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Per un volta, l’Italia non fa eccezione. Anzi, le titolari donne sono da noi più numerose che in Francia, Inghilterra e nella stessa Germania. Una interessante ricerca di Confartigianato presentata ieri alla Fondazione del Corriere segnala addirittura una lieve tendenza di crescita anche in tempi di crisi. E mette in risalto molte virtù del fare impresa al femminile: la capacità di delegare, di giocare in squadra, di gestire il multitasking. Virtù che hanno consentito alle donne di far breccia anche in settori high tech, tradizionalmente monopolizzati dagli uomini: un numero ancora piccolo ma crescente di imprenditrici opera nella chimica, nell’elettronica, nell’informatica, nelle telecomunicazioni, nella ricerca e sviluppo.

Certo, avere successo è ancora un percorso a ostacoli, a causa di stereotipi e pregiudizi duri a morire nonché delle difficoltà di conciliare le responsabilità lavorative con quelle familiari.

I mariti-padri (in particolare quelli giovani e istruiti) sono oggi disponibili ad impegnarsi di più, tuttavia il grosso del carico domestico ricade ancora sulle donne, anche quando diventano imprenditrici di successo. Per la verità, dalla ricerca di Confartigianato non emerge una domanda acuta di welfare, di servizi sociali, di politiche di conciliazione. La piccola impresa a guida femminile costituisce forse l’ultima frontiera del familismo fai-da-te all’italiana, il massimo grado possibile di «integrazione creativa» tra sfera occupazionale e domestica.

Plaudiamo pure all’intraprendenza (a volte eroica) delle nostre tante superdonne «titolari». Ma prepariamo anche il terreno per una più equilibrata configurazione tra lavoro, welfare e famiglia.

L’esperienza internazionale ci insegna che dove questo è avvenuto si sono tratti enormi vantaggi non solo sul piano della qualità sociale ma anche della crescita e dell’occupazione. La via da seguire oggi in Italia per superare i limiti e le contraddizioni del modello familista (conservandone, ovviamente, gli aspetti positivi) è quello di promuovere l’espansione di una nuova e moderna economia dei servizi motech. Si tratta di un neologismo basato su due idee. La prima e più familiare è quella di «tecnologia», in senso lato: i nuovi servizi devono sfruttare al massimo le opportunità offerte dai progressi dell’informatica e della comunicazione. La seconda idea è che il loro scopo deve essere motherly (materno), il «prendersi cura» dei bisogni personali e sociali dei consumatori, di facilitare la loro vita quotidiana (casa, lavoro, imprevisti), di migliorare il loro «star bene» (con se stessi, i familiari, i colleghi, gli amici).

In lingua ebraica motek vuol dire «dolcezza»: il neologismo, coniato da uno studioso israeliano, vuole essere anche un richiamo di stile, la sottolineatura di atteggiamenti e modi di fare tipicamente femminili. Giocando un po’ con le parole potremmo metterla così: l’enorme patrimonio di motek che le donne italiane investono oggi all’interno della famiglia deve abbinarsi al loro crescente spirito imprenditoriale per far decollare un articolato e fiorente settore di servizi motech.

Negli altri Paesi Ue questo settore è già ben sviluppato, con forti ricadute in termini di occupazione: in Francia quasi un milione di nuovi posti di lavoro negli ultimi sette anni.

Qualcuno potrebbe comprensibilmente obiettare: la forza dell’Italia sta nella manifattura, cosa c’entrano i servizi «dolci»? C’entrano: le analisi socioeconomiche dimostrano che questi servizi non sono un lusso, ma (anche) un fattore produttivo, un modo per accrescere la flessibilità lavorativa, la motivazione e la creatività dei dipendenti, l’efficienza del contesto economico. Il decollo della nuova economia dei servizi va almeno inizialmente sorretto da intelligenti politiche pubbliche, che allarghino l’accesso al credito alle (aspiranti) imprenditrici, che promuovano reti e incentivino fiscalmente il ricorso a prestazioni che le famiglie italiane sono abituate a produrre entro le mura domestiche (in forme spesso sub-ottimali).

In tempi di recessione, parlare di queste cose può suonare come una fuga in avanti. Teniamo però presente che in fondo al tunnel non c’è una luce che risplende da sé. Siamo noi che dobbiamo accenderla: con progetti, lungimiranza e tanta intraprendenza.
 

*Questo articolo di Maurizio Ferrera è stato pubblicato anche sul blog del Corriere della Sera La ventisettesima ora.