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Nell’ultima pubblicazione della serie “Insights”, l’OCSE (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) affronta il tema dell’invecchiamento della popolazione, mettendo in luce l’urgenza di trovare soluzioni di policy capaci di considerare il fenomeno – che non ha precedenti nella storia – in tutta la sua complessità. Il volume, che raccoglie una serie di brevi articoli non specialistici di esperti in una pluralità di campi (già pubblicati sul blog OECD Insights e in parte basati su attività di ricerca realizzate dall’OCSE), permette infatti di cogliere le pressioni esercitate dal crescente invecchiamento della popolazione sui settori più diversi della vita economica e sociale, nei paesi sviluppati così come nelle economie emergenti: dal mercato del lavoro ai sistemi sanitari e pensionistici, dalla crescita economica alla cura degli anziani, dalla lotta alle disuguaglianze al contrasto della povertà, dall’organizzazione dei trasporti alla tutela dell’ambiente.


Il fenomeno

Il punto di partenza non può che essere un’analisi del fenomeno. Diversi indicatori demografici segnalano orami da tempo un processo di progressivo invecchiamento della popolazione in moltissimi paesi. I dati sono definiti “impressionanti” nella pubblicazione dell’OCSE, che stima che gli ultrasessantenni, oggi pari a quasi 900 milioni, saranno 2,4 miliardi nel 2050. In molti paesi è cresciuta la proporzione di persone anziane sul totale della popolazione: se nel 1963 solo 1 Giapponese su 16 aveva più di 65 anni, oggi il rapporto è di 1 a 4; nello stesso periodo, in Italia la proporzione di popolazione anziana è più che raddoppiata, passando da meno di 1 su 10 a più di 2 su 10 nel 2013 (vd. grafico 1). Il fenomeno – nota Ken Bluestone (Age International e Help Age) nel suo contributo – è globale: stando alle proiezioni, per la prima volta nella storia umana, nel 2047 gli adulti ultrasessantenni saranno più dei giovani (0-16 anni).

Grafico 1 – Popolazione over 65 sul totale della popolazione (%) – 2013.
Fonte: OECD 2015, p. 13.


Le cause principali di questa tendenza
vanno ricercate, da un lato, nella riduzione dei tassi di fertilità, dall’altro, nell’allungamento dell’aspettativa di vita media. Se nel 1970, nei Paesi OCSE, il numero di figli per donna era in media pari a 2,7, oggi è invece 1,7, cioè al di sotto di 2,1, considerato il “tasso di sostituzione” minimo per assicurare – al netto dei flussi migratori – il mantenimento della dimensione della popolazione. Tale riduzione è da ricondursi al fatto che si assiste a un costante spostamento in avanti dell’età in cui le donne decidono di avere un figlio, oltre al fatto che risulta sempre più diffusa la scelta di avere meno bambini. Un elemento interessante su cui Ageing: Debate the Issues richiama l’attenzione è che la riduzione dei tassi di fertilità è un dato comune sia ai paesi sviluppati sia alle economie emergenti. Viene a questo proposito citato il caso dell’India, il cui tasso di fertilità si è più che dimezzato nel corso degli ultimi 40 anni (da 5.5 nel 1970 a 2.7 nel 2012). Una delle cause è probabilmente la riduzione delle forme di agricoltura di sussistenza, che richiedevano la disponibilità di un numero sufficiente di “braccia” per coltivare i campi. In molti paesi asiatici e dell’America latina i cambiamenti si stanno realizzando in tempi così rapidi che, secondo il Rapporto, i governi interessati avranno poco tempo a disposizione per adattarvisi.

Se i tassi di fertilità calano, la vita media si allunga. In circa la metà dei paesi OCSE l’aspettativa di vita è oggi superiore agli 80 anni. Nei paesi dell’UE – come riportato nel recente rapporto People in the EU: who are we and how do we live?” – l’età mediana ha ormai superato i 42 anni (rispetto ai 36 di appena vent’anni fa). In generale, il miglioramento di questo dato rispetto al passato (nel XVIII secolo, l’aspettativa di vita media di un Francese era circa 25 anni) è la conseguenza, innanzitutto, di un abbattimento notevolissimo della mortalità infantile, ma anche dei progressi registrati nei campi dell’alimentazione e dell’assistenza sanitaria (in particolare, vaccinazioni di massa e prevenzione dei disturbi cardiocircolatori). È interessante notare che, come la riduzione dei tassi di fertilità, anche questo fenomeno interessa sia le economie consolidate sia quelle emergenti, che presentano inoltre ritmi di trasformazione sorprendentemente veloci: la Cina ha impiegato solo 40 anni per portare l’aspettativa di vita dei propri cittadini da 40 a 70 anni (la Germania impiegò 80 anni per compiere lo stesso percorso). Le analisi considerano inoltre plausibile che la mortalità in età avanzata continuerà a spostarsi in avanti nel tempo: si prevede, ad esempio, che in Inghilterra, all’inizio del prossimo secolo, l’aspettativa di vita alla nascita sarà di 93 anni per i maschi e oltre 95 anni per le femmine.


Sfide di policy: salute e pensioni alla prova dell’invecchiamento

Ma i nostri sistemi economici e sociali sono attrezzati per fronteggiare le diverse sfide che i cambiamenti demografici appena descritti comporteranno nei prossimi anni (e, in parte, già stanno determinando)?

Dalla lettura dei diversi contributi raccolti nel volume emerge la comune osservazione che, in conseguenza dell’assoluta novità del fenomeno, per rispondere adeguatamente a molte delle trasformazioni in corso è indispensabile aumentare, su diversi fronti, gli sforzi nella raccolta dei dati e nella loro analisi. Ciò risulta particolarmente evidente in due campi di policy che, per definizione, sono interessati direttamente dall’invecchiamento: l’assistenza sanitaria e le pensioni.

Quanto alla salute – sostiene Fancesca Colombo (OECD) – “i nostri sistemi sanitari sono ancora troppo lenti nel riformarsi e restano mal preparati alle conseguenze dell’invecchiamento delle società. Il modello di erogazione di assistenza sanitaria non ha tenuto il passo dei cambiamenti epidemiologici e dei bisogni sanitari della popolazione. L’attenzione rimane spesso focalizzata sulla costruzione di nuovi ospedali, sull’acquisto di nuove costose apparecchiature e sull’ammodernamento delle strutture per l’erogazione di cure per gli stadi acuti delle malattie”. Al contrario, all’invecchiamento della popolazione dovrebbe corrispondere un approccio differente, più attento alla gestione di problemi di salute cronici (spesso più di uno nello stesso paziente), alla garanzia della continuità della presa in carico da parte di diversi soggetti coinvolti nella cura, al ruolo dei medici di base. Nell’era dei “big data”, nota Colombo, i sistemi sanitari rimangono relativamente deboli nell’utilizzo della mole di dati – clinici, amministrativi, biologici – che potrebbero essere generati ogni giorno, ma che spesso non sono trascritti, oppure sono raccolti in forma non standardizzata, e così via. Un monitoraggio più attento dei processi attraverso i quali viene offerta assistenza sanitaria offrirebbe vantaggi indubbi per affrontare, ad esempio, malattie neurodegenerative, destinate a diventare sempre più diffuse con l’aumentare dell’età della popolazione (la demenza già oggi colpisce 44 milioni di persone nel mondo), ma anche per la gestione di malati con più di una patologia cronica (caso estremamente frequente fra gli ultrasessantacinquenni). Riuscire a sfruttare efficacemente i dati generati negli ospedali e nei laboratori di tutto il mondo avrebbe ricadute positive in termini di ricerca, cura dei pazienti, gestione dei sistemi sanitari. Numerosi sono però gli ostacoli da superare per ottenere questo risultato: dai problemi di natura etica e legale nella raccolta dei dati, a quelli legati ai disincentivi alla cooperazione spesso creati dai modelli di carriera presenti nelle istituzioni accademiche, alla necessità di forti investimenti economici per sostenere le infrastrutture senza le quali i “big data” non possono esistere.

L’allungamento della vita – mettendo in dubbio le nostre concezioni di vecchiaia, salute, malattia – chiama in causa non solo l’organizzazione dei sistemi sanitari, ma anche di quelli pensionistici: fino a quando potremo lavorare? Quando si ridurrà la capacità produttiva di un individuo?

Vivere di più, in via generale, comporta anche che si debba lavorare più a lungo. Solo così si dovrebbe riuscire a mantenere in equilibrio sistemi pensionistici sempre più sotto pressione. Patrick Love (OECD) ricorda a questo proposito l’analisi contenuta nello studio dell’OECD, Live longer, work longer (2006), secondo il quale se i modelli di impiego e pensionamento di dieci anni fa fossero rimasti immutati, nell’area OECD il rapporto delle persone anziane inattive per lavoratore sarebbe stato destinato quasi a raddoppiare, passando dal 38% nel 2000 a circa il 70% nel 2050. Le misure di austerità introdotte da molti paesi dopo la crisi iniziata nel 2007 hanno cambiato profondamente il quadro, delineando le condizioni per un allungamento della vita lavorativa, elemento centrale per neutralizzare alcuni degli effetti negativi dell’invecchiamento. In media, nei paesi OCSE, il 55.7% delle persone fra 55 e 64 anni lavora. L’obiettivo generale dovrebbe consistere in un incremento di questa percentuale. Ci sono tuttavia significative differenze fra paese e paese: si passa, infatti, dall’83.6% dell’Islanda ad appena il 35.8% della Slovenia (v. Grafico 2).

Grafico 2 – Tassi di occupazione: lavoratori 15-64 anni e 55-64 anni.Fonte: OECD 2015, p. 14.

Se Patrick Love sottolinea poi l’infondatezza di molti miti sul lavoro in età avanzata (le capacità lavorative non si deteriorerebbero sistematicamente al crescere dell’età, la presenza di lavoratori anziani nel mercato del lavoro non comprometterebbe le possibilità di ingresso per i più giovani), nel suo articolo Pablo Antolín-Nicolás (OECD) mette in guardia da facili soluzioni che, pur garantendo la sostenibilità fiscale dei sistemi pensionistici, rischierebbero di metterne in pericolo l’equità: in altre parole, invita a considerare attentamente il rapporto fra invecchiamento e disuguaglianza. Nell’OECD Pensions Outlook 2014 si afferma che l’approccio migliore per fronteggiare le sfide che l’invecchiamento pone ai sistemi pensionistici consiste nel prevedere un versamento di contributi più alti e per più tempo, in particolare ritardando l’età pensionabile a mano a mano che l’aspettativa di vita cresce (una misura già introdotta in alcuni sistemi previdenziali, tra cui quello italiano). L’equità di questa soluzione – sostiene Antolín-Nicolás – può tuttavia essere messa in dubbio “se si guarda oltre la media”. Gli incrementi nell’aspettativa di vita, infatti, non sono necessariamente distribuiti equamente nella società: immaginando un’età di pensionamento di 65 anni, un dirigente può ragionevolmente aspettarsi di godere di quasi 4 anni in più di pensione di un lavoratore manuale; non solo: oltre a godere di meno anni di pensione, il lavoratore manuale avrà probabilmente cominciato a versare i contributi prima del dirigente (che, avendo dedicato molti anni alla propria educazione, sarà entrato più tardi nel mercato del lavoro). Posta la stessa età di pensionamento, il lavoratore meno qualificato paga relativamente di più al sistema per ricevere una pensione per meno tempo. In altre parole, conclude Antolín-Nicolás, collegare in modo meccanico l’età pensionabile agli aumenti nell’aspettativa di vita (che non sono uniformi nei diversi gruppi socio-economici) può produrre effetti regressivi. La soluzione più equa consisterebbe nel legare il numero di anni di contribuzione all’aspettativa di vita ma – come sottolineato prima per le politiche sanitarie – i dati che sarebbero necessari per una politica di questo tipo sono spesso mancanti.

Una preoccupazione – quella relativa all’equità dei sistemi pensionistici di fronte all’invecchiamento della popolazione – che emerge anche nel contributo a firma di Monika Quisser (OCSE), la quale porta all’attenzione il fatto che i pensionati di domani, in molti casi, avranno alle proprie spalle un percorso lavorativo molto meno stabile e lineare di quello degli attuali pensionati: mentre questi godono di standard di vita pari a quelli del resto della popolazione (fungendo in alcuni casi da ammortizzatori sociali per altri membri più deboli della famiglia, come avviene in Italia) lo stesso non sarà per chi comincia a lavorare oggi: “Un “lavoro per tutta la vita” o addirittura una “carriera per tutta la vita” sono beni rari per le persone che cominciano a lavorare oggi. Questi futuri pensionati saranno un gruppo molto più diversificato, alcuni avranno vissuto lunghi periodi di disoccupazione e bassi salari, mentre altri avranno continuato a beneficiare di stabilità e salari più alti”. Di conseguenza, anche l’accesso al secondo e al terzo pilastro previdenziale rischierà di risultare fortemente differenziato. Markus Schuller (Panthera Solutions) ricorda, a questo proposito, l’urgenza di definire un quadro europeo di regolazione chiaro per il secondo e terzo pilastro, che ne faciliti un maggiore utilizzo da parte dei lavoratori, anche in considerazione del fatto che il primo pilastro tenderà a svolgere essenzialmente una funzione anti-povertà.


Quali opportunità?

Il quadro dipinto dall’OCSE, però, non è solo a tinte fosche. In controtendenza con molte analisi, Tobias Vogt e Fanny Kluge (del Max Planck Institute di Rostock) sottolineano infatti che è necessario considerare anche alcuni argomenti, di solito trascurati, che fanno apparire il futuro meno fosco di come viene generalmente rappresentato. Le trasformazioni demografiche legate all’invecchiamento della popolazione potrebbero determinare anche una serie di opportunità positive. Una delle maggiori preoccupazioni legati all’ageing society è che ci si aspetta che individui più vecchi siano anche meno produttivi: si tratta però di un assunto che ignora che alcuni fattori essenziali (come i livelli di educazione e di salute) non rimarranno costanti fra gli anziani, ma evolveranno nel tempo. Insomma, gli anziani di domani saranno sensibilmente più istruiti degli anziani di oggi. Non solo: gli anziani di domani saranno anche più in salute. Se è vero che l’aumento dell’età determinerà pressioni per una trasformazione dell’assistenza sanitaria, è anche vero che il peggioramento delle condizioni di salute tenderà a verificarsi più tardi nel corso della vita: si stima che se oggi i tedeschi trascorrono in buona salute il primo il 60% della loro vita, nel 2050 tale percentuale dovrebbe essere pari all’80 (pur in presenza di un aumento dell’età). Secondo i ricercatori tedeschi, tutte queste considerazioni dovrebbero aiutare a stemperare i timori circa possibili perdite di produttività. Un ulteriore dato rassicurante riguarda infine l’impatto ecologico che una popolazione più piccola e più vecchia avrà sul pianeta: a parità i stili di consumo attuali, sostengono Tobias Vogt e Fanny Kluge, le emissioni di anidride carbonica dovrebbero ridursi sensibilmente.

Ageing: Debate the Issues fa parte della Serie OECD Insights, pubblicazioni dedicate ai non specialisti, in cui vengono affrontati alcuni dei temi socio-economici più pressanti.

 

Riferimenti

OECD (2015), Ageing: Debate the Issues, OECD Insights, OECD Publishing, Paris