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Mentre a Roma i politici si affannano per formare un nuovo governo, a Bruxelles e nelle altre capitali europee fervono i preparativi per il vertice Ue del 14-15 marzo. L’agenda ufficiale prevede che si faccia il punto sulle prospettive di crescita e sui programmi nazionali di riforma che ciascun paese dovrà presentare entro aprile (a proposito: da noi chi se ne sta occupando?). Ma la posta in gioco del vertice è in realtà molto più alta. Si inizierà infatti a negoziare sul futuro dell’Unione economica e monetaria e sulle strategie per uscire dal circolo vizioso «austerità-recessione-disoccupazione».

L’assunto di base non è cambiato: per tornare a crescere l’Ue chiede misure incisive che rafforzino la competitività, in un quadro di stabilità fiscale. Commissione e Consiglio si sono però (finalmente) convinti che occorre considerare anche il problema dei costi. Quelli sociali, innanzitutto, ossia le ripercussioni di austerità e riforme sui bilanci delle famiglie, sull’occupazione, sui livelli di povertà e diseguaglianza e, non da ultimo, sul consenso sociale e dunque la legittimazione politica della stessa Unione. In secondo luogo, vanno considerati i costi finanziari di alcune delle riforme necessarie. Pensiamo alle politiche attive del lavoro, al rafforzamento del capitale umano, alla promozione dell’occupazione femminile: senza soldi non si possono certo creare asili o centri per l’impiego, rafforzare scuola, università e ricerca, espandere i servizi di conciliazione, ridurre il cuneo fiscale e così via. Con i vincoli attuali, i paesi con finanze pubbliche sotto stress (fra cui l’Italia) possono permettersi solo riforme a costo zero: condizione necessaria ma non sufficiente per far attivare il circolo virtuoso della crescita inclusiva.

L’idea che si sta facendo strada è quella degli «accordi contrattuali». I paesi in difficoltà potranno stipulare con Bruxelles dei patti a tempo. Da un lato, la Ue contribuirebbe a finanziare investimenti pubblici (anche nel sociale). Dall’altro i paesi membri concorderebbero con la Commissione la natura e il timing di queste operazioni, che sarebbero monitorate da vicino in modo da evitare sprechi e opportunismi. Da dove verrebbero le risorse? Qui sta il nodo. Il bilancio Ue è già tutto impegnato e i governi hanno appena deciso, incredibilmente, di ridurlo nel quinquennio 2014-2019. Su questo fronte l’unica strada è quella di modificare la struttura interna della spesa comunitaria, comprimendo alcune voci per fare spazio ai nuovi strumenti di sostegno. La Commissione sta elaborando anche proposte più ambiziose, come quella di istituire un fondo straordinario, magari in collaborazione con altre istituzioni finanziarie internazionali. Ma i tempi rischiano di essere molto lunghi, mentre serve agire subito. Almeno in linea di principio, vi sarebbe anche una seconda strada: Bruxelles potrebbe concedere deroghe temporanee agli impegni di finanza pubblica già concordati con i paesi membri. Per esempio, la Ue potrebbe dire all’Italia: se investi in misure serie per competitività e occupazione giovanile, ti consento di deviare per due o tre anni dal percorso di risanamento già definito. Naturalmente sono possibili anche soluzioni miste: un po’ di risorse dalla Ue, un po’ di deficit nazionale.

In seno alla Commissione e (soprattutto) al Consiglio si fronteggiano posizioni molto diverse. In pubblico nessuno si dice contrario alla necessità di modificare il paradigma dell’austerità, ma la strada degli accordi contrattuali ha molti nemici. Francia e Germania hanno recentemente scritto un documento congiunto che è un capolavoro di ambiguità. Si chiede a gran voce il rafforzamento della dimensione sociale dell’Unione monetaria (spinta di Parigi) ma di fatto si propone solo maggior coordinamento delle politiche nazionali, senza alcun riferimento agli accordi contrattuali (contro-spinta di Berlino). Barroso e Van Rompuy stanno cercando una mediazione più ambiziosa. La partita è apertissima e il primo match avrà luogo proprio nel Consiglio di giovedì e venerdì prossimi.

La credibilità riguadagnata durante il 2012 potrebbe consentire all’Italia non solo di svolgere un ruolo di primo piano in questo delicatissimo gioco, ma anche di candidarsi fra i paesi pionieri per sperimentare un accordo contrattuale. Mario Monti aveva esplicitamente annunciato un’iniziativa in tal senso prima delle elezioni e c’è da augurarsi che vada avanti, a dispetto del nuovo quadro politico. Per tranquillizzare i mercati, l’altro Mario (Draghi) ha detto che la politica economica italiana può procedere per un po’ con il «pilota automatico». Peccato che il problema non sia solo il pilota, ma anche la benzina. Senza risorse, l’Italia non può rimettersi in marcia. E oggi l’unico distributore disponibile è situato a Bruxelles. Il solo modo per fare rifornimento è avere dei leader politici credibili, capaci di proporre, negoziare, decidere. E, innanzitutto, di dedicare a questa sfida tutta l’attenzione che merita, cosa di cui non si vede purtroppo alcuna traccia.

 

Il presente articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera dell’11 marzo 2013