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Una situazione incivile

Dopo aver scontato una breve pena detentiva Fëdor Dostoevskij affermò “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. A partire da questa frase l’Italia, oggi, non potrebbe certo vantarsi del proprio livello di civiltà, ma anzi avrebbe moltissimo di cui vergognarsi. Un rapporto stilato dal Consiglio d’Europa relativo al sistema detentivo dei 47 Stati che lo compongono mette il nostro Paese al terzo posto per sovraffollamento delle carceri. Dopo Serbia e Grecia, siamo la nazione col peggior rapporto posti-detenuti: per ogni 100 posti in Italia ci sono infatti 147 carcerati (fig. 1), quasi il 50% in più di quelli che potrebbero essere ospitati.


Figura 1: Rapporto posti-detenuti, 2011


FONTE: Space I, Council of Europe Annual Penal Statistic (2012)

Anche se in Italia il numero di detenuti rispetto alla popolazione complessiva risulta essere notevolmente sotto la media degli altri Paesi europei (fig. 2), appena 110 detenuti ogni 100mila abitanti, le nostre strutture di detenzione risultano profondamente inadeguate per ospitarli tutti. Secondo la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo i carcerati italiani spesso non hanno neanche a disposizione lo spazio minimo per vivere dignitosamente – 3 metri quadrati – un limite al di sotto del quale si può apertamente parlare di tortura.


Figura 2: Rapporto popolazione nazionale-detenuti, 2011


FONTE: Space I, Council of Europe Annual Penal Statistic (2012)

A fronte di una capienza massima di circa 45mila posti, sono infatti 67mila gli individui incarcerati. Un contesto di forte degrado, che vede celle da una o due persone riempite fino all’inverosimile, con sei o sette persone stipate in pochi metri quadrati. Una situazione insostenibile, che il Consiglio d’Europa ha chiesto di risolvere entro tempi brevissimi. L’Italia ha a disposizione un anno, che scadrà il prossimo 24 maggio 2014, per non incorrere in sanzioni.

Possibili soluzioni al problema del sovraffollamento

Una soluzione, che si ripropone ciclicamente da oltre un ventennio, potrebbe essere la costruzione di nuove strutture di detenzione. Questa ipotesi tuttavia appariva economicamente poco percorribile già prima della crisi attuale, e c’è quindi da chiedersi quale sia la sua fattibilità un momento in cui le risorse a disposizione sono sempre più esigue. Un’altra possibile strada potrebbe essere quella dell’indulto o dell’amnistia, ma forti sono i dubbi circa gli effetti strutturali di questo tipo di provvedimenti. Nel breve periodo si potrebbe arrivare ad un accettabile rapporto posti-detenuti, sicuramente più umano dell’attuale, ma sul lungo periodo, come mostrano anche i precedenti provvedimenti (basti pensare agli indulti del 2003 e 2006), l’effetto positivo andrebbe dissolvendosi abbastanza velocemente. Da alcuni mesi si discute anche della possibilità di pensare a forme di detenzione alternativa per parte dei 14mila detenuti ancora in attesa del primo grado di giudizio. Tuttavia sono diversi gli ostacoli che andrebbero rimossi per attuare provvedimenti in tal senso, in particolare le contrapposizioni tra le maggiori forze politiche presenti in Parlamento. Dove guardare allora per provare a risolvere il problema rapidamente e attraverso una spesa economica sostenibile in questo momento di crisi? Una strada che potrebbe essere percorsa in tempi relativamente brevi per sfoltire il numero di detenuti e migliorare la qualità della vita di chi è carcerato potrebbe essere quella del lavoro in carcere.

Lavoro in carcere: di cosa si tratta

Il sistema detentivo italiano prevede la possibilità per i detenuti di svolgere i cosiddetti “lavori domestici”, attività saltuarie – quindici giorni ogni quarantacinque per circa 3 ore al giorno – che i carcerati svolgono in cucine e lavanderie delle case circondariali o occupandosi di servizi di pulizia interni. Questi lavori sono remunerati, ma la gran parte dell’irrisorio stipendio garantito dallo Stato torna allo Stato stesso. Ogni detenuto, infatti, oltre a pagare attraverso la pena detentiva, paga il vitto e l’alloggio all’amministrazione carceraria. Poco meno di 2 euro al giorno, che però moltiplicati per mesi o anni di prigione possono diventare una spesa consistente. Lo Stato permette quindi di svolgere lavori utili, ma difficilmente questi possono essere identificati come parte del percorso rieducativo sul quale dovrebbe basarsi l’organizzazione carceraria. I lavori domestici coinvolgono solo una parte dei carcerati e raramente creano competenze spendibili all’esterno, una volta scontata la pena.

Una parte di detenuti, tuttavia, ha la fortuna di poter svolgere un lavoro “vero”, un lavoro formativo che li impegna a tempo pieno e garantisce loro uno stipendio dignitoso pari, per legge, ad almeno 2/3 di quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro. All’interno dei penitenziari italiani sono circa 800 i carcerati che lavorano presso call center, laboratori o officine costruite tra le mura delle strutture detentive, e 700 quelli che hanno permessi per lavorare all’esterno durante il giorno e rientrano in carcere solamente la notte. Le attività svolte da questi detenuti sono gestite da cooperative sociali operanti sia all’interno che all’esterno delle carceri che negli anni, nonostante tante difficoltà legate alla burocrazia e alla diffidenza nei confronti del loro operato, sono riuscite a creare vere e proprie aree di eccellenza all’interno delle case circondariali. Ci eravamo occupati di alcune di esse – come la cooperativa Giotto di Padova o l’esperienza di Esodo a Verona, Belluno e Vicenza – in un nostro precedente articolo (Vigilando redimere: l’impresa sociale all’interno del sistema carcerario) che vi invitiamo a rileggere.

Perché conviene?

Perché l’allargamento dell’esperienza lavorativa formativa in carcere, attualmente garantita a solo il 2.2% della popolazione detenuta, potrebbe costituire un vantaggio per il sistema? Anzitutto, in questo modo, far lavorare i detenuti non significa fare assistenzialismo, trovando loro una modalità con cui riempire il tempo, ma vuol dire investire in un ambito che potrebbe permettere all’erario di risparmiare milioni di euro. Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per ogni detenuto vengono spesi all’incirca 3.500 euro al mese che, moltiplicati per i 67mila soggetti che attualmente si trovano nelle case circondariali italiane, portano a una spesa complessiva annua vicina ai 3 miliardi di euro.

Un detenuto che lavora percepisce uno stipendio, utilizzato anche per coprire spese legate alla vita carceraria, e produce ricchezza laddove normalmente non si produce nulla. Così chi lavora in un laboratorio o in una officina all’interno delle mura carcerarie impara un mestiere e contribuisce attivamente al Pil del Paese. E, soprattutto, permette al detenuto di riqualificarsi, formarsi, imparare un lavoro ed evitare, una volta uscito, di tornare a delinquere. Il fattore più interessante legato al lavoro in carcere è riscontrabile proprio nel crollo del tasso di recidiva. In Italia la percentuale di chi torna a delinquere una volta uscito dal carcere, secondo i dati del Ministero della Giustizia, è pari al 68%. Questa percentuale è però calcolata solo sui reati dei quali viene scoperto il colpevole, che sono solo il 21% di quelli denunciati, e nella realtà la recidiva si aggirerebbe intorno al 90%. Quasi tutti quelli che escono dal carcere, presto o tardi, sono destinati a tornarci.

Chi però nel corso del periodo di detenzione ha svolto un’attività lavorativa continuativa e formativa difficilmente torna dietro le sbarre. Il tasso di recidiva di chi ha svolto un lavoro “vero” mentre scontava la pena è infatti pari ad appena il 2%, 88 punti sotto la media. Basta questo dato per capire il potenziale enorme del lavoro. Se, allargando l’esperienza lavorativa, il tasso risultasse anche 10 volte superiore a quel due percento sarebbe comunque un successo enorme. Meno persone che entrano e escono in maniera quasi automatica dal carcere potrebbero garantire una diminuzione notevole del numero complessivo di detenuti, con consistenti risparmi da parte dello Stato.

Una questione di ragionevolezza e di costituzionalità

Dopo aver brevemente analizzato questi dati lascia l’amaro in bocca scoprire che lo Stato destina appena l’1.9% del budget penitenziario al “lavoro”, e che la maggior parte di queste risorse è indirizzata ai cosiddetti “lavori domestici”. Basterebbero infatti investimenti minimi per garantire alle imprese sociali operanti nell’ambito carcerario di sviluppare programmi di lavoro appropriati, e diffondere modelli che in diverse carceri italiane sono delle vere e proprie eccellenze. La spesa maggiore per lo Stato sarebbe probabilmente legata alla predisposizione di spazi adeguati alla creazione di ambiti lavorativi idonei. Non molto contando quanto lo Stato spende per un apparato che fa acqua da tutte le parti.

Basterebbe un piccolo sforzo per dare il là a un sistema che, oltre a poter permettere di diminuire il numero di detenuti all’interno del nostro sistema carcerario, potrebbe anche migliorare la qualità della vita di chi è dietro le sbarre. Chi svolge un lavoro acquisisce competenze e conoscenze, ma soprattutto riacquista una dignità che il carcere, soprattutto in questo particolare frangente storico, tende a comprimere. Questo processo permetterebbe tra l’altro di tornare a rispettare l’articolo 27 della Costituzione – “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” – e riacquistare, forse, un grado di civiltà adeguato alla nostra storia.

 

Riferimenti

Space I, Council of Europe Annual Penal Statistic

L’elenco delle cooperative sociali operanti in carcere 

I dati relativi al costo del sistema carcerario su Due città, Rivista dell’Ammnistrazione Penitenziarie, ottobre 2012

Il nostro precedente approfondimento: Vigilando redimere: l’impresa sociale all’interno del sistema carcerario

Carceri, l’unica soluzione è il lavoro. Articolo di Michele Brambilla su La Stampa, parte di una più ampia inchiesta che consigliamo di leggere.

 

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