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Continuano i nostri approfondimenti dedicati ai vent’anni della Legge 328/2000. In questo articolo, Pier Paolo Inserra – esperto di pianificazione sociale, ricercatore e formatore – avanza alcune proposte per rilanciare e rafforzare le pratiche della pianificazione sociale territoriale e la progettazione partecipata. La crisi che stiamo vivendo ci spinge infatti a ripensare le strategie di sviluppo – sociale, economico e ambientale – intraprese fino ad ora.


Sono passati vent’anni da quando la Legge 328 del 2000 ha provato a rileggere mandato e funzioni degli Uffici sociali territoriali, politiche sociali nazionali, approcci alla programmazione e alla pianificazione locale e regionale. Il silenzio è il denominatore comune di questa scadenza: pochi dibattiti sul tema, libri e contributi contati, numerose rimozioni agite. Come operatori pubblici e non profit siamo concentrati sul quotidiano o meglio, su quell’ossimoro che molti chiamano “emergenza del quotidiano”. Viviamo di programmazione a scarto ridotto e di approcci molto empirici. Stiamo progressivamente spegnendo ogni piccolo fuoco che la 328 ha acceso.

Se a quanto appena detto aggiungiamo l’obbligo – con le contraddizioni sociali che la pandemia sta ulteriormente esasperando – di rilanciare una riflessione a tutto tondo sul welfare e sulla qualità della vita delle nostre comunità, capiamo bene che tacere è impossibile. Lo sforzo che dovremmo fare va in un’unica direzione. Quella di riprendere, con esercizio, rigore, dialettica e curiosità civica, la capacità di pensare allo sviluppo delle nostre città, dell’ambiente naturale e paesaggistico di cui non possiamo considerarci i soli referenti. Non ci sono alibi: la scommessa più importante da gestire nei prossimi anni riguarda la ri-costruzione di coordinate valoriali e politologiche fondate sulla valorizzazione dei contesti che abitiamo e delle relazioni ecosistemiche, su politiche sostenibili e redistributive, su un benessere e dei diritti diffusi.

Sei tesi per un approccio diverso alla pianificazione sociale

Articoliamo, a questo punto, alcune tesi da considerare – senza pretesa di esaustività – un escamotage argomentativo per confrontarsi su principi, aporie ed intuizioni che guardano in maniera immediata alla relazione tra pianificazione, qualità della vita, sviluppo sostenibile e partecipato degli habitat che viviamo. Ogni tesi rappresenta da una parte la sintesi di pensieri personali e della comunità scientifica in materia di planologia, teoria della complessità e del cambiamento sociale; e dall’altra un nucleo ancora involuto ma riconoscibile di stimoli utili a cambiare vettore osservazionale e metodologico per pianificare e programmare concretamente sui territori.


Tesi I

La pianificazione sociale e la coprogrammazione non possono più riferirsi solo all’organizzazione di risposte collegate a bisogni e a servizi sociali dedicati, quanto alla costruzione di un intero sistema a trazione ecologica che produca benessere diffuso.

“Sociale” è, in termini complessivi, qualsiasi riflessione o azione di natura politica, strategica, culturale, programmatica, progettuale ed operativa che riguardi l’interazione tra un sistema societario promosso dagli uomini, il proprio habitat di riferimento, e l’ecosistema naturale originario. Ciò ha attinenza con la vita dell’uomo in comunità territoriali composite e identificabili come sistemi a trazione ecologica, in cui tutto quello che porta a far prevalere il diritto di parità tra specie e natura è sociale. Il concetto principale attorno a cui ruota una strategia locale di attivazione sociale, pertanto, non è il servizio in sé (da difendere comunque come precipitato essenziale per fornire risposte alla cittadinanza rispetto a dei bisogni e dei diritti codificati), quanto l’ecosistema umano, paesaggistico, culturale, relazionale, simbolico, economico, antropologico.


Tesi II

La pianificazione è fatta di visione e scenari. Quando attiviamo un lavoro di investimento, rilancio, organizzazione di un sistema di risposte sociali dobbiamo ricondurlo ad una idea complessiva di città, di ambiente a cui vogliamo tendere. Altrimenti qualsiasi progetto diventa un salto nel vuoto.

Ogni atto programmatorio, progetto o obiettivo sociale deve misurarsi con due dimensioni di processo e di contesto allo stesso tempo: la dimensione della visione e quella degli scenari verso cui tendere. Se non si esplicitano entrambe, si perde in senso della prospettiva e in generatività. Viene meno, in altre parole, l’aspetto dinamico fondamentale che caratterizza un pensiero o un’azione sociale.

Per “visione” si intende la capacità di immaginare, con riflessioni sistematizzate e aperte a cambiamenti ed assestamenti, un contesto o habitat verso cui orientare ipotesi di azione o progettualità sociali. Per “scenari” intendiamo le possibili morfologie sociali che assume un’azione sociale a livello infrastrutturale, organizzativo, relazionale, figurativo. Parliamo di evoluzioni o involuzioni prodotte da un’azione sociale sul medio-periodo. Usiamo il plurale e non il singolare (“scenario”), perché in questo caso è fondamentale considerare la previsionalità adattiva come valore. Ciò obbliga il pianificatore sociale a immaginare diverse tipologie di scenario possibili. A basso, medio e alto livello di trasformazione e/o entropia.


Tesi III

Basta con i Piani sociali di zona a singhiozzo o fotocopia. Bisogna andare oltre la costruzione di piani sempre uguali a sé stessi.

Contro la reiterazione programmatica non costruiamo ponti isotornanti. Un atto programmatorio non può essere un atto liturgico o ritualistico. Non può, cioè, essere il prodotto sempre uguale di élite, gruppi monocratici, riflessioni mal condivise tra attori locali istituzionali, della cittadinanza organizzata, del mondo della scuola o dell’economia sociale. Non può essere rappresentato nello spazio del frattempo o in maniera improvvisata. Non si reiterano un piano o un programma. Non si riproducono nel tempo piani simili o uguali. Serve una certa vivacità programmatica. È necessario il coraggio continuo del rilancio e del reinvestimento. Altrimenti il prodotto di un processo di programmazione è natura morta.


Tesi IV

Attenzione ai processi: pianificare non vuol dire incasellare una serie di schede progettuali precedute da una raffinata analisi del territorio per poi tradurre con procedure, avvisi pubblici, risorse, le stesse schede in servizi territoriali. Pianificare vuol dire prima di tutto gestire nel miglior modo possibile perturbazioni e stimoli che in maniera permanente caratterizzano il processo di pianificazione, programmazione e azione.

Pianificare e programmare rappresentano modi e metodi per collegare passato, presente, futuro con spazi, processi e relazioni. Qualsiasi retorica futurologica o revisionista non aiuta a pianificare. Da questo punto di vista, deve ancora migliorare molto l’investimento in piani e programmi che vadano oltre la descrizione cronachistica delle pratiche da attivare. Il lavoro di programmazione e di pianificazione, se consideriamo quanto detto finora, non andrebbe mai rappresentato con delle tappe fatte di start e arrivi. Esso è un lavoro costante, circolare, in cui è importante, certo, puntare su evoluzioni o trasformazioni strutturali che saranno rappresentate da nuovi progetti pensati e programmati.

Ma è ancor più indispensabile monitorare il dispiegarsi degli eventi, le concatenazioni prodotte, contrastando le tendenze regressive, entropiche, inerziali. Non si pianifica per passare da un tempo ad un altro con degli scatti e dei balzi. Si pianifica e si programma – facendolo in modalità “sociale” – se si bada di continuo alle interazioni, alle relazioni tra attori e stakeholder, alle piccole strambate o ai cambi di rotta, alle motivazioni e alla partecipazione costante delle comunità e dei territori. Insomma, si pianifica guardando a cosa “sta succedendo”, a cosa si è dovuto riprogettare e perché. Ai processi.


Tesi V

Valorizzare i saperi comuni

L’ultima, delicata, riflessione riguarda la spendibilità dei “saperi comuni”, non specialistici – nei processi di programmazione o di attivazione di un piano transdisciplinare. L’errore più frequente è quello di considerare il cittadino esclusivamente come un testimone privilegiato o un soggetto esterno al sacro rito della pianificazione. Al massimo, un cittadino è un dispenser di informazioni da sussumere e a cui attribuire senso (cosa che può fare, a detta degli esperti, solo un esperto…).

È vero, chiamare in causa la cittadinanza non specializzata nel lavoro di programmazione complessivo può anche voler dire – estremizzando – dare spazio a processi di semplificazione, di assolutizzazione, a pregiudizi o a visioni stereotipate. Però, soprattutto, vuol dire fare i conti con letture “comuni”. Che vanno oltre le gabbie interpretative del pianificatore che avrebbe bisogno, molte volte, di confronti aperti. Utili almeno per cogliere le “verità” che esistono dietro ad un atto interpretativo di chi non possiede quei metodi e quelle conoscenze tecnicistiche.

Non dimentichiamolo mai: un comune cittadino o gruppi di cittadini, se coinvolti nella fase elaborativa, possono fornire letture complessissime su quanto emerso in fase di studio o di coprogettazione, oppure condividere dubbi e manifestare resistenze rispetto ad alcune progettualità. Tale consapevolezza non va mai rimossa, perché alimenta la circolarità tra ricerca e azione, permettendo interventi più mirati e storicizzati.


Tesi VI

I servizi sociali: da dispositivi a articolati della complessità. Non sono contenitori con partizioni rigide, bensì intrecci tra flussi, relazioni, linguaggi diversi, interessi diversi, potere, culture, arene.

Una pianificazione sociale basata sulla complessità ridefinisce il sistema di risposte e di servizi in un’ottica multidimensionale che tiene insieme approccio ecosistemico, scenari evolutivi possibili, risposte a target e a bisogni specifici della cittadinanza, servizi intesi non più come precipitato oggettuale o dispositivo ma come espressione di un livello preciso di articolazione della complessità.

Ogni servizio o risposta sociale vanno pertanto declinati a partire da quanta specializzazione li caratterizza (capacità di risposta a target e bisogni mirati), da quanta innovazione producono (aggiornamenti e cambiamenti codificati, nei metodi e nell’operatività), dai livelli di integrazione che praticano con altri servizi o progetti (ottimizzazione dei costi e degli interventi, aumento della qualità delle risposte, abbattimento di dispersività e ridondanze), dalla generatività e dalla sostenibilità che originano.


L’emergenza del quotidiano

Dobbiamo contribuire ogni giorno – come amministratori, studiosi e ricercatori, operatori, professionisti, accademici, volontari, cittadini – ad agire i nostri spazi culturali e professionali per entrare in gioco in qualsiasi percorso di pianificazione e di coprogrammazione territoriale. Perché solo quando la pianificazione assumerà i caratteri dell’eutopia, delle logiche deliberative e del comune interesse, perderà la sua caratteristica attuale, che è quella di rappresentare un atto di potere, elitario e tecnicistico. Abbiamo bisogno di un “buon luogo”, di pratiche e di metodi. Abbiamo bisogno, come mai nella storia contemporanea, di responsabilità diffusa, generatività e attivismo.