4 ' di lettura
Salva pagina in PDF

A volte è merito di un imprenditore “illuminato”, altre invece si tratta di un buon incontro tra proprietà e sindacati. Ci sono poi storie di patti, stretti tra l’azienda e i suoi dipendenti. E il welfare diventa sinonimo di benessere per entrambi. C’è anche chi dice che la produttività, in momenti come questi, non può che passare attraverso la motivazione delle persone.

Se è vero che le grandi imprese, italiane e non, si avvicinano sempre più spesso al welfare aziendale – lo istituiscono, ne ampliano i servizi, e ne riconoscono i meriti – cosa succede agli outsider? Coloro cioè che non sono disoccupati, hanno un lavoro. Ma sono impiegati nelle numerose piccole e micro aziende che costituiscono l’ossatura produttiva del nostro Paese. Imprese di piccole dimensioni che, da nord a sud, non hanno le risorse – finanziarie e organizzative – per supportare i propri dipendenti con sistemi di welfare aziendale in grado di sostenere il reddito familiare, agevolare la fruizione dei servizi, e assicurare la stabilità economica in caso di eventi improvvisi.

Il welfare aziendale è oggi un “tassello” che integra risorse, prestazioni e servizi che il welfare state pubblico non può assicurare. Ma è davvero per tutti? Una domanda cui è necessario trovare risposta a fronte delle numerose richieste di chi auspica l’introduzione di ulteriori agevolazioni e sgravi fiscali per il sostegno a soluzioni di welfare aziendale: un importante vantaggio economico per i beneficiari, e al tempo stesso un mancato ingresso di risorse per la collettività. Certo in tempi come questi si può pensare “meglio che niente”. E se un aiuto dato solo ad alcuni non facesse che allargare il divario tra i dipendenti “fortunati” e la grande maggioranza di outsider? Non rimane che rifiutare tout court, e opporsi all’offerta di welfare da parte dei privati per non rischiare che lo Stato, con le sue legittime aspirazioni universalistiche, ne perda il controllo.

I territori, le realtà locali e le loro istituzioni, spesso ideano strategie bottom-up – sviluppate a partire dall’esperienza quotidiana e dalla specificità dei bisogni – che si rivelano non solo efficaci ma anche altamente innovative. Si tratta di quei percorsi di aggregazione, più o meno spontanea, che Ferrera e Di Vico hanno chiamato sulle pagine del Corriere della Sera di “secondo welfare”. Iniziative e progetti che nascono dalla volontà di collaborazione dei diversi attori, pubblici e privati, che operano sui territori mettendo in comune conoscenze, competenze e risorse finanziarie, e creando spesso nuovi sistemi di governance condivisa. Imprese, cooperative, sindacati, associazioni di categoria, compagnie assicurative, fondazioni, Terzo settore, società civile ed enti locali sono i protagonisti di un secondo welfare che si studia, di cui sempre più spesso si discute, e le cui potenzialità sono ancora da indagare. Non è un caso che il Laboratorio Percorsi di secondo welfare, nato ormai due anni fa per raccogliere, raccontare e diffondere le esperienze più innovative, sia sostenuto e animato da diversi partner, dalle fondazioni e fino ad aziende e assicurazioni.

La componente pubblica, generalmente rappresentata da enti locali e autorità territoriali, è un elemento imprescindibile nel secondo welfare, e ancor di più all’interno di quei progetti che coinvolgono intere comunità e territori. Se l’inserimento di servizi di welfare destinati ai dipendenti di una grande azienda è più che altro il frutto dell’interazione tra parte datoriale e sindacale – benché possa coinvolgere attivamente gli enti pubblici e il privato sociale con la nascita di nuove strutture e imprese di servizi, “allargati” talvolta all’intera comunità locale – la nascita di una “rete” territoriale presuppone un ruolo attivo di controllo e il coordinamento, e – perché no – di facilitatore, mediatore e promotore, delle istituzioni pubbliche. Un esempio? Le reti di conciliazione lombarde: con la regia della DG Famiglia della Regione Lombardia, che dal 2010 ha studiato, predisposto e sostenuto la sperimentazione di un sistema di reti multi-stakeholder nei diversi territori lombardi, le ASL locali si sono trovate a coordinare attività innovative e concertate per la conciliazione famiglia-lavoro, nonché a gestire l’erogazione sperimentale della Dote Conciliazione rivolta a cittadini e aziende.

C’è anche chi ha saputo approfittare di finanziamenti ad hoc, come i bandi per il welfare aziendale. In Lombardia è da poco uscito il nuovo, a sostegno del welfare aziendale e interaziendale e della conciliazione famiglia- lavoro. Con la passata edizione, le cooperative del Consorzio Consolida di Lecco hanno istituito servizi per l’infanzia e di sostegno alle madri al rientro della maternità. Inizialmente destinati ai loro quasi 2000 dipendenti, sono stati in seguito messi a disposizione di enti locali e privato sociale, e proposti per la stipula di convenzioni con le aziende del territorio.

Non è però solo l’amministrazione pubblica a credere nell’innovazione. A Treviso, Unindustria e sindacati della provincia hanno firmato un patto per lo sviluppo ed elaborato uno schema di contratto unico che, con le opportune modifiche, possa essere applicato a tutte le PMI della zona allo scopo di prevedere soluzioni di welfare per i lavoratori, dal sostegno economico alla stipula di polizze assicurative e fino alle convenzioni con negozi e fornitori di servizi. Ci sono poi imprenditori – come i membri di GIUNCA Gruppo Imprese Unite Nel Collaborare Attivamente a Varese o le fondatrici del Bionetwork di Pavia – che hanno utilizzato il contratto di rete, strumento nato per la libera aggregazione tra aziende con l’obiettivo di aumentare la competitività, per fornire congiuntamente servizi di welfare ai propri collaboratori.
 

* Questo articolo è stato pubblicato su Vita Magazine, n.2, febbraio 2013, p.42.

 

Torna all’inizio