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 La negoziazione delle politiche sociali a livello territoriale in Italia: quale ruolo per il sindacato?

 

Una ricerca su “sindacato e welfare locale”

La negoziazione in Lombardia

La genesi di un modo nuovo di fare contrattazione

Conclusioni

Principali riferimenti bibliografici sul tema

 

Una ricerca su “sindacato e welfare locale”
Questo tema ancora poco esplorato è al centro di un volume dal titolo “Sindacato e welfare locale” scritto da Sabrina Colombo e Ida Regalia, recentemente pubblicato da Franco Angeli (2011). Il tema è quello dell’intervento sindacale in un ambito che va oltre il luogo di lavoro e il conflitto sulla distribuzione della retribuzione, per allargarsi al territorio e alla salvaguardia del reddito complessivo dei cittadini mediante iniziative di welfare locale. L’analisi si concentra sulla regione Lombardia. I protagonisti sono i sindacati dei pensionati e i destinatari gli anziani. Il metodo è quello della negoziazione diretta con le amministrazioni locali a cui i sindacati unitariamente presentano richieste, che costituiscono poi la base di intese che vengono formalizzate in accordi. Questa negoziazione origina dalla disponibilità e dall’interesse delle parti, non essendo espressamente prevista dalla normativa. Dal punto di vista delle amministrazioni pubbliche questo equivale ad adottare processi negoziati di policy-making invece che agire in veste di decisori unici.

Le dimensioni del fenomeno, in termini di accordi raggiunti, sono notevoli, benché la distribuzione appaia ancora molto disomogenea sul territorio nazionale. Già nel 2000, secondo i dati dell’archivio nazionale della negoziazione sociale della Cgil, erano stati firmati più di 2.000 tra accordi, protocolli d’intesa e accordi-programma tra le strutture territoriali del sindacato e le amministrazioni comunali e/o altre istituzioni locali (Piu, 2000), oltre la metà dei quali proprio in Lombardia. Nel corso di questo decennio, caratterizzato da un clima politico e sindacale più contrastato di quello degli anni precedenti, la negoziazione sociale ha conosciuto una progressiva estensione. Questa negoziazione costituisce un’esperienza originale e si configura come una delle possibili forme che assume la concertazione. Essa si colloca, come sottolineato da Colombo e Regalia nel volume, “all’incrocio di trasformazioni e dinamiche che ormai da tempo interessano comportamenti e logiche d’azione sia delle amministrazioni, specie a livello locale, sia delle organizzazioni di rappresentanza del lavoro, ed è rivelatrice di potenzialità ancora da esplorare”. Ballarino (2009) aveva invece osservato che questi accordi “costituiscono una “terza via” tra la concertazione istituzionalizzata “dall’alto”, i cui risultati sono stati modesti, e le esperienze volontarie locali “dal basso” […] molto idiosincratiche e il cui successo è difficilmente replicabile”.

L’emergere e l’affermarsi della strategia della negoziazione locale sul welfare sono, secondo Colombo e Regalia, da ricondurre a una molteplicità di fattori che negli ultimi due decenni hanno riguardato sia le amministrazioni locali sia i sindacati confederali riconfigurando le convenienze di entrambi. I sindacati, in particolare quelli dei pensionati, si sono rafforzati, accumulando un notevole potenziale di risorse organizzative (conoscenze e competenze elevate in campo previdenziale e in materia di legislazione sociale, presenza capillare sul territorio, forte seguito tra i pensionati e la popolazione anziana). In questo caso la logica perseguita è stata quella del confronto aperto e del negoziato per quanto possibile formale con le istituzioni, per ottenere in modo trasparente impegni precisi e definiti sul terreno delle politiche pubbliche di competenza degli enti locali a favore degli anziani e, più in generale, dei soggetti fragili presenti sul territorio.
Le istituzioni locali hanno maturato un interesse a un confronto e a un rapporto non solo occasionale con soggetti rappresentativi della società civile, in grado di conoscere e dar voce agli interessi dei gruppi sociali rilevanti sul territorio, per una serie di ragioni. Tra queste possiamo menzionare il decentramento di poteri e funzioni dal centro alla periferia, che ha contribuito ad accrescere i problemi da affrontare a livello locale; il diffondersi di domande di efficienza e trasparenza nella gestione della cosa pubblica e di partecipazione allargata dei cittadini sulle azioni amministrative che li riguardano; la riforma dei servizi sociali del 2000, che prevede, almeno in via di principio, un modo diverso e più impegnativo di intendere l’intervento socio-assistenziale, in cui cresce il ruolo assegnato alle istituzioni locali, ma aumentano anche le sfide e le difficoltà da fronteggiare, a partire da quelle di bilancio.

Il volume si divide in cinque capitoli. Il primo è dedicato al dibattito scientifico relativo alle nuove forme di regolazione delle politiche economiche e sociali, con particolare riferimento alla dimensione locale. I tre capitoli centrali sono dedicati al caso Lombardo, presentando i dati sulla diffusione e le caratteristiche della negoziazione delle politiche sociali in Lombardia. Nel quinto capitolo vengono avanzate alcune ipotesi sulle ragioni che sono all’origine di questo fenomeno e si discute della logica alla base di questa nuova forma di negoziazione, delle sue potenzialità e criticità in una prospettiva di rinnovamento e ridefinizione dell’azione sindacale.

La negoziazione in Lombardia
Partiamo da una sintetica descrizione dell’esperienza lombarda, che nel volume viene invece ampiamente analizzata. Già tra il 1997 e il 2000 nel 38% dei comuni lombardi si erano raggiunti uno o più accordi tra i sindacati dei pensionati e le amministrazioni comunali (Trentini 2003). La negoziazione delle politiche sociali può aver luogo anche a livello sovra-comunale, sotto forma di intese con associazioni di comuni o con i distretti socio-sanitari. Nel periodo 2002-2008 intese di livello sovra-comunale sono state raggiunte nel 44% dei casi analizzati nel volume. Le forme che possono assumere gli accordi tra sindacati e pubbliche amministrazioni locali si possono distinguere in accordi formalizzati (scritti e firmati dalle parti) e intese informali. Limitandosi ai dati della negoziazione con le amministrazioni comunali, la contrattazione di tipo formale ha interessato complessivamente l’85% dei comuni in cui si è negoziato e il 26% di quella di tipo informale. Nell’11% dei casi si è fatto ricorso a entrambe le forme di accordo. I dati della ricerca di Colombo e Regalia mostrano anche un aumento degli accordi in alcune aree in cui in precedenza la negoziazione era stata meno significativa. E segnalano un’incidenza particolarmente alta del ricorso a intese informali in aree caratterizzate in passato da bassa propensione all’accordo. Va inoltre aggiunto che la propensione alle intese di tipo informale tende a riflettere gli orientamenti politici delle amministrazioni e, in particolare, a essere un po’ più elevata nel caso di giunte di centro-destra. Colombo e Regalia spiegano il ricorso a intese informali in base a due logiche diverse. Da un lato ricorrervi è il massimo che il sindacato può ottenere nel caso di amministrazioni piccole e/o non particolarmente disponibili all’accordo. Dall’altro possono essere anche l’esito di rapporti basati su una certa dose di fiducia tra le parti: in questo caso possono rivelarsi utili specialmente per affrontare in modo innovativo temi nuovi o modi nuovi di gestire tematiche tradizionali.

Prendendo in considerazione i temi oggetto di accordo, il volume mostra che la contrattazione di tipo formale tocca un numero molto maggiore di temi di quella che si conclude con intese informali. Ci sono quattro aree tematiche – contributi economici-agevolazioni tariffarie, servizi domiciliari, fiscalità locale, programmazione – che ricorrono in più di due terzi degli accordi formali; ma anche le aree tematiche meno diffuse – sicurezza, diritti e informazioni dei cittadini – sono presenti comunque in oltre un terzo degli accordi. La contrattazione di tipo formale corrisponde quindi a una logica negoziale strutturata, articolata e complessa. Le intese informali si qualificano invece come soluzioni molto più agili e fluide, ciascuna costruita intorno a pochi temi.

Considerando i contenuti degli accordi, la contrattazione di tipo formale vede ai primi posti il sostegno più o meno indiretto al reddito (buoni di servizio, assegni di cura, contributo badanti, contributo sull’affitto, rimborso ticket sanitari e farmaceutici, riduzione tassa per i rifiuti, agevolazioni sulle tariffe dell’acqua potabile, dell’energia elettrica, del riscaldamento, dei trasporti). Questo corrisponde alla tradizione sindacale a intervenire innanzitutto a sostegno delle condizioni economiche dei rappresentati. Molto diffuse sono tuttavia anche le clausole volte a promuovere servizi (servizi domiciliari, servizi assistenziali di tipo territoriale, servizi in residenze protette), in particolare quelli di cui c’è più carenza. Da sottolineare è infine la notevole presenza di tematiche in materia di programmazione. Vi rientrano non solo i piani di zona e i piani socio-sanitari, ma anche iniziative quali gli osservatori sulle condizioni della popolazione, i piani di formazione, le politiche giovanili.

La genesi di un modo nuovo di fare contrattazione
Da dove origina questa contrattazione locale nel settore dell’assistenza sociale? Per comprendere come questo sia avvenuto, già Regalia e Regini 1998) avevano sottolineato la lunga tradizione di coinvolgimento del sindacato, sotto varie forme, nelle istituzioni e nei processi decisionali che riguardano le politiche sociali. Negli anni Settanta, nella fase di rafforzamento del sindacato, si era registrato un notevole coinvolgimento di esponenti sindacali nel policy-making locale. Questo coinvolgimento non faceva tuttavia parte di un’esplicita strategia sindacale. Era piuttosto l’esito di un interesse nuovo degli attori pubblici locali a cercare di acquisire a vario titolo l’appoggio di organizzazioni in grado di mobilitare un forte seguito in modo da rafforzarsi a propria volta nei confronti delle autorità politiche centrali. Attraverso questi contatti e questo coinvolgimento disordinato il sindacato veniva implicitamente investito di una legittimità a agire come rappresentante di interessi che andavano oltre la propria naturale constituency e veniva indirettamente spinto a considerare tra i suoi compiti anche l’occuparsi di temi in materia di assistenza sociale.

In seguito, a partire dagli anni Ottanta e fino ai primi anni Novanta, l’iniziativa del confronto con le istituzioni passa nelle mani del sindacato, che cerca in questo modo sostegno per fronteggiare le crisi occupazionali e produttive. Per quanto riguarda le modalità dell’interazione, si va dai contatti informali alla presentazione di proposte all’interno di “vertenze” formali sull’occupazione con gli enti locali, dalla partecipazione a comitati con funzioni consultive, e talvolta attuative, di politiche, al raggiungimento di “protocolli d’intesa” tra sindacati e regioni. Gli interventi riguardano soprattutto le politiche del lavoro. E in questo ambito spesso l’interazione tra sindacati e istituzioni a livello decentrato svolge la funzione di agevolare lo svolgimento di compiti istituzionali a livello periferico e di facilitare la sperimentazione di soluzioni innovative. Dagli anni Novanta l’iniziativa sindacale sul territorio tende a perdere il carattere contingente e reattivo precedente – per cui si interveniva soprattutto per cogliere opportunità o per affrontare situazioni di emergenza – per assumere progressivamente valore intenzionale e strategico. Pertanto le iniziative tendono ad articolarsi secondo logiche e programmi distinti, attraverso cui raggiungere e tutelare categorie specifiche e definite di destinatari, come nel caso delle iniziative a favore delle piccole imprese artigiane, dei patti territoriali e della programmazione negoziata per lo sviluppo locale, e della contrattazione sociale, o di beni pubblici, sul territorio (all’interno della quale si colloca la negoziazione dei sindacati dei pensionati oggetto di questo volume).

Parallelamente e nello stesso periodo diventa vantaggioso per le amministrazioni rinunciare in parte alla propria autonomia e associare altri soggetti nel policy-making per aumentarne l’efficienza. Ci si attende in questo modo di anticipare e/o ridurre l’eventuale dissenso; di ricavarne spunti nel processo di selezione/aggregazione/ridefinizione delle domande; di acquisire competenze per la fase di attuazione delle politiche. Ciò presuppone d’altro lato che i soggetti coinvolti siano dotati di risorse di rappresentanza e di seguito da parte dei rappresentati, di capacità di selezionare e aggregare le domande, di conoscenza e competenze. Il sindacato dei pensionati, speigano Colombo e Regalia, sembra in effetti soddisfare questi requisiti. Ma va osservato che la negoziazione sociale del welfare locale si differenzia da altre forme di governance locale perché in questo caso l’iniziativa non è delle autorità locali, alla ricerca di sostegni o input esterni, com’è in genere nei casi di contrattualizzazione delle politiche, ma è delle organizzazioni confederali dei pensionati. Non a caso l’interazione tra le parti tende a basarsi (almeno inizialmente) su di una logica di tipo rivendicativo-negoziale oltre che di tipo partecipativo-cooperativo. Per comprendere le ragioni della propensione piuttosto estesa delle amministrazioni locali ad accettare il confronto, è necessario considerare anche le caratteristiche della policy dei servizi socio-assistenziali in Italia.

All’interno del sistema italiano di welfare l’assistenza sociale è un settore che si è sviluppato in modo disorganico, insufficiente e farraginoso, e che è rimasto marginale e residuale, in termini sia di spesa sia di rilevanza nel dibattito politico. Già negli anni Settanta la responsabilità degli interventi era stata trasferita dal centro alle regioni e agli enti locali, ma senza l’elaborazione di una normativa generale che stabilisse principi guida o standard generali da rispettare. Ne era risultato un sistema allo stesso tempo pletorico e lacunoso, caratterizzato da una grande variabilità dei livelli, dei criteri di accesso, del grado di copertura delle prestazioni su base territoriale (Ferrera, 2006). Nel corso degli anni Novanta, con l’emergere di nuovi rischi e nuovi bisogni di protezione sociale, la necessità di potenziare e riformare il settore dell’assistenza diventa uno dei temi più rilevanti nell’agenda politica.

La riforma che viene approvata nel 2000, da un lato, accresce le competenze e stabilisce nuovi spazi d’azione per i comuni e gli enti locali; dall’altro, non fissando standard e criteri chiari di riferimento, porta alla luce nuove criticità: come venire a conoscenza dei bisogni dei cittadini utenti; come ordinarli secondo una scala di priorità (e quale); come aggregarli e selezionarli, tenendo conto dei vincoli di bilancio; come progettarne il soddisfacimento in assenza di standard di riferimento. È appunto in questo contesto caratterizzato da notevole incertezza, che, per far fronte alle criticità e ai rischi di fallimento che vi sono connessi, può emergere un interesse delle amministrazioni – specie di quelle meno dotate di risorse e competenze – a cercare, ma anche ad accettare, l’apporto di soggetti organizzati della società civile nell’impostazione dei nuovi compiti, in modo da aumentare la propria capacità di governo. Si tratta del resto di una opportunità prevista dalla legge di riforma, che apertamente parla dell’apporto di organizzazioni del terzo settore e di altri soggetti privati nella progettazione e realizzazione concertata degli interventi.

Occorre precisare inoltre che, a differenza di altri paesi, in Italia il modello di rappresentanza dei lavoratori che escono dalla condizione attiva è fondamentalmente di tipo sindacale. Rappresentare gli interessi dei pensionati è in questo caso compito di specifiche organizzazioni affiliate alle tre grandi confederazioni sindacali, Cgil, Cisl e Uil. Si tratta di organizzazioni con una propria autonomia organizzativa rispetto ai sindacati dei lavoratori attivi e con una propria strategia di rappresentanza. Essi si autodefiniscono “sindacati generali specifici” (Piu, 2000): generali perché rappresentano senza esclusioni e distinzioni di categoria i lavoratori che escono dalla condizione attiva, specifici perché questa rappresentanza trasversale è dedicata alla popolazione anziana, con aperture anche a chi non ha un passato lavorativo di tipo tradizionale. Colombo e Regalia rilevano che è proprio svincolando la possibilità di aderire al sindacato dalla storia lavorativa precedente che vengono poste le premesse per elaborare linee d’azione specializzate nella tutela e nei diritti degli anziani in quanto tali, secondo una logica fortemente universalistica e inclusiva. Si tratta inoltre di organizzazioni molto forti. Facendo leva sulla capacità di offrire agli iscritti, e più in generale ai cittadini, una ampia gamma, e a prezzi vantaggiosi, di servizi di informazione e assistenza in campo previdenziale, socio-sanitario, assistenziale, fiscale, assicurativo, e inoltre sulla capacità di organizzare spazi per attività culturali e ricreative e per occasioni di socialità, col tempo i sindacati dei pensionati hanno acquisito un seguito assai elevato tra gli anziani – in termini di iscrizioni e di contatti con quanti ne richiedono i servizi – e si sono diffusi molto capillarmente sul territorio (in comprensori, corrispondenti press’a poco alle province, e in leghe comunali, responsabili di uno o più comuni.

Alla luce del loro forte radicamento sociale, nonché della loro solida competenza in materie di tipo socio-assistenziale, non stupisce quindi che le amministrazioni locali possano individuare in queste organizzazioni quegli altri soggetti, autorevoli e rappresentativi di vaste aree della società civile, con cui può essere conveniente confrontarsi nell’attuazione delle politiche dell’assistenza sociale. Ma perché i sindacati decidano nel corso degli anni Novanta di dar vita alla nuova strategia della negoziazione sociale sul territorio? Alla base della nuova strategia si può individuare un forte ripensamento del ruolo che essi possono svolgere in un contesto socio-economico in trasformazione. Ma conta anche di più il nuovo modo di leggere le dinamiche dei mutamenti in corso, di cui si sottolineano le tendenze all’aumento dell’esclusione e dell’emarginazione sociale. La direzione che si intende intraprendere mira invece a rispondere ai bisogni sociali così come emergono sul territorio, ossia in una situazione locale data, attraverso il metodo di una contrattazione con le istituzioni delle politiche sociali, con l’obiettivo di promuovere maggiore democrazia e costruire una comunità locale basata sulla solidarietà. In questo modo si intende agire per «il riconoscimento pieno del diritto di cittadinanza ai pensionati e alle persone anziane, quando vengono a cessare i diritti sociali legati alla condizione di lavoro».

Conclusioni
Con riferimento alla logica dell’azione sindacale, l’orizzonte entro cui il sindacato si muove nella promozione del welfare locale, l’aspetto da sottolineare è che si tratta di un orizzonte che va oltre la logica del welfare di tipo occupazionale. Scegliendo di negoziare con le amministrazioni pubbliche sul territorio, il sindacato adotta di fatto un’ottica di tipo inclusivo, in cui si superano i divari tra chi è dentro, perché occupato o perché è stato comunque attivo sul mercato del lavoro, e chi vi rimane fuori, perché non lo è o non lo è stato, come invece avviene nel welfare occupazionale. Il sindacato opta per un’ottica universalistica, volta a far funzionare al meglio, a livello locale, l’intervento pubblico. Da questo punto di vista l’iniziativa si distanzia dalle recenti tendenze allo sviluppo di un nuovo welfare di tipo aziendale o contrattuale, che si presenta come aggiuntivo rispetto a quello di tipo pubblico, ha carattere occupazionale e per sua natura è esclusivo e selettivo. A differenza di queste tendenze recenti, si può pertanto dire che la negoziazione del welfare locale si sia ispirata alla promozione di diritti di cittadinanza.

Il negoziato è avvenuto direttamente con i comuni (o con enti pubblici di livello superiore) e si avvalso della finestra di opportunità costituita dalle loro accresciute competenze e responsabilità sul terreno delle politiche sociali. Rispetto all’esperienza generosa ma un po’ velleitaria di un tempo, quella attuale ha pertanto molte più possibilità di successo. Tanto più che l’obiettivo perseguito non è quello di rivendicare e cercare di attuare qualcosa di diverso rispetto a quanto previsto dai programmi pubblici di welfare: al contrario l’obiettivo è quello di agire, negoziando con le amministrazioni nella fase di formazione delle decisioni, per far funzionare al meglio i programmi di welfare pubblico in materia di politiche sociali.

Quali sono le implicazioni della logica di questo modello di intervento per l’azione sindacale? Colombo e Regalia ribadiscono che ciò che caratterizza questa esperienza è che il sindacato è legittimato a negoziare con le amministrazioni in quanto organizzazione che rappresenta domande e interessi (e non in quanto potenziale fornitore di servizi, come nel caso di associazioni del terzo settore). Quest’azione di incentivo, di stimolo al buon governo in un’ottica di giustizia, solidarietà e inclusione sociale è tanto più importante quanto più il quadro entro cui ci si muove è caratterizzato da risorse scarse e predefinite. In questo caso il ruolo del sindacato non è quello di rivendicare qualcosa di altro rispetto ai programmi del welfare pubblico: il suo ruolo è quello di influire, eventualmente in modo innovativo, sulle decisioni di utilizzo dell’ammontare di risorse disponibili per le politiche sociali, alla luce delle domande e dei bisogni della popolazione rappresentata.

In conclusione, il volume di Colombo e Regalia suggerisce che sia in atto un processo di istituzionalizzazione della policy. Ne sono un importante indicatore anche gli accordi quadro tra i sindacati e le associazioni lombarde degli enti locali che si sono raggiunti con una certa regolarità nell’ultimo decennio e in cui vengono definiti alcuni aspetti di tipo procedurale (i momenti più opportuni per il confronto) e di merito (le aree d’interesse comune su cui cercare l’intesa). La ricerca condotta spinge inoltre a riflettere e ad interrogarsi sulle difficoltà e sui problemi nuovi che si aprono quando il sindacato cerca di ridefinire in una nuova ottica, più inclusiva e universalistica, il proprio raggio d’azione, muovendosi oltre i luoghi di lavoro per affrontare i nuovi bisogni e i nuovi rischi che emergono nell’attuale contesto economico e sociale. Si tratta di nuove sfide che riguardano la logica di rappresentanza (a partire dall’individuazione dei rappresentati), il riconoscimento e la legittimità a agire (in esclusiva/assieme a altri), l’effettiva capacità di influenza e controllo. 

Principali riferimenti bibliografici sul tema

Ballarino G. (2009), “Tra concertazione istituzionalizzata e sperimentazione: la regolazione locale concertata delle nuove forme d’impiego in Lombardia”, in I. Regalia (a cura di), Regolare le nuove forme d’impiego. Esperimenti locali di flexicurity in Europa, Milano, Franco Angeli.
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Trentini M. (2003), “La negoziazione sociale del welfare locale. Un’analisi degli accordi in Lombardia”, in I. Regalia (a cura di), Negoziare i diritti di cittadinanza. Concertazione del welfare locale a tutela della popolazione anziana, Milano, Franco Angeli.

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