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“Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale, abbiamo vissuto per troppo tempo al di sopra dei nostri mezzi ed è ora di ridimensionarci: il modello sociale europeo è inesorabilmente in crisi”. Ma è veramente così? Siamo davvero sicuri che l’Europa sia in declino perché statalista e assistenziale? Non sembra di questa idea Federico Rampini, che in Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale. Falso!, intravede una speranza per il modello sociale europeo. Non il nostro modello, che ne è “una caricatura penosa”, ma quello del Nord Europa – in particolare tedesco -, che oltre ad essere efficace si coniuga con un’ottima competitività e produttività economica. Perché un’altra via non soltanto è possibile, ma doverosa, e passa per l’integrazione del nostro Paese nello stesso patto sociale, nello stesso spirito civico e cultura delle regole di quei paesi che hanno fatto del welfare state non solo una necessità, ma anche una virtù.

Il falso mito americano

L’analisi inizia con lo sfatare un mito: il modello americano come modello superiore che promuove, oltre che ricchezza economica, la realizzazione dell’individuo. Ma è proprio così? Sembrerebbe di no. Con 56,2 milioni di americani che vivono al di sotto della soglia di povertà assistiamo al progressivo impoverimento della middle class e al crollo del suo potere d’acquisto. I dati sulla mobilità sociale disegnano un quadro sempre più lontano dall’American Dream: il 42% degli americani che nascono nel 20% della popolazione più povera vi restano anche da adulti, mentre il 20% dei più ricchi ha una probabilità molto elevata di rimanerci per sempre. E un aumento vertiginoso delle diseguaglianze sociali: dal 1978 a oggi, l’1% degli americani più ricchi hanno visto aumentare i loro redditi del 256%, a fronte di un potere d’acquisto della famiglia media stagnante. Il 93% degli aumenti di reddito nazionale è quindi nelle mani di un solo 1% di privilegiati. Sembra fallire anche il patto sociale per cui gli Americani accettano di rinunciare a un welfare generoso in cambio di una pressione fiscale più leggera. Tanto leggera, infatti, non sarebbe: negli Usa pagano tutti – e chi evade rischia grosso-, e il prelievo fiscale, se sommiamo le aliquote per l’imposta federale e quella statale, non è molto inferiore a quello europeo. Questo in cambio di servizi decisamente insufficienti: nessuna assistenza sanitaria, scuola pubblica scadente, una Social Security che costringe gran parte dei lavoratori a rivolgersi a onerosi fondi pensione privati.

Il modello europeo: più di un’Europa

Il modello europeo è certamente in crisi e per molti versi insostenibile, ma non tutto. Esisterebbero infatti due Europe: la prima, che incarna il modello sociale nella sua versione migliore, caratterizzato da alti salari, sindacati forti, tutela dell’ambiente, alta qualità della scuola pubblica e società “egualitaria”. E’ quella di Germania, Olanda, Austria, Svizzera e le quattro nazioni nordico-scandinave: Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia. La seconda è invece composta da Paesi che hanno un alta spesa pubblica ma che per anni non l’hanno finanziata con un gettito fiscale adeguato: Italia, Grecia e Spagna. Questi sì che hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi, con un’evasione fiscale ed un’economia sommersa a livelli altissimi e un serio problema di “capitale sociale”: “non solo i politici corrotti, ma corpose e rispettabili categorie sociali si sono abituate a vivere per decenni in un mondo parallelo, dove i servizi pubblici esistono e fanno comodo, mentre le tasse sono un optional” (p. 40).
Queste sono, in effetti, le nazioni sfiduciate dai mercati, non le prime, che si posizionano ancora al vertice delle economie mondiali. Quindi dal punto di vista della sostenibilità finanziaria il welfare state non è necessariamente condannato, ma solo alcune sue versioni.

Il modello Germania: una soluzione esportabile?

In questo contesto la Germania – insieme ai paesi “amici” prima elencati – si presenta come un modello per conciliare efficacemente la produttività economica con lo stato sociale, grazie soprattutto ad un solido patto sociale e ad una stabilità politica che creano un clima di fiducia e lealtà tra consociati. C’è stato un momento, sul finire degli anni Novanta, in cui si era diffuso un certo interesse per il "capitalismo renano", quel sistema che cercava di conciliare imprenditorialità, partecipazione sindacale e solidarietà, diffuso non solo in Germania ma anche nelle regioni dell’antica Europa borgognona (Bruxelles e Fiandre, Lussemburgo, un pezzo di Francia nord-orientale) e che sarebbe stato congeniale anche ad un pezzo di Italia, dal Triveneto al Bresciano al Modenese, tessuti industriali con tradizioni diverse, ma con in comune forme di solidarismo cattolico o compartecipazione di fatto delle maestranze socialcomuniste nel governo delle imprese. Esistevano quindi le premesse per una “germanizzazione” che esportasse le virtù tedesche nel nostro Paese. Ma perché ciò non è avvenuto? Per un’influenza storica che, soprattutto dopo l’esperienza nazista, ha reso la Germania una “superpotenza timida”, per la tendenza al risparmio tipica della cultura tedesca – e difficilmente esportabile – e per la natura stessa dell’economia tedesca che, fondata sulle esportazioni, necessita del vizio altrui, cioè di nazioni in perenne disavanzo commerciale. Non è quindi facile, ma un po’ più di Germania, farebbe bene anche a noi.

Un nuovo pensiero economico

In una società, e in un’economia, profondamente cambiate, un nuovo approccio al rapporto tra pubblico e privato deve essere possibile. Ma quale? Dagli Stati Uniti si fa strada una nuova teoria: la Modern Monetary Theory (MMT) – uno dei cui massimi esponenti è James K. Galbraith, consigliere di Obama – che, proclamandosi come la versione attualizzata del pensiero keynesiano, rivoluziona i dogmi dell’austerity e assegna un ruolo benefico al deficit ed al debito pubblico: la crescita passa per il rilancio di spese pubbliche in deficit da finanziare attraverso la liquidità della banca centrale, non alzando le tasse. Per spiegarla con una metafora, da una parte ci sarebbero “i falchi” del deficit: Angela Merkel, i tecnocrati e gli economisti schierati col partito repubblicano statunitense, decisi a ridurre le spese e per i quali lo Stato, come una famiglia, non deve vivere sopra i propri mezzi – secondo la Modern Monetary Theory, con conseguenze tragiche; dall’altra “le colombe” del deficit, i keynesiani come Stiglitz, che contestano l’austerity ma credono anch’essi che col tempo il debito crei inflazione e quindi vada ridotto. Infine ci sono “i gufi”, cioè i saggi, quelli della Mmt, che ritengono che il pericolo inflazione sia reale, ma solo quando ci si avvicina al pieno impiego. Quindi di certo non oggi. Il deficit odierno sarebbe allora benefico, a patto che venga finanziato dalle banche centrali, comprando titoli di stato emessi dai rispettivi governi. Una soluzione monetaria alla crisi che permetterebbe di salvarci senza passare per il dissanguamento dello Stato sociale, preso di mira dalle cure dell’austerity.

Quale futuro per l’Italia? Una sfida culturale

In questo quadro da cui l’Italia esce come una “grande malata”, ci troviamo di fronte ad una scelta che non è solo di politica, è una scelta di civiltà.
Joel Kotkin, geografo-economista-demografo degli Stati Uniti ha elaborato una mappa del mondo che ridisegna le reti di alleanze globali su basi antropologiche-culturali. In questa mappa, l’Unione Europa esce a pezzi e, in particolare, l’Italia entrerebbe nelle cosiddette “Repubbliche dell’Olivo” – assieme a Grecia, Bulgaria, Macedonia e Portogallo – che hanno comuni radici storico-culturali e sono nettamente distanziate dall’Europa settentrionale: tassi di povertà due volte più alti, popolazione attiva dal 10 al 20 % inferiore, debiti pubblici elevati e i tassi di natalità più bassi del pianeta. Tutt’altro, quindi, rispetto a ciò che auspicheremmo, cioè un’Italia che si colloca tra le potenze leader dell’Unione Europea.
E’ evidente che si tratta di una rappresentazione brutale e piuttosto semplicistica, ma può servirci come stimolo: imprimere un corso diverso alla nostra storia e invertire il declino, o rassegnarci a ridurci ad una nazione isolata, terra di antichi splendori. A noi l’opzione.

 

Riferimenti

Non ci possiamo più permettere uno stato sociale. Falso!, Federico Rampini, Idòla-Laterza, 2012