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Una delle cause principali delle crescenti disuguaglianze e della difficoltà di alimentare uno sviluppo sostenibile è l’incapacità di superare nel nostro Paese il dualismo fra la sfera dell’Economia e la sfera del Civile. La persistenza dei divari regionali nell’Italia del periodo post-unitario è evidenziata da una molteplicità di studi che fornisce un quadro esauriente dell’evoluzione dei tanti dualismi tra Centro-Nord e Sud: dualismo economico (in termini di livelli di reddito pro-capite, ricchezza delle famiglie, stato delle infrastrutture); dualismo sociale (speranza di vita, livelli di istruzione, servizi sanitari, sicurezza, giustizia sociale); dualismo civile (in termini di partecipazione democratica, natura dei processi politici, tasso di imprenditorialità, vitalità delle organizzazioni delle società civile). 

Tuttavia, l’imponente lavoro di ricerca finora svolto, mentre è valso a fissare correlazioni di grande interesse conoscitivo tra le tante variabili in gioco, non è (ancora) riuscito a rintracciare credibili nessi di causalità tra le stesse. Due sono i paradigmi interpretativi a tutt’oggi dominanti. Per un verso, quello secondo cui sarebbe lo sviluppo economico a porre le premesse e a sostenere lo sviluppo sociale e civile di un territorio; per l’altro verso, il paradigma opposto che vuole che sia lo sviluppo civile a generare quelle aspettative e a determinare quei comportamenti degli individui che conducono poi, nel corso del tempo, allo sviluppo economico. Per chi si riconosce nella prima posizione, il Mezzogiorno sarebbe rimasto indietro perché la bassa crescita del prodotto non avrebbe consentito un livello di accumulazione del capitale, fisico e umano, sufficiente per stabilizzare norme sociali e comportamenti virtuosi. Ciò spiegherebbe anche perché i divari sociali e civili tra Centro-Nord e Sud sono ancora oggi più accentuati dei divari economici.

Quindi, se si vuole che lo sviluppo economico sia leva per lo sviluppo sociale e civile, occorre che marci a ritmi più sostenuti, anche con interventi di policy dall’esterno. Per l’altra linea di pensiero, invece, sarebbe vero il nesso causale opposto: è la scarsa dotazione di capitale civile, l’insieme cioè di capitale sociale e capitale istituzionale, a fare in modo che le risorse naturali, fisiche e finanziarie, pur affluite in abbondanza al Sud nel corso degli ultimi centocinquant’anni, non siano riuscite ad innescare il circolo virtuoso della crescita di lungo periodo. Come si sottolinea in un testo di Piero Cipollone redatto per la Banca d’Italia “Il ritardo dello sviluppo del Mezzogiorno (…) è soprattutto non economico. È nei servizi essenziali per i cittadini e per le imprese che i divari territoriali appaiono particolarmente marcati”. Ora, dato che il basso livello di capitale civile del Mezzogiorno è un’eredità della storia degli ultimi cinque/sei secoli, l’implicazione di policy che ne deriva è che continuare ad immettere risorse produttive in tali regioni è come trasportare acqua con un secchio bucato. Dunque ci vuole pazienza e attendere che l’evoluzione culturale svolga il suo compito, quello di modificare endogenamente le tradizioni sociali e le mappe cognitive delle persone. È in ciò il fondamento delle varie posizioni neo-conservatrici.

Tuttavia, non essendovi analisi che dimostrino quali dei due paradigmi interpreti più fedelmente la realtà italiana, si deve ricorrere all’indagine teorica. Ebbene, la tesi che in questa sede viene avanzata è che sia giunto il momento di dilatare il quadro concettuale di riferimento. Questo, infatti, si è finora limitato a considerare due soli pilastri dell’ordine sociale: lo Stato, inteso come l’insieme composito delle pubbliche istituzioni, e il mercato, concepito come luogo economico occupato esclusivamente da soggetti che perseguono fini individualistici. È mancata, cioè, la considerazione del terzo pilastro, quello della società civile che si organizza in maniera acconcia per svolgere compiti prettamente economici ma con una logica diversa da quella capitalistica. È bensì vero – si dice – che nessuno ha mai negato la rilevanza della società civile, ma a questa è sempre stata riconosciuta una valenza solo sociale e/o culturale. Mai è stata ad essa attribuita anche una piena soggettività economica. La nostra tesi è allora che quel che è mancato (e manca) al Sud, rispetto al Centro-Nord, è una vitale economia civile. Occorre dunque avere il coraggio di proclamare che reddito e ricchezza non sono generati solamente dal mercato capitalistico e dallo stato imprenditore (o dalla pubblica amministrazione).

Immediata l’implicazione di policy che discende dall’accettazione di una tesi del genere: la politica, anziché reprimere e soffocare, come finora ha fatto, i vari tentativi di far fiorire l’economia civile soprattutto al Mezzogiorno, deve intervenire sull’assetto istituzionale per modificare le regole del gioco economico così da consentirne il pieno sviluppo. Di queste e altre questioni si parlerà ampiamente nell’ormai immenente XIV edizione delle Giornate di Bertinoro per l’Economia Civile, quest’anno dedicate al tema "Dal dualismo alla co-produzione".


Riferimenti

S. Zamagni, "È tempo di Economia Civile? Come ridurre i divari regionali in Italia", AICCON, 2014

P. Cipollone, "L’istruzione" In Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia, Banca d’Italia, 2010


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