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Il 20 maggio scorso l’Istat ha pubblicato la ventitreesima edizione del Rapporto che, come ogni anno, accende i riflettori sulla situazione socio-economica del Paese. L’indagine 2015 restituisce la fotografia di un’Italia in chiaroscuro, in cui convivono timidi segnali di ripresa del ciclo economico con numerosi elementi critici, primo fra tutti la polarizzazione territoriale fra Nord e Sud della penisola. Vi presentiamo i principali risultati sul fronte sociale.


Il rapporto in breve

La principale novità del Rapporto 2015 è rappresentata dall’introduzione di un nuovo sistema informativo sulle imprese (Frame-Sbs), che raccoglie i dati economici di tutte le imprese attive, e dalla suddivisione del territorio nazionale in 611 “sistemi locali”, aree di geografia funzionale, a loro volta raggruppate in 7 macro-aree, omogenee rispetto a struttura demografica, dinamica della popolazione e forme di insediamento residenziale (Le città del Centro-Nord, La città diffusa, Il cuore verde, I centri urbani meridionali, I territori del disagio, Il Mezzogiorno interno, L’altro Sud).

Il documento, ricchissimo di dati, si articola in cinque capitoli, dedicati, rispettivamente, all’analisi del ciclo economico italiano nel più ampio quadro europeo e internazionale; all’esplorazione dei tessuti socio-economici e produttivi dei sistemi locali; alla descrizione delle caratteristiche e delle trasformazioni del sistema produttivo italiano di fronte alla crisi globale; all’analisi delle dinamiche registrate nel mercato del lavoro; infine, alla mappatura della variabilità territoriale delle condizioni di vita e delle tendenze socio-demografiche osservabili nel Paese.


Economia e lavoro

L’indagine restituisce una fotografia del Paese in chiaroscuro, in cui convivono primi segnali di ripresa del ciclo economico, dopo la lunga fase recessiva, insieme al permanere o all’aggravarsi di numerosi elementi critici, primo fra tutti la polarizzazione territoriale fra Nord e Sud della penisola. Se nel 2014 il PIL italiano ha segnato una nuova flessione (-0.4%), nei primi tre mesi di quest’anno – complice la combinazione favorevole fra la politica monetaria non convenzionale adottata dalla BCE, l’apprezzamento del dollaro e la caduta dei prezzi del petrolio – si registra un primo aumento congiunturale (+0.3%), insieme a una buona dinamica delle esportazioni e a un timido miglioramento del clima di fiducia dei consumatori. Anche grazie all’aumento del reddito disponibile, l’ISTAT segnala inoltre un leggero calo dell’indicatore di grave deprivazione materiale 1, che aveva segnato un brusco aumento tra 2010 e 2012 (quando era più che raddoppiato, passando dal 6.9 al 14.5%), e che oggi (11.4) si assesta su valori simili a quelli registrati nel 2011 (11.1%).

Anche se nel 2014 l’occupazione è tornata a crescere (ma solo al Centro e al Nord), il tasso di disoccupazione, che nel 2013 era stato pari al 12.1%, ha raggiunto il 12.7%, con dati particolarmente preoccupanti per quello giovanile, che ormai sfiora il 43% a livello nazionale e raggiunge picchi di quasi il 56% nel Mezzogiorno. Dati, questi, in controtendenza rispetto allo scenario europeo, dove nel 2014 il tasso di disoccupazione ha fatto registrare il primo calo dal 2008. Il tasso di occupazione segna una variazione annuale positiva (+0.2%), raggiungendo il 55.7%, un dato tuttavia ancora molto lontano da quello UE (64.9%): la distanza potrebbe essere colmata solo con l’ingresso nel mercato del lavoro di altri tre milioni e mezzo di lavoratori; a questo proposito, i dati ISTAT confermano che, benché la crescita dell’occupazione abbia riguardato soprattutto le donne, il tasso di occupazione femminile (46.8%) rimane inferiore al valore medio dei Paesi UE di ben 12.8 punti.


Sanità: il rischio del sottoconsumo

Guardando ai diversi dati e approfondimenti offerti dal Rapporto, alcuni si rivelano particolarmente interessanti dal punto di vista dell’analisi delle politiche sociali e delle dinamiche che attraversano il nostro sistema di welfare. Proviamo a considerarne alcuni più da vicino. La sezione del Rapporto dedicata all’approfondimento del Servizio Sanitario Nazionale (§5.2) si intitola “Eterogeneità territoriali del Sistema sanitario nazionale: equità allocativa e livelli di soddisfazione”.

I dati prodotti in questa parte del Rapporto dimostrano come “[i]l processo di rientro dal debito, cui hanno dovuto far fronte numerose Regioni, associato alla difficile congiuntura economica, ha avuto come conseguenza una riduzione dell’equità nell’accesso alle cure cui si ispira il nostro SSN” (p. 219). A questo hanno contribuito, secondo la ricerca, criteri allocativi delle risorse che contribuiscono a creare un disallineamento tra i bisogni potenziali di assistenza sanitaria della popolazione e l’ammontare del finanziamento pro capite nelle diverse Regioni.

L’analisi, che si avvale dei dati raccolti per la precedente pubblicazione ISTAT Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari, richiama l’attenzione sul fenomeno della rinuncia alle prestazioni sanitarie, che interessa oggi fasce non marginali di popolazione. Stando alle stime prodotte dall’Istituto di Statistica, infatti, il 9.5% degli Italiani non ha potuto fruire di prestazioni che avrebbero dovute essere garantite loro dal SSN (visite o accertamenti specialistici, odontoiatria esclusa, interventi chirurgici e acquisto di farmaci). Anche in questo caso il fenomeno si presenta distribuito in modo eterogeneo sul territorio nazionale: tendendo sotto controllo caratteristiche socio-demografiche e altri fattori che possono esercitare un impatto sulla variabile sotto osservazione, il Rapporto fotografa una netta frattura tra Centro-Nord e Mezzogiorno, con percentuali di rinuncia alla cura che oscillano tra il 6.2% registrato nel Nord-Ovest e il 13.2% nel Sud.

La rinuncia è dovuta o a carenze delle strutture di offerta (tempi di attesa troppo lunghi, orari o sedi scomodi) o a motivi economici: in entrambi i casi, il dato sull’autorinuncia appare emblematico delle difficoltà incontrate dal SSN nel soddisfare i bisogni sanitari della popolazione. Considerando la motivazione economica, nel rapporto si sottolinea come l’introduzione di ulteriori quote di compartecipazione alla spesa sanitaria a carico dei cittadini (ticket), principale strumento messo in campo da molte Regioni nel piano di rientro per raggiungere l’equilibrio di bilancio (anche per contenere la domanda), potrebbe incrementare il fenomeno della rinuncia alle prestazioni, con un conseguente rischio di sottoconsumo sanitario, pericoloso per le condizioni di salute delle popolazione, oltre che un aumento della spesa out of pocket, già particolarmente alta nel nostro Paese.


Come valutano gli Italiani il servizio sanitario pubblico?

La spaccatura fra aree settentrionali e meridionali del Paese si ripropone nella valutazione complessiva del servizio sanitario pubblico: se in totale il 60.8% della popolazione adulta valuta positivamente il SSN, i cittadini che si dichiarano molto soddisfatti raggiungono la quota più elevata al Nord (quasi il 30%), contro meno del 10% al Sud, dove quasi un terzo dei cittadini esprime invece giudizi molto negativi. L’indagine registra inoltre che la polarizzazione territoriale dei giudizi è cresciuta nel tempo, con un aumento, rispetto alla precedente rilevazione (2005), dei molto insoddisfatti prevalentemente nel Mezzogiorno, e dei molto soddisfatti nelle regioni del Centro-Nord.

L’analisi a livello di Asl conferma poi nel dettaglio l’elevata eterogeneità territoriale: i molto soddisfatti raggiungono le percentuali minime in alcune aziende sanitarie campane e calabresi (tra il 2.3 e il 3%) e le percentuali massime nelle Asl delle Province di Trento e Bolzano, dove più del 50% della popolazione si dichiara molto soddisfatta del servizio sanitario pubblico. È interessante notare che le distanze tra Nord e Sud si accorciano (ma non si annullano) quando ai cittadini è richiesto di valutare il SSN non nel suo complesso, ma in base alla qualità dell’ultima visita o accertamento specialistico di cui hanno usufruito: in questo caso, solo in cinque Asl la maggioranza degli interpellati non attribuisce punteggi di eccellenza al servizio effettivamente ricevuto.


Lavoro: cresce il part-time involontario

Si segnalano poi alcuni approfondimenti relativi alle dinamiche del mercato del lavoro, che catturano diversi aspetti problematici della situazione italiana. Un approfondimento del Rapporto (§ 4.1.1) mette in luce come il part time sia l’unica forma di lavoro cresciuta quasi ininterrottamente dall’inizio della crisi (dal 14,3% sul totale degli occupati nel 2008 al 18,4% nel 2014, con un aumento di quasi 800.000 unità). Viene fatto notare che la crescita di questo tipo di rapporto di lavoro non va interpretata tanto come una risposta alle crescenti esigenze di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro degli individui, quanto prevalentemente come una strategia seguita dalle aziende per far fronte alla crisi: il Rapporto documenta infatti un netto incremento del cosiddetto part-time involontario, cioè scelto come ripiego, in mancanza di lavoro a tempo pieno (la sua incidenza è passata dal 40.2% sul totale degli occupati a tempo parziale nel 2008 al 63.6% nel 2014, contro una media del 29.4% dei Paesi UE nell’anno passato). Si tratta di una forma di impiego particolarmente diffusa fra gli atipici, che, come sottolinea la ricerca, si trovano esposti a una doppia vulnerabilità, data dalla combinazione fra svantaggio di una lavoro precario e ripiego su un orario ridotto: non stupisce che i valori di soddisfazione medi espressi da questi lavoratori siano i più bassi (inferiori sia a quelli dei lavoratori a tempo pieno sia a quelli dei lavoratori a tempo parziale volontario). La sezione si conclude osservando che “in questi anni di congiuntura economica sfavorevole, il part-time ha ricoperto e continua a ricoprire un ruolo cruciale. Soprattutto quando involontario, il part -time è stato utilizzato dalle imprese come uno degli strumenti di flessibilità, consentendo il mantenimento di alcune posizioni lavorative e la creazione di nuovi posti di lavoro, ma penalizzando la qualità del lavoro” (p. 164).


La contrattazione di secondo livello

Sempre sul fronte del lavoro, il Rapporto 2015 aiuta a far luce su un altro fenomeno emergente, quello della contrattazione di secondo livello (§ 4.1.3): nelle sue varie forme (aziendale, territoriale, di gruppo e di stabilimento), ha coinvolto nel 2012-2013 il 21.7% delle imprese italiane (il 31.3 se si considera anche la contrattazione individuale); il tipo di contrattazione più diffuso è quello aziendale (praticato nel 12% delle imprese), seguito da quello territoriale (10%). Secondo l’ISTAT, la contrattazione di secondo livello (inclusa quella individuale) consente ai lavoratori coinvolti di percepire incrementi del 15% rispetto al salario medio nazionale (e del 19% nelle imprese che erogano premi di risultato). La probabilità che un’impresa adotti una qualche forma di contrattazione integrativa appare strettamente legata sia alle caratteristiche dell’impresa sia al tipo di lavoro impiegato: la probabilità di contrattazione integrativa aumenta infatti al crescere della dimensione dell’impresa stessa, se questa non è collocata nel Mezzogiorno, e, ma solo con un impatto estremamente limitato, all’aumentare del tasso di sindacalizzazione. La ricerca documenta anche che la presenza di stagisti e tirocinanti ha un impatto positivo solo sulla contrattazione individuale, mentre un contributo negativo alla probabilità che l’impresa adotti una contrattazione di secondo livello si registra al crescere del personale in somministrazione: “all’aumentare della quota della forza lavoro “flessibile”, da un lato l’esigenza per l’impresa di contrattare aspetti accessori al CCNL diminuisce, dall’altro la forza contrattuale della rappresentanza dei lavoratori è in qualche misura depotenziata e l’efficacia nella contrattazione ne risente” (p. 172).


Welfare aziendale e corporate social responsibiity

Grazie all’inserimento di una sezione ad hoc all’interno della Rilevazione mensile sul clima di fiducia delle imprese, quest’anno il Rapporto fornisce anche un’interessante mappatura delle pratiche di welfare aziendale e corporate social responsibility messe in campo dalle imprese manifatturiere, dei servizi e del commercio nel corso del 2014. Lo spaccato offerto dall’analisi del campione permette di stilare una classifica delle pratiche di welfare aziendale più diffuse. In vetta alla graduatoria si collocano le iniziative volte a tutelare la salubrità dei luoghi di lavoro e la sicurezza dei lavoratori (realizzate da quasi due terzi delle imprese commerciali e oltre l’80% delle aziende attive nei settori manifattura e servizi): un dato che non sorprende, se si considera che in molti casi le imprese devono rispettare obblighi di legge in materia; al secondo posto si trovano le attività di formazione professionale e di aggiornamento per i dipendenti, seguite dalle misure destinate a rafforzare la comunicazione interna.

Sul piano più strettamente sociale, si segnalano tutte le misure che hanno l’obiettivo di flessibilizzare l’orario di lavoro e favorire la conciliazione fra i tempi di vita e di lavoro, oltre a quelle che garantiscono un’offerta di “servizi di prossimità” come asili nido, assistenza sociale, ricreazione e sostegno: misure che si trovano, rispettivamente, solo al quart’ultimo e penultimo posto per frequenza.

A livello settoriale, le misure di flessibilizzazione dell’orario si rivelano particolarmente diffuse nel comparto dei servizi (dove più del 50% delle imprese interpellate afferma di aver adottato misure di questo tipo, contro il 24.2 del commercio e il 36.2 della manifattura), che è anche il più attivo per quanto riguarda l’offerta di servizi di prossimità (il 30.7% delle imprese di servizi afferma di aver messo in campo almeno una di queste azioni, contro il 17.6 delle imprese manifatturiere e appena il 4.2% di quelle attive nel commercio).


La remunerazione del capitale umano

Segnaliamo infine l’approfondimento dedicato nel Rapporto alla remunerazione di mercato del capitale umano dei lavoratori, attraverso l’analisi dei rispettivi differenziali retributivi. I dati confermano il vantaggio dato dal possesso di un titolo di studio superiore, che offre non solo maggiore probabilità di impiego, ma anche remunerazioni più alte rispetto a chi ne è privo, anche se in misura diversa per lavoratori e lavoratrici. Nelle regioni del Centro, dove i vantaggi dati dal titolo di studio in termini di retribuzione sono massimi, sono massimi anche i differenziali di genere: se il possesso della laurea assicura agli uomini, in media, una retribuzione fino al 67.9% più alta di quella dei lavoratori con diploma di istruzione secondaria, il vantaggio si riduce al 28.9% se si considerano le retribuzioni delle donne. Il differenziale di genere, seppure presente, è minore nelle regioni meridionali (dove il vantaggio per uomini e donne è, rispettivamente, del 51.1% e 20.2%). A ciò si aggiunge una variazione positiva del premio medio associato al possesso di una laurea (rispetto a un titolo di istruzione secondaria) all’aumentare del livello di retribuzione: anche in questo caso, soprattutto nei quantili superiori, i differenziali sono molto più limitati per le donne, a suggerire l’esistenza di un “soffitto di cristallo” che impedisce loro l’accesso alle posizioni apicali, e meglio retribuite, all’interno delle aziende.

Il Rapporto 2015 sulla Situazione del Paese, come detto poco sopra, offre una molteplicità di dati e spunti di analisi, con l’intento, nelle parole del Presidente dell’ISTAT, di offrire “al Parlamento e ai cittadini una riflessione documentata sui cambiamenti economici e sociali in atto, individuando rischi e opportunità per il futuro”, oltre ad individuare i punti critici e le aree meritevoli di intervento politico, per offrirli alle decisioni dei policy-maker. Quelli passati in rassegna in queste pagine sono solo alcuni dei numerosi punti affrontati nel Rapporto (dal ruolo dei lavoratori immigrati nell’economia italiana al consumo di suolo del territorio, dalla diffusione di pratiche smart nelle politiche urbane alle dinamiche dei distretti industriali, solo per fare qualche esempio), che chi fosse interessato a consultare più in dettaglio può trovare integralmente on-line sul sito dell’ISTAT, insieme alle edizioni precedenti  (qui il nostro approfondimento sull’edizione 2014) e a una serie di grafici interattivi.

¹ In base alla metodologia EUROSTAT, la “grave deprivazione materiale” si presenta quando si manifestano almeno quattro sintomi di disagio economico su un elenco di nove: i) non poter sostenere spese impreviste di 800 Euro; ii) non potersi permettere una settimana di ferie lontano da casa; iii) avere arretrati per il mutuo, l’affitto, le bollette o per altri debiti come, per esempio, gli acquisti a rate; iv) non potersi permettere un pasto adeguato ogni due giorni, cioè con proteine della carne o del pesce (o equivalente vegetariano); v) non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione; non potersi permettere: vi) una lavatrice; vii) un televisore a colori; viii) un telefono; ix) un’automobile.

 

Riferimenti

Istat, Rapporto annuale 2015

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