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Maurizio Ferrera, opinionista del Corriere della Sera, è uno dei massimi esperti di Welfare State, noto e apprezzato a livello internazionale. Insieme, è un grande conoscitore dei meccanismi decisionali dell’Unione Europea: Bruxelles è casa sua. E oltre ad essere uno scienziato sociale — dunque scrupoloso analista dei fatti e delle istituzioni — è un teorico politico, che riflette sulle grandi tendenze evolutive che da quelle analisi ricava. È infine un filosofo politico, uno degli ultimi allievi di Norberto Bobbio. Naturale dunque aspettarsi molto da questo suo ultimo libro Rotta di collisione. Euro contro Welfare? (Laterza). Le attese non vengono deluse.

«L’edificazione del Welfare State a livello nazionale e l’integrazione sempre più stretta tra i Paesi del vecchio continente — scrive Ferrera — sono stati gli obiettivi politici e ideali più salienti del secondo Novecento. Nell’ultimo ventennio queste due costruzioni istituzionali sono entrate in una crisi profonda e, quel che è peggio, sembrano aver imboccato una rotta di collisione». Ne sono testimonianza quattro linee di tensione che ormai da qualche anno segnano il panorama politico europeo: 1) euro-austerità vs protezione sociale; 2) Nord vs Sud, ossia Paesi «creditori» vs Paesi «debitori»; 3) Ovest vs Est, ossia il tema dell’immigrazione e dell’accesso al welfare da parte dei cittadini della «nuova Europa»; 4) «Bruxelles» (le istituzioni sovranazionali) contro Stati membri e «la loro sovranità in ambiti ritenuti cruciali come le pensioni e il mercato del lavoro».

Il libro parte da una illustrazione di questi conflitti e prosegue con una discussione delle cause che hanno attivato la «collisione» per affrontare infine la domanda cruciale: è possibile promuovere una riconciliazione tra «Welfare» ed «Europa», salvaguardando così i tratti essenziali del modello sociale europeo anche nel contesto di una «unione sempre più stretta» tra Paesi che usano la stessa moneta? La risposta dell’autore è positiva. La riconciliazione è possibile, ma richiede un ambizioso lavoro intellettuale (valori, idee) e politico (costruzione del consenso e riforme istituzionali). Il messaggio di base è che l’Unione non può restare soltanto uno «spazio» economico-finanziario, ma deve diventare anche un «posto», un «luogo», un terreno comune di condivisione, capace di ispirare fiducia e nel quale i singoli cittadini (e i vari demoi, le comunità nazionali, nei quali ancora si raggruppano) possano sentirsi davvero a casa propria.

La parte da scienziato politico e sociale, quella più descrittiva e analitica («Europa e Welfare: incontro o scontro?»), occupa il primo lungo capitolo: è in questo che si spiega come siano sorte e si siano intensificate — dopo la crisi finanziaria americana del 2008 — le quattro «linee di tensione» accennate più sopra, dopo quasi un decennio di Unione monetaria in cui tutto sembrava andar bene e ben pochi pensavano all’insorgenza di tensioni così gravi. La stessa storia viene poi ripresa a un livello più generale nei due capitoli successivi («Ripensare il Welfare, ripensare l’Europa» e «Ragion di Stato contro Ragion di Mercato»), dove è il Ferrera teorico politico che soprattutto parla e inizia a parlare anche il filosofo, a dare giudizi normativi e a proporre soluzioni. Per questi due cruciali capitoli temo di non essere il recensore critico più adatto, perché il mio consenso come political economist e come sostenitore di valori politici liberal-democratici è completo. Anch’io sono convinto che l’Unione Europea e il Welfare State siano stati due tappe fondamentali di quel drammatico processo di civilizzazione — drammatico perché sovente interrotto — che l’Europa ha conosciuto a partire dall’Evo Moderno: la costruzione prima e poi il tentativo di superamento degli Stati nazionali; il passaggio da un ordine politico costituzional-liberale ad uno liberal-democratico. Un passaggio in cui la costruzione del Welfare State nazionale, nel secondo dopoguerra, fu un momento essenziale. Ma un passaggio problematico, perché la cornice nazionale del Welfare State si sta mostrando molto resistente, assai difficile da allargare al contesto sovranazionale dell’Unione Europea. Di qui la «rotta di collisione» di cui parla Ferrera.

Le forze che spingono verso la collisione sono essenzialmente due, operanti insieme. La prima e principale sta nei legami di solidarietà e di fiducia tra cittadini che sono necessari per sostenere un sistema di welfare: possono non arrivare all’intensità che sostiene la «casa comune», la Folkhemmet, sulla quale si basa il generoso sistema svedese, ma ci devono essere e per ora ci sono solo a livello nazionale. Solo la nazione, e non sempre, è un «posto», un «luogo», e non uno «spazio» in cui gli individui interagiscono guidati da regole di condotta puramente formali, come in una strada o in un aeroporto. E c’è voluto molto tempo — e molti sforzi e conflitti — per costruire quei legami, un faticoso processo di Nation Building: si pensi solo alla costruzione della nazione americana, i cui singoli Stati pur partivano dalle condizioni straordinariamente favorevoli di una stessa storia, lingua e cultura. Eppure, per fare degli Stati Uniti un vero «luogo», ci sono voluti Lincoln e Roosevelt, la più sanguinosa guerra dell’Ottocento e la più grande depressione del Novecento.

Anche perché, e qui opera una seconda forza, strettamente legata alla prima, per costruire uno Stato che eserciti potere legittimo su un intero territorio sulla base di regole liberal-democratiche — un vero governo, responsabile di fronte a un parlamento composto da partiti eletti da tutti i cittadini europei — occorre un sufficiente livello di coesione sociale. Ma i partiti, nel loro tentativo di prevalere l’uno sull’altro, possono profittare delle insoddisfazioni dei cittadini per stimolare e assecondare pulsioni populiste e anti-europee. Tendenze anti-unitarie, l’illusione di star meglio in una casa piccola e calda che non in una casa grande e aperta al mondo, sono oggi evidenti in Europa persino in Stati nazionali di lunga storia — si pensi alla Gran Bretagna, o alla Spagna o, in Italia, alle richieste della Lega di pochi anni fa. Facile immaginare le difficoltà che affronta quello strano embrione di Stato che è l’Unione Europea sulla strada che dovrebbe portarla ad una ever closer Union.

Sono tanti gli studiosi e i politici — quelli che hanno sinceramente a cuore i due grandi obiettivi dell’Unione Europea e del Welfare State — a riflettere su queste difficoltà. Per superarle la strategia scelta da Ferrera è insieme paziente e radicale: esplorare i principi etico-normativi che possano lentamente indurre i popoli (e i politici) europei a riconoscere la comune esigenza di un bilanciamento delle ragioni di responsabilità economica e di solidarietà su cui deve basarsi l’Unione. A spingerli ad uscire dalla gabbia d’acciaio di una burocrazia invadente e politicamente irresponsabile e dalla asfissiante «Ragion di Mercato» in cui l’Unione si è rinchiusa. Però senza voler scaricare sui vicini compiti che ricadono su ogni singolo Stato, ciò che condurrebbe al fallimento l’intero progetto. Il processo politico suggerito («La via d’uscita: riconciliare e sistemare» è il titolo del quarto e ultimo capitolo) non richiede un demos che attualmente non c’è, ma è possibile anche per tanti demoi legati solo da vincoli di «buon vicinato e sobria fratellanza», consapevoli che l’aiuto reciproco è conveniente per tutti nel lungo periodo. Qui non mi è possibile neppure dare un’idea del modo raffinato e persuasivo in cui Ferrera affronta questi delicati problemi normativi e li lega a scelte politiche concrete e incombenti. Mi preme solo sottolineare che è il primo a sapere che le cose potrebbero andar male se i popoli europei ascoltassero le sirene di leader populisti: il titolo delle conclusioni — «Cercansi leader disperatamente» — e sottolineo disperatamente, esprime le preoccupazioni dell’autore.


Questo articolo è stato pubblicato anche sul
Corriere della Sera del 16 febbraio.