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La nuova Commissione europea si è insediata da solo poche settimane nel palazzo del Berlaymont. La Presidente, la tedesca Ursula von der Leyen, sembra tuttavia avere le idee chiare sulle priorità dei prossimi cinque anni. Già nelle lettere d’incarico inviate ai commissari designati a settembre 2019, gli obiettivi delineati erano ambiziosi. Su tutti, certamente, il capitolo che ha destato maggiormente l’attenzione mediatica è il cosiddetto Green Deal, il “patto verde” che ha lo scopo di accompagnare gli Stati membri nella transizione verso la “neutralità climatica” dell’Unione europea entro il 2050, attraverso la riduzione delle emissioni di biossido di carbonio, la parziale eliminazione dall’atmosfera di quelle emesse e lo sviluppo di fonti di energia più pulite e di tecnologie verdi. Accanto al Green Deal, la Commissione ha lanciato un altro patto, altrettanto ambizioso, che ha lo scopo di far sì che la conversione ecologica possa essere anche una transizione giusta, a beneficio di tutti i cittadini. La sfida ambientale viene così esplicitamente connessa alla necessità di adeguare, consolidare e rafforzare i sistemi di welfare europei alle nuove strategie di sviluppo sostenibile.

L’Europa e la sfida della “giusta transizione”

La comunicazione della Commissione dal titolo “A strong Social Europe for Just Transitions”, pubblicata il 14 gennaio 2020, affronta in modo diretto questo tema. Il testo può essere considerato come una sorta di agenda sociale per il 2020 e 2021. Le proposte elencate sono numerose (per una sintesi si veda la figura 1) e toccano il tema del rafforzamento dell’Europa sociale, della promozione dell’occupazione e dell’uguaglianza di opportunità, della definizione e tutela di condizioni di lavoro eque e del rafforzamento dei sistemi di protezione e inclusione sociale.

Figura. 1 L’agenda sociale delle Commissione europea 2020-2021

Fonte: Commissione europea

Soffermandoci sulle proposte più chiaramente riconducibili all’ambito delle politiche sociali, tre meritano particolare attenzione: l’iniziativa per un salario minimo europeo, la creazione di uno schema europeo di disoccupazione e l’istituzione di una Garanzia per i minori.

Il salario minimo

L’obiettivo di un’iniziativa sul salario minimo europeo è quello di garantire a tutti i lavoratori europei livelli minimi di retribuzione che permettano il rispetto di standard di vita dignitosi. Questo non significa stabilire un salario minimo a livello europeo, ma individuare, in concertazione con le parti sociali e nel rispetto delle tradizioni di contrattazione nazionale, un livello minimo nazionale del compenso orario di ogni lavoratore. Si tratta quindi di una misura principalmente rivolta a garantire a tutti i lavoratori, a prescindere dal contratto, standard di vita dignitosi, e – allo stesso tempo – di uno strumento per diminuire l’asimmetria in termini di salari tra Paesi dell’Est e dell’Ovest, che spesso si traduce in concorrenza sleale tra imprese e, soprattutto, nella riduzione della protezione sociale dei lavoratori. Qualora tale iniziativa venisse effettivamente promossa, essa finirebbe con l’intersecare il dibattito sul tema attualmente in corso nel Parlamento italiano, muovendosi soprattutto nella direzione suggerita dalla proposta del senatore DEM Tommaso Nannicini.

Schema europeo di disoccupazione

La proposta di Schema europeo di contrasto al rischio economico della disoccupazione, di cui una prima bozza è prevista entro la fine del 2020, fa riferimento a un meccanismo di ri-assicurazione degli schemi nazionali di disoccupazione. Tale schema fungerebbe da fondo di emergenza a disposizione di quegli Stati severamente colpiti da crisi economiche. Esso perseguirebbe due obiettivi: tutelare i disoccupati e contenere il rischio di gravi squilibri macro-economici. Si tratterebbe dunque di una misura che interesserebbe molto probabilmente da vicino il nostro Paese in caso di recessione, data la già ampia esposizione delle finanze pubbliche italiane agli effetti derivanti dall’elevato debito pubblico e delle cattive condizioni del mercato del lavoro.

Garanzia per i minori

La proposta di istituire una Garanzia europea per i minori ha invece il duplice obiettivo di contrastare la povertà e l’esclusione sociale tra i bambini residenti dell’Unione europea, in particolare i più svantaggiati (ad esempio, orfani, minori in famiglie disagiate o situazioni economiche precarie, disabili e migranti), consentendo a questi ultimi l’accesso gratuito ad assistenza sanitaria, istruzione di qualità, assistenza all’infanzia, un’abitazione dignitosa e un’alimentazione adeguata. Questo strumento funzionerebbe in maniera simile all’attuale Garanzia Giovani, operando attraverso una raccomandazione agli Stati membri e un fondo destinato a co-finanziare l’implementazione di misure. In Italia solo di recente ci si è mossi in maniera esplicita su questo fronte attraverso l’adozione di politiche nazionali strutturali volte al contrasto della povertà, l’utilizzo del Fondo di aiuti europei agli indigenti, le riforme in materia di servizi di educazione e istruzione dell’infanzia e, infine, la costituzione dell’impresa sociale “Con i Bambini”. L’iniziativa europea potrebbe dunque rappresentare, se ben sfruttata, un’opportunità per potenziare e soprattutto per “mettere a sistema” le forme di intervento già avviate che presentano ancora numerose criticità.

Un percorso tortuoso

L’agenda sociale indicata dalla Commissione europea per i prossimi anni appare piuttosto ricca, soprattutto se si considera anche la volontà di definire un piano di azione per l’implementazione del Pilastro europeo dei diritti sociali e di strategie volte a rafforzare i diritti e le tutele sociali dei lavoratori dell’economia digitale. Soffermandoci sulle proposte che abbiamo menzionato, tanto lo schema europeo contro la disoccupazione quanto l’introduzione di un’iniziativa europea sul salario minimo sono misure da lungo tempo dibattute a livello europeo, le quali, tuttavia, hanno sempre incontrato veti incrociati.

Il tema del salario minimo è emerso negli anni ’90 per poi tornare nella seconda metà degli anni 2000, ovvero dopo l’allargamento dell’Unione europea ad Est, che ha posto numerosi quesiti sulla compatibilità dei modelli sociali dell’Europa dell’Est (con bassi livelli salariali e bassa densità sindacale) e dell’Ovest (con salari medi più alti e alta densità sindacale). Al momento, il sostegno all’iniziativa è arrivato dalla Confederazione Europea dei Sindacati, mentre l’associazione europea datoriale, BusinessEurope, ha dichiarato la sua contrarietà dal momento che tale iniziativa minerebbe la competitività delle imprese europee. Inoltre, in una lettera pubblica, i ministri del lavoro dei Paesi scandinavi hanno criticato la proposta perché rischia di mettere in discussione il loro modello di contrattazione salariale, abbassando così gli standard sociali.

Per quanto riguarda lo schema europeo di contrasto al rischio economico della disoccupazione, la proposta è emersa a partire dalla seconda metà degli anni ’70, durante i primi dibattiti sulla possibilità di creare un’unione monetaria. Tale idea è tornata in auge a seguito della crisi finanziaria che ha colto l’Unione europea senza gli strumenti di stabilizzazione automatica necessari per alleviare gli effetti della crisi. Al momento, il sostegno per l’iniziativa è stato espresso dai governi dei Paesi Sud europei (l’Italia già nel 2014 con l’allora Ministro Padoan fu il primo Paese promotore). Una ferma opposizione è invece arrivata da una coalizione di Stati del Nord Europa, guidati dai Paesi Bassi, che temono che uno strumento di redistribuzione a livello europeo possa spingere i Paesi meno virtuosi a non adottare le riforme strutturali necessarie alla crescita. Sulla proposta si registrano infine anche le posizioni scettiche di alcuni sindacati nazionali, soprattutto quelli dei Paesi scandinavi, preoccupati delle eventuali ripercussioni sulla governance dei fondi di disoccupazione da loro direttamente gestiti.

La Garanzia europea per i minori è invece una proposta recente, avanzata dal Parlamento Europeo nel 2016 per far fronte alla crescita sempre più allarmante della povertà minorile in UE (secondo Eurostat il 26,4% dei bambini che vivono nell’Unione Europea, cioè circa 28 milioni, sta vivendo o è a rischio di vivere in condizioni di povertà o esclusione sociale). La proposta, portata avanti dal gruppo dei socialisti e democratici ha condotto inizialmente al finanziamento di uno studio di fattibilità, il cui rapporto intermedio è stato pubblicato nel gennaio 2020. Successivamente, grazie a un emendamento portato avanti dall’eurodeputato Brando Benifei (PD), la Garanzia per i minori è stata inserita all’interno della posizione ufficiale del Parlamento europeo sul prossimo bilancio europeo per il periodo 2021-2027 con una dotazione di 5,9 miliardi di euro, nonostante la forte opposizione dei deputati liberali e conservatori del Nord Europa e dei gruppi euroscettici. In particolare, gli oppositori di questa misura sostengono che si tratta di un ulteriore programma che comporterà un aumento dei trasferimenti degli Stati Membri all’Unione. Trasferimenti che – aspetto che i critici della Garanzia per i minori dimenticano di menzionare – sono destinati però a ritornare agli stessi Stati sotto forma di co-finanziamenti e investimenti in servizi di cui beneficiano i cittadini.


Europa sì, ma gli Stati devono fare la loro parte

Al momento non possiamo ancora sapere se le proposte lanciate dalla Commissione troveranno il consenso necessario. Tutto dipenderà dalla volontà dei governi nazionali di proseguire effettivamente sulla strada indicata. Dalla lettura della recente Comunicazione sulle “giuste transizioni” emergono comunque due aspetti interessanti.

Primo, la Commissione europea ha proposto un’agenda sociale ambiziosa scegliendo di porsi nel solco delle iniziative avviate dalla precedente Commissione Juncker, in particolare il Pilastro europeo dei diritti sociali. L’intenzione di von der Layen è dunque quella di voler consolidare e rafforzare il lento processo di cambiamento avviato negli ultimi anni nell’ambito delle politiche sociali europee. Al di là delle iniziative al momento solo prefigurate, è lo stesso registro comunicativo della Commissione che appare nettamente diverso dal linguaggio usato negli anni della Grande Recessione. L’obiettivo è – almeno a parole – dare maggiore visibilità e status ai diritti sociali in quanto tali e non come semplici derivati della creazione di ricchezza e crescita economica. Parlare di transizione giusta significa porre l’accento sul tema delle diseguali ricadute sociali della possibile svolta green, ma anche delle diseguaglianze di riconoscimento che interessano il giusto valore da dare al ruolo e alle aspirazioni delle persone all’interno della comunità politica.

Secondo, buona parte della Comunicazione fa riferimento a misure che, se realizzate, prevedono il rafforzamento e l’avvio di strategie volte ad assicurare alcune specifiche “garanzie sociali”, quali quelle alla formazione continua, al supporto alle riconversioni professionali, al contrasto alla povertà minorile e alla disoccupazione giovanile. Le garanzie sociali, come spiega Maurizio Ferrera nel volume "La società del Quinto Stato", sono dunque diritti alla fruizione di servizi “capacitanti” efficaci, ovvero non semplici diritti formali, ma “specifiche risorse, strutture, programmi che consentano l’esercizio effettivo dei diritti”.

In conclusione, gli ostacoli sulla strada della giusta transizione sono numerosi e chiamano in causa una pluralità di attori. Vi sono due condizioni necessarie affinché l’ambizioso piano della Commissione europea possa sperare in qualche risultato tangibile. La prima condizione riguarda la messa a disposizione di adeguate risorse finanziarie, tema sul quale i governi europei sono stati fortemente divisi negli ultimi mesi di negoziazione del Quadro Finanziario Pluriennale 2021-27 dell’Unione europea. La seconda condizione, che sfugge anch’essa al diretto controllo della Commissione, è invece relativa alla qualità dei governi nazionali e locali. Per attuare una “giusta transizione” e per poter godere di effettive garanzie sociali occorrono infatti capacità di visione, di progettazione strategica e di efficace implementazione dei servizi. Si tratta di capacità molto carenti nella classe politico-dirigenziale italiana. L’occasione offerta dalla just transition potrebbe essere colta proprio per muovere in tale direzione, evitando di continuare a lamentarci solamente dei limiti dell’azione europea.