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Per chi opera nel campo dell’organizzazione del lavoro sperimentando e studiando quelle che sono le possibili leve per favorire una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro, la normativa sulla flessibilità merita una attenzione particolare, così come tutto l’impianto regolatorio che riguarda la disciplina delle relazioni industriali.

Quando viene definita e pubblicata una nuova legge, un decreto, una intesa, un accordo, l’esperto di work-life balance ne testa immediatamente la spendibilità in termini di incentivazione all’adozione – da parte delle imprese – di misure amiche della famiglia, della popolazione lavorativa con carichi di cura, in generale della conciliazione tra la vita personale e lavorativa. Numerosi studi e ricerche si prodigano da anni nel tentativo di dimostrare quanto gioverebbe al nostro paese e all’Europa intera coinvolgere le donne nel mercato del lavoro, perché è documentato il fatto, per esempio, che le donne conseguono risultati scolastici più brillanti1, perché gli indicatori di performance delle aziende nelle quali la presenza femminile è più forte sono migliori (Mc Kinsey & Company 2008; Rapporto Cerved 2009), perché le donne che lavorano fanno più figli e si assicurano un futuro pensionistico scongiurando il rischio povertà nella fase matura della propria vita (Rapporto Save the Children 2010), e infine perché il lavoro delle donne genera altro lavoro attivando meccanismi incrementali di aumento del Pil (Ferrera 2008; Banca d’Italia 2011).

Eppure non è chiaro se le misure promulgate negli ultimi anni vadano nella direzione prioritaria di favorire strutturalmente tale processo di inclusione e in generale non è chiaro se intendano davvero accompagnare il cambiamento culturale epocale che stiamo vivendo attraverso la diffusione della cosiddetta “flessibilità buona”. Ricordiamo infatti che l’accezione di flessibilità non è univoca, e non viene utilizzata con lo stesso significato. Come del resto il termine “produttività”.

Ci si riferisce al termine flessibilità per indicare il livello di elasticità con cui i lavoratori entrano/escono dal mercato del lavoro. Si parla spesso, infatti, di flessibilità in uscita dal mercato (licenziamenti) e in ingresso (assunzioni o inserimenti lavorativi). L’Unione Europea da anni sollecita la flessibilizzazione del mercato del lavoro raccomandando da un lato la predisposizione di una strumentazione volta ad assicurare il passaggio da un posto di lavoro all’altro riducendo i disagi derivanti da periodi di disoccupazione o inattività, dall’altro individuando il contratto di lavoro a tempo indeterminato come forma contrattuale prevalente. In questa direzione ha inteso andare anche la recente Legge n. 92/2012 (cosiddetta Riforma Fornero) che accanto ad una facilitazione dei meccanismi di uscita dal mercato del lavoro (procedure di licenziamento) ha predisposto un sistema stabile e generalizzato di ammortizzatori sociali. Va da sé che il termine “flessibilità” così inteso è poco gradito alle rappresentanze dei lavoratori così come ai lavoratori e alle lavoratrici, poiché li espone maggiormente al rischio di perdere il posto di lavoro.

Una seconda accezione di flessibilità riguarda invece l’orario di lavoro2 ovvero il monte ore che ciascun/a lavoratore/trice è tenuto/a a prestare ai sensi del contratto di lavoro che ha sottoscritto. In particolare per flessibilità (in questo caso) si può intendere la possibilità riconosciuta al datore di lavoro di richiedere l’aumento della durata della prestazione lavorativa. Tale diritto, spesso sancito con l’espressione “clausole flessibili o elastiche”, è solitamente contemplato dal contratto nazionale ma deve poi essere accettato da un accordo stipulato col lavoratore al momento dell’assunzione.

E giungiamo infine alla terza grande area cui ci si riferisce usando lo stesso termine. Ed è la flessibilità che gli addetti ai lavori definiscono funzionale anziché numerica3. E’ una flessibilità che ridefinisce l’orario di lavoro non solo sulla base delle esigenze aziendali e produttive legate al “numero” dei lavoratori/trici ma anche di quelle del lavoratore/trice stesso/a e che ammette che gruppi e categorie di lavoratori/trici possano individuare profili orari diversi applicando la stessa normativa sul lavoro ma insistendo su istituti poco diffusi sebbene contrattualmente previsti. Tali istituti/strumenti consentono ai lavoratori/trici di ridefinire il proprio orario di lavoro in accordo con l’azienda ma rispondendo al contempo a necessità derivanti dalla organizzazione della propria vita privata. Si tratta in particolare dell’istituto della banca delle ore, del tele-lavoro, della flessibilità in entrata e uscita, del lavoro a distanza, del part-time, di quello che alcune aziende hanno ribattezzato lavoro agile4. Ad eccezione della flessibilità di orario in entrata e uscita che viene talvolta disciplinata a livello di contratto collettivo nazionale, aziendale o individuale5, gli altri strumenti citati sono normati dal codice del lavoro. Eppure non sono sempre e diffusamente utilizzati.

La banca delle ore, per esempio, prevede che le ore di straordinario che vengono accumulate, anziché riscosse in forma monetaria, possano essere accantonate in un conto ore dal quale il lavoratore o la lavoratrice possano attingere al bisogno (previo consenso del manager). Alcune aziende hanno reso ulteriormente “flessibile” tale strumento consentendo ai dipendenti di fruire di una sorta di “fido ore” che consente l’utilizzo preventivo di ore prima di averle accantonate. Oppure sono stati previsti conti a lungo termine che consentono recuperi non soltanto su base settimanale o mensile, bensì annuale o pluriennale (è possibile accantonare per anni e poi recuperare nel momento in cui si necessita di lunghi congedi).

Il tele-lavoro6, sebbene normato da un accordo-quadro europeo stipulato a Bruxelles il 16 luglio 2002 e recepito in Italia nel 2004 attraverso un’intesa interconfederale, è ancora poco utilizzato nel nostro paese. Tale ritrosia è dovuta in parte a motivazioni legate all’incertezza normativa relativamente alla disciplina sulla sicurezza (il datore di lavoro deve provvedere al rispetto della normativa sulla sicurezza ma si presuppone che la postazione sia fissa presso il domicilio, cosa che ne riduce le potenzialità), ma anche a ragioni culturali (manager e datori di lavoro non sempre posseggono strumenti adeguati alla misurazione della prestazione lavorativa in alternativa alla presenza in ufficio dei collaboratori).

Restano da trattare la flessibilità dell’orario di entrata e uscita dal lavoro e infine il part-time. Per quel che concerne l’entrata e uscita dal lavoro, va riconosciuto che tale possibilità si sta diffondendo a macchia d’olio ed è sempre più accettata tra le fila degli imprenditori e dei manager. Si oscilla tra flessibilità di soli 10 minuti ad una elasticità di qualche ora; tra flessibilità gestibili su base giornaliera (con obbligo di prestare un numero di pre fisso al giorno) e flessibilità settimanali/mensili (con obbligo di rispettare un monte ore su base settimanale o mensile).

Il contratto di lavoro a tempo parziale7, stipulato in forma scritta, disciplina un rapporto di lavoro caratterizzato da una durata complessivamente inferiore a quella dei corrispondenti rapporti di lavoro a tempo pieno. Nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. In coerenza con la contrattazione collettiva di riferimento, sono ammesse clausole flessibili che consentono la variazione della collocazione temporale della prestazione stessa (spostamento dell’orario). Nei rapporti di lavoro a tempo parziale di tipo verticale o misto possono essere stabilite anche clausole elastiche relative alla variazione (in aumento) della durata della prestazione lavorativa. Il lavoratore, con riferimento alle clausole flessibili o elastiche, ha la facoltà di rifiutare le proposte di modifica datoriali e deve essere in ogni caso avvisato con congruo preavviso.

La Riforma Fornero ha invece conferito ai contratti collettivi la facoltà di stabilire le “condizioni e modalità che consentono al lavoratore di richiedere l’eliminazione ovvero la modifica delle clausole flessibili e delle clausole elastiche”. In sostanza il lavoratore può recedere dal consenso che aveva dato in precedenza alla variazione della collocazione della sua prestazione e anche alla possibilità di richiedergli straordinari. Alla stessa stregua, per talune categorie di lavoratori/trici (con familiari affetti da patologie, piuttosto che lavoratori studenti) è concesso di revocare il consenso allo svolgimento della prestazione orario parziale in forma elastica o flessibile.

Il punto di vista è, anche in questo caso, quello dell’interesse prioritario del datore di lavoro da cui il lavoratore deve difendersi o rispetto al quale è in conflitto. Non si prende evidentemente in considerazione l’ipotesi per cui possa essere di specifico interesse dei lavoratori spostare discrezionalmente l’orario di lavoro. In realtà, la prospettiva del conflitto di interessi, il pregiudizio per cui l’interesse del datore è incompatibile con quello del lavoratore, può produrre svantaggi nel lavoratore stesso che avrebbe potuto giovarsi della libertà di variare la collocazione oraria della prestazione, e di conseguenza anche per il datore di lavoro che si preclude la possibilità di trarre beneficio da una maggiore produttività del lavoratore stesso.

Recenti ricerche8 effettuate per indagare il livello di soddisfazione sul lavoro documentano l’esigenza dei lavoratori e delle lavoratrici di poter usufruire di maggiore flessibilità. Il 75% dei lavoratori è soddisfatto del proprio orario di lavoro ma l’85% desidera conciliare meglio famiglia e lavoro, il 58% gradirebbe una maggiore elasticità oraria (nella accezione letterale e non gius-lavoristica del termine) e il 42% una introduzione almeno parziale, del telelavoro. I servizi9 che al momento vengono offerti più frequentemente sono, nell’ordine, buoni pasto o mensa (79%), flessibilità (orario ridotto o telelavoro, 58%), assistenza medica o burocratica (36%), servizi di conciliazione casa-famiglia (23%), benefit ricreativi e culturali (19%), servizi di mobilità (13%).

E’ innegabile che un cambiamento e una evoluzione siano in atto. Molte aziende si stanno dotando di accordi, procedure, regolamenti e modelli organizzativi in grado di disciplinare e adottare strumenti di flessibilità oraria che non siano soltanto il risultato di esigenze produttive ma anche di necessità familiari e personali dei collaboratori/trici. Sono soprattutto le grandi aziende ad adottare per prime strumenti in grado di accompagnare il cambiamento. Le aziende medio-piccole si dividono tra quelle che nella prassi già concedono e agiscono la flessibilità, e altre che invece tendono a resistere adducendo come principale motivazione la difficoltà a misurare, verificare, controllare il livello di produttività dei propri collaboratori/trici se non attraverso la garanzia della presenza fisica sul luogo di lavoro.

In realtà è risaputo quanto una adozione di strumenti di “flessibilità buona” ovvero di strumenti in grado di rispondere contemporaneamente all’interesse del datore di lavoro e del lavoratore, produrrebbe maggiore efficacia, efficienza, ridurrebbe l’assenteismo, aumenterebbe la motivazione al lavoro e la propensione alla autonomia e assunzione di responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi, ridurrebbe la difettosità del prodotto e ne incrementerebbe la qualità.

Per questo motivo ci si chiede se l’attuale impianto normativo sia in qualche modo coerente con l’ipotizzata utilità della strumentazione descritta o se addirittura, sia in grado di favorirne la diffusione e utilizzo. Quali sono per esempio i concetti di produttività o flessibilità cui fa riferimento il legislatore nell’atto di promulgare un collegato lavoro, una riforma del lavoro, una intesa tra le parti sociali, un accordo sulla produttività stessa, un disegno di legge? Che cosa intende realmente incentivare o favorire? A quale tipo di flessibilità si riferisce? Intende favorire l’entrata e uscita dal mercato del lavoro? Oppure un incremento delle ore lavorate? O intende per caso sollecitare le aziende a ottenere maggiore produttività senza variare in aumento il tempo della prestazione lavorativa o addirittura modificando gli orari di lavoro sulla base delle necessità dei lavoratori e non soltanto di quelle organizzative e produttive della sua azienda?

Questo non sempre è chiaro: a parole (o sulla carta o addirittura in un testo di legge) il legislatore spesso proclama le potenzialità della nuova norma in quanto compatibile e coerente con il cambiamento in atto o il comportamento auspicato, con la necessità di promuovere la competitività delle imprese, la produttività del lavoro, il benessere delle imprese e dei lavoratori. Ma spesso alla resa dei fatti la norma non muta realmente il contesto, non contribuisce a modificare la realtà nella direzione auspicata, né accompagna il cambiamento. Qualche volta, anzi, ne enfatizza e consolida gli effetti contrari.

Vediamo per esempio il caso del Decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività’ economica”10. Si tratta della manovra finanziaria del 2010 che conteneva un provvedimento teso a supportare la produttività aziendale. Tale provvedimento è simile a quelli adottati negli anni successivi e tutt’ora in discussione. L’art. 53 (“Contratto di produttività”) recitava:

Nel periodo dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2011, le somme erogate ai lavoratori dipendenti del settore privato, in attuazione di quanto previsto da accordi o contratti collettivi territoriali o aziendali e correlate a incrementi di produttività, qualità, redditività, innovazione, efficienza organizzativa, collegate ai risultati riferiti all’andamento economico o agli utili della impresa o a ogni altro elemento rilevante ai fini del miglioramento della competitività aziendale sono soggette a una imposta sostitutiva della imposta sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali. Tale disposizione trova applicazione entro il limite complessivo di 6.000 euro lordi e per i titolari di reddito da lavoro dipendente non superiore a 40.000 euro.

Lo strumento, in effetti, faceva ben sperare. Si parlava appunto di “imposta sostitutiva (quindi inferiore all’ordinaria) per le somme erogate ai dipendenti […] correlate a incrementi di produttività, qualità, redditività, innovazione, efficienza organizzativa […] collegate a risultati [… ] riferiti all’andamento economico”. Alcuni esponenti del governo lo segnalarono allora come possibile provvedimento adatto a “promuovere la flessibilità organizzativa che si sarebbe tradotto in maggiore e miglior bilanciamento tra tempi di vita e di lavoro che in buona sostanza avrebbe consentito alle aziende e ai lavoratori e lavoratrici di essere maggiormente produttivi e di concorrere così al buon andamento dell’impresa. Dunque una parte di salario, ratificata da un accordo tra le parti sociali, avrebbe potuto essere considerata come salario di produttività e dunque soggetto ad agevolazioni”11.

In realtà, l’Agenzia delle Entrate, nella Circolare n. 3/E (una delle molteplici circolari emanate su questo tema), al punto 3, chiarisce molto bene quali siano gli “Istituti agevolabili” 12, come illustrato di seguito:

“I principali istituti che possono dare luogo alla applicazione della misura in quanto riconducibili ad incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa sono:

– straordinario (forfait o "in senso stretto"): è detassabile tutta la retribuzione relativa al lavoro straordinario (la quota di retribuzione ordinaria oltre alla quota relativa alla maggiorazione spettante per le ore straordinarie);
- lavoro a tempo parziale: è detassabile l’intero compenso per lavoro supplementare (lavoro reso oltre l’orario concordato, ma nei limiti dell’orario a tempo pieno applicabile a tutti i lavoratori a tempo parziale);

– lavoro notturno: sono detassabili le somme erogate per il lavoro notturno in ragione delle ore di servizio effettivamente prestate, nonché l’eventuale maggiorazione spettante per le ore di ordinario lavoro effettivamente prestate in orario notturno.
- lavoro festivo: è detassabile la maggiorazione corrisposta ai lavoratori che, usufruendo del giorno di riposo settimanale in giornata diversa dalla domenica (con spostamento del turno di riposo), siano tenuti a prestare lavoro la domenica;

– sono altresì detassabili le indennità di turno o comunque le maggiorazioni retributive corrisposte per lavoro normalmente prestato in base a un orario articolato su turni, sempre a condizione che le stesse siano correlate ad incrementi di produttività, competitività e redditività.

Se i benefici fiscali vanno quindi nella direzione di avvantaggiare e favorire un aumento temporale della prestazione lavorativa indipendentemente dalla sua efficacia, qualità, marginalità, redditività, è chiaro che chi non potrà beneficiarne saranno proprio quei lavoratori/trici e quelle aziende che stanno facendo il tentativo di migliorare l’organizzazione del lavoro in direzione di una diversa valutazione della prestazione lavorativa svincolata dal fattore tempo. Per trarre vantaggio dalla misure dei decreti produttività come quello sopra rappresentato, è necessario invece che una azienda abbia già risorse a disposizione e che le investa in una maggiorazione del tempo di lavoro a prescindere dal livello di produttività raggiunto.

Quindi, contrariamente a quanto auspicato e annunciato dai rappresentanti governativi in più occasioni (ma anche dai rappresentati sindacali, delle associazioni datoriali, e di altri soggetti sociali ed economici), è quanto mai improbabile che la conciliazione famiglia-lavoro, in quanto adozione di istituti concordati tra datore e lavoratore nell’interesse di entrambi, venga stimolata e supportata dai decreti produttività che conosciamo. Infatti sono altri gli istituti della flessibilità che maggiormente si prestano per la ricerca di un possibile equilibrio tra i tempi della famiglia e quelli del lavoro. Sono nella fattispecie quelli che abbiamo più sopra descritto (part-time, telelavoro, orari flessibili in entrata e uscita) che raramente si associano al riconoscimento di un premio economico a prescindere, perché non comportano necessariamente un aumento dell’orario di lavoro così come singolarmente statuito dalla Agenzia delle Entrate.

La domanda che ci si pone (forse un po’ provocatoriamente) è quindi se il legislatore abbia piena consapevolezza di tale complessità e se le circolari, chiarimenti, documenti applicativi che fanno seguito ai suoi provvedimenti, vengano adeguatamente previsti, progettati e presidiati allo scopo di verificarne la coerenza con gli obiettivi che ci si era inizialmente prefissati, dal momento che la struttura tecnica è parte integrante della efficacia di un processo decisionale. In caso contrario, viene il dubbio che gli stessi obiettivi non siano a volte sufficientemente chiari o condivisi tra i decisori stessi.

Riferimenti

1 Indagine Istat “Aspetti della vita quotidiana” del 2011 che rileva i dati sulla scuola e sulle attività educative.

2 Art. 5 r.d.l. n. 692/1923; Legge 549/1995; Legge 24/6/1997, art. 13.

3 La flessibilità funzionale si raggiunge “attraverso cambiamenti organizzativi, cambiando collocazione e compiti dei lavoratori all’interno dell’azienda, secondo una logica di mercato del lavoro interno” (cfr. Prof.ssa A. Cortese, docente di Sociologia del lavoro dell’Università di Catania).

4 Accordo San Pellegrino Agile Workplace, un ambiente di lavoro più moderno e che faciliti l’interazione tra le persone.

5 Ad esempio il nuovo CCNL dei metalmeccanici (Accordo di rinnovo contrattutale per gli anni 2013-2015), siglato in data 5 dicembre 2012, prevede la flessibilità dell’orario di lavoro in entrata e in uscita, mentre i precedenti CCNL non la prevedevano.

6 Per un quadro esauriente sul tele-lavoro si rimanda a Il Quadro giuridico del tele-lavoro.

7 D.Lgs. n. 61 del 2000.

8 La motivazione sul lavoro passa per il “work-life balance”: l’85% degli italiani vuole più equilibrio fra vita privata e professionale.

9 Ricerca “Nuova impresa e nuovo mercato del lavoro: persone e organizzazioni di fronte alle prossime sfide” condotta da Edenred e da The European House Ambrosetti su un campione di giovani under 35 e su un panel di manager e responsabili delle risorse umane.

10 Decreto Legge 31 maggio 2010, n. 78, coordinato con la Legge di conversione 30 luglio 2010 n. 122, intitolato "Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica" (Gazzetta Ufficiale 30 luglio 2010, n. 176).

11 Comunicato Ansa, COM-CLL 30 maggio 2010 – Consigliera di Parità Nazionale.

12 Roma, 14 febbraio 2011, Circolare 3/E, Art. 1, comma 47, della Legge n. 220 del 2010: imposta sostitutiva del 10% sulle componenti accessorie della retribuzione corrisposte in relazione ad incrementi di produttività.

 

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