager di McKinsey & Company e co-autrice della ricerca sul welfare aziendale condotta da McKinsey per Valore D, l’associazione di grandi imprese creata nel 2009 in Italia per sostenere la leadership femminile ( ) ha sottolineato come i risultati dello studio abbiano smentito le “semplificazioni fuorvianti” che troppo spesso si accompagnano al dibattito sul work-life balance, come quelle relative ai costi eccessivi, al fatto che sia utile solo alle mamme, e alla convinzione che non siano individuabili benefici tangibili.

Penny Tamkin, Direttore Associato dello IES – Institute for Employment Studies, ha fornito una sintesi della ricerca svolta per Eurofound “Work organisation and innovation”.
In linea con la strategia europea Europa 2020, lo studio ha analizzato come e in che condizioni l’innovazione nell’organizzazione del lavoro porti risultati positivi sia per l’impresa che per i suoi lavoratori. I casi studio selezionati, tra cui anche l’italiana Elica, hanno mostrato come il coinvolgimento diretto dei lavoratori e dei loro rappresentanti costituisca una leva importante per il successo dei processi di innovazione e riorganizzazione.

Egidio Riva, Docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha ricordato che l’introduzione delle misure di conciliazione in azienda non è di per sé sufficiente per ottenere un miglioramento. E’ infatti necessario che il clima aziendale supporti i cambiamenti, che i manager ne comprendano l’utilità e che i dipendenti abbiano possibilità di utilizzo effettivo delle misure. Il supporto informale da parte del proprio manager conta quanto la disponibilità formale delle opportunità di conciliazione.

Il tema della flessibilità oraria, ormai presente nella maggior parte dei contratti aziendali, è cruciale perché le fabbriche italiane ed europee sopravvivano all’internazionalizzazione dell’economia. Ma la flessibilità è sempre un gioco a somma negativa per i lavoratori? Questa è la domanda che ha spinto Luciano Pero, Docente MIP del Politecnico di Milano e consulente di Italia Lavoro, a proporre l’idea degli “orari a menù” per conciliare le esigenze dei lavoratori con la richiesta di flessibilità dell’azienda. Una soluzione che non può però essere imposta unilateralmente, ma deve essere costruita attraverso il coinvolgimento diretto dei lavoratori.

Ha concluso i lavori l’intervento di Oscar Vargas, ricercatore presso l’Eurofound, invitato a discutere i risultati delle ricerche dell’agenzia sui temi dell’organizzazione del lavoro e delle condizioni dei lavoratori. In base ai risultati di un recente studio su casi aziendali e ai sondaggi condotti dall’Eurofound, Vargas ha riconosciuto l’esistenza di un nesso tra flessibilità e performance, ma ha avvertito che occorre più ricerca per stabilirne la relazione causale. Anche perché – ha rilevato il ricercatore – il termine “flessibilità” può riferirsi a situazioni molto diverse, caratterizzate da diversi livelli di coinvolgimento e di scelta da parte dei lavoratori e dei loro rappresentanti. Piuttosto che chiederci se la flessibilità sia buona o cattiva, dovremmo comprenderne le motivazioni, le modalità di implementazione, e il grado di condivisione.

Riferimenti

Il portale di Italia Lavoro 

La Community di LaFemMe 

La ricerca di McKinsey e Valore D 

La ricerca “Work Organisation and Innovation” 

Il sito di Eurofound 

Il sito dell’Institute for Employment Studies
 

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