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La cosiddetta legge Biagi, approvata dal Parlamento esattamente dieci anni fa, ha segnato un punto di svolta decisivo per il mercato del lavoro italiano. Sulla scia di quella legge, è fortemente aumentata la flessibilità "in entrata", quella che riguarda le neo assunzioni. L’introduzione di nuove forme contrattuali (lavoro interinale, a progetto, a tempo parziale, nuovo apprendistato, contratto d’inserimento e altre ancora) ha aperto le porte delle imprese a un’intera generazione di giovani, che assai difficilmente avrebbero trovato un posto fisso. Fra il 2003 e il 2007 (l’ultimo anno prima della crisi) la disoccupazione giovanile scese di sei punti dal 26,3% al 20,3%. Molti dei neo assunti sono tuttavia finiti nella trappola delle "porte girevoli": rapide entrate e altrettanto rapide uscite. Invece di diventare più dinamico e omogeneo, il mercato del lavoro italiano si è "dualizzato", a tutto svantaggio delle fasce economicamente più vulnerabili.

La legge Biagi non può tuttavia essere additata come causa prima del precariato all’italiana. Quest’ultimo è figlio di molti padri, fra cui proprio la mancata realizzazione di alcuni pezzi fondamentali di quella legge. Marco Biagi aveva una formazione europea, il suo progetto era quello di avvicinare l’Italia al modello della flexicurity e dell’inclusione attiva tipico dei Paesi nordici. Le nuove forme contrattuali avrebbero dovuto essere accompagnate da un potenziamento dei servizi per l’impiego, da moderni ammortizzatori sociali di natura universale, da politiche volte ad accrescere la qualità del lavoro. E la flessibilità avrebbe dovuto riguardare tutti, intaccando rigidità e privilegi che esistevano solo in Italia. Se il mercato del lavoro italiano ha deragliato dai binari tracciati nel 2003, la colpa è delle riforme non fatte. Nelle sue raccomandazioni annuali del 2013, l’Unione Europea ha riproposto all’Italia un’agenda di cambiamenti che aggiorna, ma non rinnega il disegno delineato da Biagi già nel 2001.

Che cosa è andato storto? Possiamo cercare la risposta nel paragone con la Germania. Anche lì agli inizi degli anni duemila il mercato del lavoro funzionava male. E anche in quel Paese furono introdotte riforme di «rottura», imperniate sui principi della flexicurity. Proprio le cosiddette riforme Hartz hanno consentito alla Germania di accrescere il tasso di occupazione, di ristrutturare il sistema produttivo e attraversare quasi indenne la crisi finanziaria. Certo, come in Italia i giovani tedeschi (e non solo loro) si devono rassegnare a una fase più o meno lunga di occupazione "a-tipica", mal retribuita. Ma gli ammortizzatori sociali proteggono bene e soprattutto esistono programmi che facilitano il ricollocamento quando si perde il lavoro. L’assicurazione contro la disoccupazione e i servizi per l’impiego sono stati riformati in contemporanea ai provvedimenti sulla flessibilità, realizzando tutti i tasselli previsti dalla Commissione Hartz.

Artefice del rinnovamento tedesco è stato il governo di coalizione rosso-verde guidato da Helmut Schroeder. E con ciò arriviamo alle vera risposta sui fallimenti italiani. La Germania ha un sistema politico stabile e bene attrezzato dal punto di vista degli strumenti istituzionali; una cultura di governo al tempo stesso pragmatica e capace di elaborazione strategica; una sinistra che si è precocemente convertita al neo riformismo sui temi economico-sociali, abbandonando al proprio destino nostalgici e radicali. Certo, anche Angela Merkel ci ha messo del suo nel perfezionare il quadro a riforme fatte. E ha contato molto anche la disponibilità e la responsabilità delle parti sociali. Ma senza la leadership del modernizzatore Schroeder forse la Germania sarebbe ancora il malato d’Europa, come si diceva quindici anni fa.

La riforma Fornero del 2012 ha cercato di rimediare alle lacune di realizzazione e ad alcuni specifici errori di disegno dell’impalcatura Biagi. Il suo principale merito è di aver finalmente avviato una riforma in senso europeo degli ammortizzatori sociali con la cosiddetta Aspi. Sul fronte delle tipologie contrattuali, alcune delle innovazioni introdotte da Elsa Fornero si sono però rivelate inefficaci se non dannose. Sui servizi per l’impiego il ritardo italiano è poi ancora enorme.

Ora che la crisi di governo è stata scongiurata, il governo Letta deve riavviare il cantiere delle riforme. Per usare una metafora cara al Presidente del Consiglio, alcune cose si potranno fare con il cacciavite (e con sperimentazioni volontarie, come da tempo propone Pietro Ichino). Ma per realizzare una «società attiva», basata su un «lavoro di qualità» (i sottotitoli del Libro Bianco di Biagi) serve una cassetta degli attrezzi ben fornita. E soprattutto servono concentrazione su problemi seri, scelte coraggiose e leadership politica.

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 10 ottobre 2013

 

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