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Sabato Ivrea ha perduto “Lalla”. A soli 64 anni, si è spenta Laura Olivetti, l’ultima figlia di Adriano, il capitano coraggioso che aveva fatto della “ditta” di famiglia una multinazionale con 36.000 dipendenti. Trasformando il capoluogo del Canavese in un modello di città industriale a misura d’uomo. “La fabbrica era per me un’entità presente nella vita della mia famiglia, dei miei amici, della mia città. Era quello che faceva muovere tutto, era al centro del pensiero e dei discorsi fatti in casa. Era una «persona» di famiglia”. Così Laura raccontò la sua infanzia eporediese in occasione del centesimo compleanno della Olivetti. Lasciandosi sfuggire di aver vissuto come una “usurpazione” l’arrivo di Carlo De Benedetti nel 1978 (anche se aggiunse subito che dopo tutto “fu un bene così”).

Il dispiacere più grande giunse nel 2003. Soffocata dai debiti, Olivetti si fonde con Telecom Italia, perdendo il nome. Per Laura fu una vera e propria offesa. In quel momento, era a capo della Fondazione Olivetti, di cui era diventata Presidente nel 1997. Decise non solo di accrescere il proprio impegno ma anche di riallacciare i rapporti fra la Fondazione e Ivrea: per lavorare, disse, alla “valorizzazione degli asset intangibili che ancora esistono e che attraverso il capitale umano producono innovazione, i germogli dei semi lasciati dalla Olivetti”.

Laura è stata un’importante figura intellettuale, impegnata nello studio e nella cura del disagio mentale, instancabile organizzatrice culturale, filantropa creativa e intelligente. Nella prefazione dell’ultimo Rapporto della Fondazione, scritta lo scorso maggio, si diceva convinta che l’esperienza di suo padre avesse ancora molto da insegnare sui rapporti fra operai e management, fra aziende e territori. Se è vero che in molti paesi sta ritornando il capitalismo “dinastico”, basato su imprese possedute da singole famiglie, allora Laura aveva ragione. Ma, senza di lei, tener viva la memoria del modello Olivetti sarà senz’altro più difficile.


Questo articolo è comparso anche su Il Corriere della Sera del 21 dicembre 2015