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Anche se «fondata sul lavoro», la nostra Repubblica ha sempre fatto molta fatica ad offrire opportunità di occupazione ai propri cittadini. Quando fu approvato l’articolo 1 della Costituzione, gli italiani attivi erano solo cinquanta su cento, uno dei valori più bassi d’Europa. Persino durante il miracolo economico i posti di lavoro totali crebbero di poco: si espanse l’industria, ma si contrasse l’agricoltura. Da allora l’occupazione è aumentata, ma non abbiamo raggiunto i livelli degli altri Paesi, soprattutto per quanto riguarda il lavoro femminile. La grande crisi ha fatto esplodere il fenomeno della disoccupazione giovanile. Nell’intervista rilasciata a Clemente Mimun, direttore del Tg5, il presidente Napolitano ha ricordato che non si tratta di una piaga solo italiana.

Ma nel nostro Paese i giovani restano disoccupati più a lungo, hanno difficoltà a ottenere contratti stabili, sono vittime di «cicatrici» destinate a pesare nei loro percorsi di vita: un tratto davvero allarmante, come ha rilevato ieri l’Ocse. Inoltre, il 20% dei ragazzi fra i 15 e i 24 anni (il triplo rispetto alla Germania e quasi il doppio rispetto alla Francia) non «fa nulla»: non risulta iscritto a scuola o a corsi di formazione, non ha un lavoro e non lo sta cercando. Alcuni si arrangiano nel sommerso, ma il problema resta grave. Secondo stime della Ue (2011), la mancata formazione e occupazione di questi giovani è uno spreco economico enorme, quantificabile in 500 milioni di euro a settimana in termini di mancata crescita. Sulle politiche pubbliche che servirebbero per affrontare la questione giovanile si sono già detti e scritti fiumi di parole.

Il nuovo governo ripone molte speranze nella cosiddetta «garanzia giovani» raccomandata dalla Ue: fare in modo che ogni ragazzo riceva una qualche offerta concreta di lavoro o formazione entro quattro mesi dalla fine della scuola o dall’inizio della disoccupazione. Insieme a Hollande e Rajoy, il premier Letta ha chiesto all’Europa di mettere più risorse a disposizione dei Paesi membri, anche scorporando le spese necessarie (come quelle relative ai servizi per l’impiego o agli incentivi all’apprendistato) dal deficit pubblico. Gli schemi di «garanzia giovani» funzionano da tempo, e con successo, nei Paesi nordici. Ma il mercato del lavoro italiano è lontano anni luce dai suoi omologhi del Nord.

Come primo passo, forse potremmo sperimentare uno strumento meno ambizioso, recentemente introdotto in Finlandia. Si chiama Chance Card (carta opportunità), viene data ai giovani che si trovano in maggiore difficoltà occupazionale, assicura priorità d’accesso ai servizi per l’impiego e di formazione e dà titolo a un bonus contributivo alle imprese che li assumono. La via maestra per aiutare i giovani resta tuttavia l’apprendistato. È su questo fronte che occorre investire (in soldi e in organizzazione), coinvolgendo scuole e imprese, perfezionando le regole introdotte dalla riforma Fornero e prevedendo nuove forme di stabilizzazione contrattuale flessibile per i neoassunti. Il presidente Napolitano ha giustamente osservato che l’articolo 1 della Costituzione va considerato come un «principio regolatore» a cui dovrebbero uniformarsi tutti gli attori politici e sociali.

È un’esortazione da prendere sul serio e che concretamente potrebbe assumere due forme. Sul piano delle decisioni politiche, governo e Parlamento dovrebbero impegnarsi a stimare e illustrare gli effetti occupazionali di ogni provvedimento di politica economica e sociale. Sul piano delle relazioni industriali, sindacati e datori di lavoro dovrebbero a loro volta inaugurare una nuova stagione di concertazione «creativa», capace di elaborare progetti innovativi su sviluppo e competitività, il cui principale metro di valutazione sia, appunto, la creazione di nuovo impiego. Abbiamo un pesante handicap storico da superare. Per riuscirci dobbiamo trasformarlo in una sfida nazionale, come fu l’ingresso nella moneta unica. Allora ce la facemmo. Con un nuovo colpo di reni e molto impegno, possiamo farcela anche oggi. A patto di provarci seriamente.

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 31 maggio 2013

 

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