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Dal Rapporto CNEL sul Mercato del Lavoro e la Contrattazione Collettiva del 2018 emergono dati non ovviamente esaustivi ma sintomatici, che andranno riesaminati in sede di un’analisi più circostanziata, ma che già forniscono una prima fotografia della realtà del Paese:

  • le retribuzioni orarie non diminuiscono, quelle mensili e annuali sì. Ossia, molta gente lavora meno dell’orario contrattuale standard (e guadagna meno di conseguenza);
  • nell’industria cresce l’occupazione qualificata, mentre in agricoltura e commercio-turismo quella sottoqualificata;
  • quantitativamente creano più occupazione i comparti a basso valore aggiunto e a scarsa professionalità dell’occupazione.

La domanda spontanea è: il mercato del lavoro si sta spaccando in due? E non solo lungo la storica faglia Nord-Sud, ma anche lungo nuove faglie che si intersecano e più spesso si sovrappongono: grande-piccola impresa, import-export, informatizzata-tradizionale, ecc. E questo in un periodo economicamente contrassegnato da indici positivi e di crescita non clamorosi ma costanti? Gli indicatori dicono di sì: il dato più evidente è che, mentre il numero degli occupati sale fino a raggiungere quello ante-crisi (e nel caso delle donne raggiunge percentuali record), non crescono allo stesso ritmo le "unità di lavoro" (cioè i posti di lavoro equivalenti teorici full time) e le ore lavorate. Fatto 100 l’indice 2008, le unità di lavoro al secondo quadrimestre 2018 sono ancora al 96, e le ore lavorate poco sotto il 94. Si tratta di un effetto dell’aumento della produttività? In buona parte: dal 2010 la produttività del lavoro ha guadagnato 5%, che più o meno giustifica il minore ricorso all’occupazione e alle ore lavorate. Ma vuole anche dire che il lavoro non cresce in termini reali.

Anche la composizione del mercato del lavoro sta subendo una mutazione: la proporzione tra profili professionali bassi, intermedi e alti sta modificandosi in direzione della classica figura a clessidra tipica della quarta rivoluzione industriale. Nel periodo della ripresa post-crisi le qualifiche superiori sono aumentate di poco più dello 0,5%, quelle più basse del 1% e quelle intermedie diminuite di quasi il 2%. Ma è interessante notare come questo esito sia la somma algebrica tra situazioni molto differenti: nel Nord le qualifiche elevate salgono del 1,3% e quelle più basse solo dello 0,6%; al Sud quelle più basse aumentano di oltre il 2% e quelle più elevate scendono di 1,2%.

Il comparto che ha avuto la maggior crescita occupazionale (occupati, non unità di lavoro) è il settore "turismo e ristorazione", con + 2,2% di occupazione, di cui oltre 4/5 di bassi profili professionali. In agricoltura il 100% dell’incremento occupazionale è dovuto a bassi profili. Nell’industria invece l’aumento occupazionale di quasi l’1% è dovuto per la maggior parte proprio ai profili intermedi e quasi per niente ai bassi profili. Da notare che, in assenza di specifiche incentivazioni o disincentivazioni, le aziende con meno di 15 occupati tendono ad assumere con contratti a termine, mentre quelle over 15 sono più propense ad assumere a tempi indeterminato, incrementando così la forbice tra lavoro ad alta-bassa qualifica e alti-bassi salari di fatto tra grande e piccola impresa.

Le retribuzioni di fatto mostrano una forbice che non tende a ridursi: esaminiamole utilizzando tre parametri (dati ISTAT). La retribuzione lorda oraria media (intesa come media aritmetica) è di 13,97 euro, con il 10% più basso che si colloca sotto 8 euro (quindi sotto i minimi contrattuali correnti) e il 10% più alto sopra i 21 euro; le retribuzioni orarie lorde variano sensibilmente a seconda dell’area geografica: la media della Lombardia è superiore del 21% a quella della Calabria; anche le dimensioni dell’impresa mostrano una forbice notevole della paga oraria: le aziende con più di 250 occupati pagano oltre il 50% in più rispetto a quelle sotto i 10.

In generale, la retribuzione mediana (corrispondente al 5° decile) è di 11 euro, quindi tra la mediana e il decile più basso c’è una differenza di soli 3 euro, mentre con il decile massimo il delta è di ben 11 euro: questo dato ci consegna un diagramma in cui le differenze retributive orarie crescono con moderata progressività dal primo al settimo decile (circa un euro in più per decile) per poi aumentare bruscamente nei due decili più alti. Ma l’effetto forbice appare più evidente se prendiamo in considerazione la retribuzione mensile e annuale invece di quella oraria: il lavoro povero (ossia chi guadagna meno di 7,5 euro per ora lavorata) in ambito di lavoro dipendente è determinato per circa 18% da una bassa retribuzione oraria, ma per oltre il 50% da basso reddito mensile (essenzialmente dovuto a part time) e/o annuale (dovuto a part time o lavoro discontinuo).

Una causa correlata a quelle finora elencate dell’effetto forbice è individuabile nel proliferare esasperato dei Contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL): nel 2005 quelli registrati dal CNEL erano poco meno di 300, nel 2018 sono diventati ben 761. Molto difficile una comparazione oggettiva dei livelli retributivi, ma è noto e peraltro intuibile che la grande maggioranza dei “nuovi” Contratti sia sottoscritta da organizzazioni sindacali e imprenditoriali borderline, (senza peraltro seguire la procedura indicata dalla “Legge Sacconi” del 2011) al puro scopo di fare dumping contrattuale, limando al ribasso i minimi tabellari sia operando sulle cifre in sé che schiacciando gli inquadramenti, tagliando i coefficienti per il calcolo di straordinari, festività, ecc., eliminando integrazioni e contrattazione di secondo livello e via così. Sarebbe interessante sapere a quanti lavoratori si applicano questi contratti “di comodo”. Con i dati disponibili si può soltanto rilevare che la massima crescita del numero di CCNL si è verificata nei comparti del Commercio (che comprende anche Turismo e Ristorazione) e dell’Edilizia (parliamo di numeri più che triplicati rispetto al 2005), cioè i settori in cui è più diffuso l’utilizzo di lavoro a basso contenuto professionale e a tempo determinato.

In sostanza, siamo di fronte a una situazione in cui la crescita di attività manifatturiere e di servizi innovativi sostenuta dalla digitalizzazione (la quarta rivoluzione industriale) genera occupazione qualificata, ma in numeri non massicci, a causa sia dell’aumento di produttività sia del mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro provocato dall’inadeguatezza dei percorsi formativi. Viceversa, i settori meno dinamici generano numeri occupazionali significativi, ma a bassa qualificazione e bassi salari.

Difficile pensare di affrontarla vietando per legge (si veda in tal senso il Decreto Dignità) lavori discontinui credendo così di generare occupazione stabile e quindi salari più alti. Così come pensare di rendere difficoltoso il part time per indurre occupazione a tempo pieno. Anzi, è utile ricordare che le percentuali di part time e di lavoro a termine dell’Italia sono esattamente in linea con quelle europee. Più utile sarebbe sostenere massicciamente la digitalizzazione delle imprese per ampliare il settore di traino dell’economia (piuttosto che tagliare i finanziamenti di Industria 4.0, come accadrà con la Legge di Bilancio per il 2019); investire sulla formazione del capitale umano (anziché ritornare indietro perfino dall’esperimento alternanza scuola-lavoro); combattere il dumping contrattuale definendo una retribuzione minima di legge; diminuire le imposte sul lavoro e sulle imprese, anziché aumentarle per distribuire assistenza.


L’articolo è stato pubblicato all’interno della piattaforma "IlPunto Pensioni&Lavoro", curato dal Centro Studi e Ricerche "Itinerari Previdenziali", lo scorso 14 gennaio 2018 e qui riprodotto con il consenso dell’autore.