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Sul numero 4/2016 di Welfare Oggi, Anna Abburrà – Direttore dei Servizi Sociali del Distretto di Bra (ASLCN2) – propone un’analisi sull’integrazione tra sociale e sanitario, individuando sei ambiti di criticità a partire dall’esperienza concreta: 1) il cittadino fatica a percepire i servizi socio sanitari territoriali; 2) tali servizi mutano troppo spesso assetto organizzativo; 3) rimangono non affrontati i nodi che derivano da una diversa titolarità istituzionale; 4) mancano ricerca e benchmarking sulle esperienze di integrazione; 5) manca una formazione comune; 6) le risorse sono concepite in modo non integrato. Ma per ciascuna criticità ci sarebbero anche una o più proposte possibili.


L’integrazione tra sociale e sanitario

Il tema dell’integrazione fra sociale e sanitario è da sempre considerato necessità e criticità al tempo stesso a tal punto che da moltissimi anni se ne parla, se ne discute e il suo dover essere è stato ben specificato all’interno delle diverse normative nazionali, regionali e locali come obbligatorio e assolutamente costruttivo; nonostante ciò, permane nella realtà concreta una sensazione di insoddisfazione, incompiutezza e precarietà.

Per capirne i motivi provo a proporre alcune considerazioni che derivano dal lavoro svolto sul territorio: 34 anni in front office, prima come operatore e poi come direttore di un servizio sociale di base: 16 anni nella città di Torino, 18 all’interno di un’associazione di Comuni della provincia di Cuneo.

Chi opera sul territorio ha assistito all’aumento progressivo del bisogno socio sanitario: la vita si è allungata, si è sviluppata una differente considerazione e conseguentemente gestione della non autosufficienza, si è affermata la necessità di promuovere l’integrazione dei cittadini disabili, della tutela materno infantile, di fare fronte all’aumento della conflittualità o della visibilità dei problemi intra ed extra familiare, si elaborano più ampie strategie di risposta ai fenomeni legati alle tossicodipendenze e/o alle malattie mentali e alle nuove povertà. Tutto ciò ha reso sempre più esili, quasi invisibili i confini fra sociale e sanitario e fa sì che sia ancora più indispensabile per i cittadini essere considerati nella loro complessità. Ma, malgrado ciò, l’integrazione tra questi due ambiti rimane poco fluida e incompiuta. Perché?

I cittadini faticano a percepire e identificare i servizi socio sanitari territoriali

L’organizzazione territoriale dei servizi socio sanitari è ancora troppo frammentata, settoriale e non fisicamente riconoscibile e immediatamente individuabile dai cittadini. Troppa è la differenza con la visibilità e la capacità di porsi come riferimento che la struttura ospedaliera, invece, sa rappresentare: un chiaro punto di accesso, un luogo, magari scomodo, a volte anche non troppo funzionale, che però è attrezzato e dove è possibile trovare accoglienza e risposte. Tanti sono e sono stati i tentativi per affrontare tale questione. In Piemonte, ad esempio, sono stati istituiti nel 2007 gli sportelli socio sanitari, ma il finanziamento dedicato si è, ad un certo punto, interrotto e sono stati in molte realtà chiusi. Si è sperimentata in altre regioni la Casa della Salute, si è parlato di Centro di Assistenza Primaria, si è riaperto il dibattito e la promozione del Distretto Socio Sanitario un po’ ovunque. Quello che è certo è che benché alcune di queste iniziative siano state concepite già a partire dagli anni settanta, benché ogni Regione stia ragionando, organizzando e riorganizzando, lo sforzo sembra essere enorme rispetto all’evidenza, almeno per ora, dei risultati e al permanere di una situazione che dal punto di vista del cittadino non può che apparire confusa. Probabilmente anche gli esiti positivi, pur esistenti, non consolidandosi si disperdono nell’ampiezza del territorio.

Così come è poco evidente il lavoro dei professionisti che, ogni giorno, a diretto contatto con le persone cercano di praticare e perseguire l’integrazione socio sanitaria: il medico di medicina generale, l’assistente sociale, l’infermiere e l’operatore socio sanitario. Meglio se riuscissero a convivere in sedi uniche, ma non è solo il luogo fisico quello che conta, quanto piuttosto la capacità di fare sistema.

E comunque oggi si tratta di figure poco fruibili e identificabili dai cittadini, accessibili solo in alcuni limitati orari, spesso non direttamente contattabili. Strutturare meglio, anche in termini di logistica, queste equipe minime di lavoro diventa quanto mai necessario, così come organizzare in modo più omogeneo e funzionale l’enorme quantità di lavoro d’aiuto esistente e necessario di là da queste quattro specifiche professionalità. Un approfondimento particolare meriterebbero infatti, tutti i numerosi interventi cosiddetti “no professional(dalle badanti per 24 ore al giorno, a piccoli o grandi aiuti quotidiani, indispensabili e svolti a pagamento, utilizzati far fronte a specifici bisogni nell’arco della giornata), un ambito ancora sommerso e non sufficientemente approfondito e organizzato, lasciato pressoché ovunque, pur nella sua complessità, alla gestione diretta dei cittadini e delle loro famiglie. E, comunque, che generalmente non viene percepito come parte integrante di un modello di risposta integrata ai bisogni.

La varietà dei modelli organizzativi e l’eterogeneità delle forme di gestione

Se proviamo a osservare le diverse realtà locali, regionali e nazionali, riferendoci in particolar modo alla gestione della funzione sociale (istituzionalmente in capo ai Comuni) ci accorgiamo che c’è una grande varietà di modelli (convenzioni, consorzi, unioni, aziende speciali, delega alle ASL,…..) e che ciascuna forma gestionale scelta è spesso differente anche se nominativamente medesima (i consorzi, così come le unioni dei comuni, ad esempio, sono molto diversi fra di loro, per dimensioni, per la concreta responsabilità nella gestione dei servizi – su tutto o solo su parte dell’attività, ecc.).

Alla varietà delle forme si aggiunge il fatto che i cambiamenti organizzativi si siano spesso susseguiti in un arco temporale ristretto, non permettendo sempre di capire dove erano le funzionalità e/o le disfunzionalità di ciascuna opzione e generando comunque un certo disorientamento sia negli operatori che nei cittadini.

Personalmente ho sperimentato – dopo il lavoro nella Città di Torino – nel giro di sedici anni ben cinque cambiamenti organizzativi non di poco conto: soluzioni fortemente ispirate al decentramento per essere più vicini ai cittadini, difficili concretamente da gestire soprattutto in presenza di poche risorse e con dimensioni troppo piccole. Successiva gestione attraverso un consorzio di Comuni, poi sciolto a seguito di cambiamenti di decisioni politiche nel frattempo avvicendatesi. L’affidamento e la delega all’ASL con l’intento di fruire di una dimensione più grande recuperando l’idea del distretto socio sanitario come ambito di riferimento. E poi, dalla stessa ASL prima la considerazione del servizio sociale come struttura complessa, mentre in seguito, come una struttura semplice – ancor più subordinata rispetto al Distretto sanitario. E comunque la delega all’ASL, di là dei problemi connessi ad una relazione di fatto non paritaria tra sociale e sanitario, prevede convenzioni tra fra ASL e Comuni con contenuti diversi.

Tutto ciò complica e rende ancor più difficile la percezione dei servizi socio sanitaria al cittadino, ma anche agli operatori. Per superare questa condizione sarebbe necessario, una volta valutate le opzioni possibili, una maggior omogeneità nella definizione del modello organizzativo funzionale; e dovrebbe essere resa ovunque obbligatoria almeno la coincidenza fra distretto sanitario e ambito sociale, attribuendo però alle due funzioni la medesima autorevolezza.

Fondamentale potrebbe almeno essere una convenzione quadro tra sociale e sanitario, definita a livello almeno regionale, che preveda elementi minimi ma uguali per tutti. L’elevato numero di comuni e la loro enorme differenza in termini di dimensione e di organizzazione rappresentano la maggiore criticità di cui tenere conto.


Il diverso riferimento istituzionale: sociale – titolarità dei comuni, sanitario – titolarità delle Regioni

Si tratta di una questione cruciale e collegata a quella precedente proprio perché, come si è detto, in Italia, il numero dei Comuni – circa 8 mila – è molto elevato; il fatto che la titolarità della funzione sociale sia ad essi assegnata rappresenta di per sé una criticità perché la frammenta su un così grande numero di enti. Da tempo si parla di unioni, convenzioni, consorzi, aziende speciali e non solo, ma la gestione è ancora assolutamente frazionata. Là dove i Comuni hanno provveduto in qualche modo ad associarsi, le stesse dimensioni degli ambiti presi in considerazione risultano assai differenti: da realtà che rappresentano 5.000 – 10.000 abitanti a realtà di più di 200.000 per i comuni di piccole e medie dimensioni, senza considerare le città e le aree metropolitane. Quest’appartenenza frammentata e disomogenea complica la condizione di partenza, già incerta per tante altre questioni (pensiamo ai problemi di natura economica e all’aumento della domanda sociale). Sicuramente la parte sanitaria, anche per questo, rappresenta, nella relazione "il gigante" che si pone in posizione sovraordinata. In alcuni casi poi – proprio per la frammentazione e le dimensioni piccole – il “sociale” non è così valorizzato e considerato dagli stessi Comuni, più coinvolti e occupati in tante altre questioni considerate più importanti.

Il prezioso e assolutamente lungimirante strumento del Piano di Zona, individuato come obbligatorio dalla stessa legge 328/2000 e da tutte le leggi regionali conseguenti, non è ancora diventato una vera prassi e una naturale forma mentis. Sebbene sia stato definito teoricamente il piano regolatore delle politiche sociali, non possiamo dire che abbia assunto il peso del piano regolatore edilizio.

Insomma, sociale e sanitario che rispondono a due filiere diverse e questo rappresenta il punto cruciale. L’idea che il socio sanitario possa porsi, rispetto al cittadino, come funzione unitaria trova in questo un ostacolo molto difficile da superare in termini strutturali; bisognerebbe gestire una funzione in modo unitario laddove bilanci e personale dei due soggetti chiamati a integrarsi rispondono a enti diversi.

A fronte di ciò sarebbe quanto mai urgente uno studio approfondito sul tema a livello nazionale, che invece manca. I tentativi di superare questa situazione a livello di esperienza locale o si sono rette sulla base di disponibilità personali o hanno prodotto ancor più incertezza e disagi.


La mancanza di un luogo di ricerca ed elaborazione connesso con chi opera sul campo

Certamente esistono buone prassi e ottime idee e proposte per favorire l’integrazione socio sanitaria, probabilmente più di quante possiamo immaginare; manca però un luogo che sappia raccoglierle, riconoscerle, codificarle e portarle a sistema. Si disperdono così preziose esperienze che rimangono circoscritte e sconosciute e legate alla sola buona volontà, a volte addirittura al caso, quasi sempre definite in tempi e spazi limitati. Quante occasioni perdute perché legate solo alle persone (indispensabili, ma con il limite di non poter essere eterne né durature nel tempo), a rapporti costruiti sul buon senso, anch’esso elemento indispensabile, ma non da solo.

Le "buone prassi" sono ancora considerate eccezioni e questo rende difficile la loro diffusione; anzi spesso, paradossalmente, le tante esperienze positive in tutti i luoghi – piccoli e grandi, al nord e al sud, ecc. – non sono visibili e, a volte sono schiacciate e addirittura ostacolate.

Sarebbe importante inoltre superare la distanza fra chi opera sul campo e chi programma e studia il territorio. Le cose forse cambierebbero se chi opera nella programmazione socio sanitaria a livello regionale e nazionale, così come in ambiti di ricerca ad essa riferiti, avesse sempre una diretta esperienza sul campo. Allo stesso modo, chi invece lavora quotidianamente sul territorio, nonostante la fatica e il carico anche emotivo del contatto diretto con il bisogno, dovrebbe riuscire meglio e di più a osservare, studiare e documentare i dati di realtà e i processi realizzati di là dai singoli interventi. Chi lavora sul campo è un grande esperto e detiene informazioni e soluzioni concrete spesso lungimiranti, a volte anche improvvisate per necessità, che dovrebbero essere conosciute, adattate e per quanto possibile trasferite e che rappresentano un grande e reale valore aggiunto, che oggi spesso rimane estraneo al dibattito culturale sul tema. Si sa che il collegamento tra teoria e prassi è molto complicato e rappresenta davvero una scommessa: perché non trovare modalità nuove e concrete per perseguirlo in un contesto di maggior scambio e relazione possibile?


I percorsi formativi di base e permanente ancora molto separati e comunque concentrati sugli aspetti specifici

Forse è davvero difficile organizzare una formazione di base che costringa già gli studenti a sentirsi integrati e complementari fra professioni differenti; probabilmente si sono già fatti dei passi avanti, ma la realtà ci presenta uno scollamento, un mancato riconoscimento reciproco, una distanza a volte anche competitiva tra le diverse professioni di aiuto socio sanitarie. Se oggi sempre di più nell’operatività si evidenzia ad esempio la complementarietà fra il lavoro di front office del medico di medicina generale da un lato (sanità) e dell’assistente sociale dall’altro (sociale), non vi sono ancora alla base percorsi di formazione comune e sicuramente non se ne ravvisa l’esigenza; qualcosa si sta sperimentando a livello locale durante percorsi di formazione permanente, ma, di nuovo, senza i necessari approfondimenti sui risultati e sulle criticità.

Le Facoltà cui i diversi professionisti accedono sono diverse (medicina, sociologia, giurisprudenza, scienze politiche, scienze della formazione, …), quindi non è facile prevedere momenti integrati nei corsi di base. Può essere invece più immediatamente possibile pensare a master o corsi di formazione permanente (già presenti in alcune realtà) pressoché obbligatori comuni per professionisti di ambito sociale e sanitario.

Inoltre, seguendo l’esempio di alcuni corsi di laurea, potrebbe essere utile proporre laboratori, inseriti in percorsi di formazione di base o permanente, mono professionale o – meglio – pluriprofessionale in cui venga valorizzato, attraverso testimonianze dirette, il punto di vista di cittadini – utenti, considerati alla pari dei libri di testo come fonte di conoscenza; questo favorirebbe uno sguardo diverso da parte di chi opera in ambito sociale e sanitario, meno centrato sui confini professionali e più sui bisogni dei cittadini, che è il punto di partenza più produttivo per mettere in discussione gli assetti consolidati e aprirsi a nuove ipotesi di integrazione.

La grande criticità delle risorse economiche

La questione non riguarda solo la loro carenza e il fatto che siano gravemente insufficienti in riferimento al reale bisogno delle persone. Il punto qui è che le risorse non sono organizzate in modo funzionale e sono troppo frazionate non solo fra parte sociale e parte sanitaria, ma anche riferite a plurimi e specifici ambiti; provengono da più istituzioni (il Ministero, la Regione, il bilancio comunale, trasferimenti ASL …), ciascuna con proprie normative e regole di utilizzo.

Ci si disperde in mille ambiti, il finanziamento e le risorse a disposizione sono spesso circoscritte e dedicate ad un problema: ad esempio la vita indipendente, i malati di SLA, i disabili sensoriali, vittime di abusi, i minori extracomunitari non accompagnati, ecc.: si tratta una soluzione che ha permesso negli anni di affrontare specificità via via resesi evidenti e/o particolarmente significative, ma che porta con sé controindicazioni non secondarie. La disponibilità finanziaria e il budget non possono essere troppo frazionate perché ciò costringe e limita le possibilità, perché crea iniquità (la persona non autosufficiente malata di SLA ha dei sostegni che non può avere il grave malato terminale di cancro, o altra persona con differente malattia seppur molto grave), e anche, per quanto riguarda i temi qui trattati, perché costituisce un ulteriore complessità per un utilizzo integrato delle risorse. Andrebbe costruito un fondo unico e tale fondo dovrebbe in qualche modo comprendere sia la parte sociale che quella sanitaria: partendo da un unico budget si eviterebbero continui spostamenti di responsabilità e di competenza per riuscire, ognuno, a tutelare la propria spesa (anche da possibili richiami della Corte dei Conti di cui si teme il responso). Questo è un aspetto che fa perdere tantissimo tempo al cittadino (ma anche agli operatori): per capire a volte a chi compete che cosa e, una volta chiaro, trovare nel posto giusto i denari necessari, passano mesi, a volte anni. Non a caso la percentuale di fruitori delle classi sociali medie o alte è proporzionalmente maggiore (possono anticipare e aspettare l’esito, hanno più capacità di seguire le complicate prassi burocratiche collegate, spesso diverse a seconda delle richieste), mentre le classi sociali più povere e fragili rischiano di stare fuori perché non riescono ad accedere ai servizi sia perché meno capaci, sia perché scelgono vie più immediate anche se meno tutelanti. Le risorse sono inoltre ancora troppo concentrate su interventi di residenzialità e, per i motivi di cui si diceva prima, non ancora chiaramente programmate e definite sul territorio.

Sulla questione delle risorse economiche un capitolo a parte meriterebbe il tema della compartecipazione economica, dove uno stesso servizio è gratuito per la parte sanitaria e soggetto a compartecipazione del cittadino – secondo regole eterogenee da un territorio all’altro – per la parte sociale. Questo tema apre un dibattito sicuramente difficile ma, anche questo, non più procrastinabile. Risulta sempre molto difficile sviluppare un ragionamento costruttivo in merito e, ogni volta che si affronta tale tematica, si aprono fronti, rivendicazioni e s’instaura un clima di tensione e di lotta: condizione che non facilita l’individuazione di soluzioni possibili e praticabili. Alcuni contesti territoriali sono riusciti a “contrattare” anche solo a livello locale, delle forme chiare e equilibrate di compartecipazione alla spesa che hanno permesso di includere più cittadini fragili e di allargare il campo degli interventi. Sarebbe in ogni caso indispensabile che ogni Regione assumesse delle chiare e precise linee di intervento, limitando le ineguaglianze di trattamento oggi esistenti.


In conclusione

Ciascuna delle sei questioni evidenziate contiene, accanto alla disamina delle criticità, una o più proposte, sicuramente discutibili, ma che ci dicono come esistano vie percorribili e praticabili ponendosi obiettivi magari limitati, ma raggiungibili e chiari.

Chi detiene la responsabilità perché ciò possa davvero accadere? Tutti noi, ognuno nel suo ruolo e per ciò che gli compete. Chi detiene ruoli meno strategici, ma importanti per quanto concerne la relazione con i cittadini, ha però anche il compito di rappresentare la realtà che è quella di una comunità che ha bisogno di chiarezze, di punti di riferimento precisi, di risposte veloci e congruenti al bisogno. Al cittadino non interessa sapere che cosa è sociale e che cosa è sanitario: ciò che importa è poter mantenere per sé e per i propri cari un sostegno adeguato; e questo non vale solo per la non autosufficienza, ma per molte altre condizioni di bisogno. Insomma è necessario cercare e trovare nuove modalità di approccio e di lavoro, di là dalla competenza specifica di ciascuno.