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Welfare aziendale, un vantaggio per tutti

L’Italia si trova ad affrontare, come del resto tutti i paesi industrializzati, da una parte il problema della difficile conciliazione fra l’esigenza di contenere la spesa pubblica e di rendere sostenibile il sistema di welfare pubblico e dall’altra quella di tutelare i nuovi e maggiori rischi che derivano dall’invecchiamento della popolazione, dall’aumento delle spese sanitarie e dalla maggiore mobilità e flessibilità del mercato del lavoro.

Rischiano così di rimanere scoperti i bisogni di protezione sociale delle categorie più deboli come gli anziani, le donne, i giovani, i disabili e i lavoratori flessibili, che possono contare sempre meno sulla disponibilità di risorse pubbliche e che rischiano maggiormente di cadere sotto la soglia di povertà. Anche il tentativo di trasferire risorse tra le voci maggiormente finanziate della spesa per la protezione sociale (pensioni e sanità) a quelle dotate di meno risorse (politiche per il lavoro, la famiglia, i bambini, la casa e l’esclusione sociale) è venuto meno sotto la scure degli obblighi ineludibili del pareggio di bilancio.

Per far fronte a queste difficoltà obiettive, aggravate nel nostro paese da una base di contribuenti attivi inferiore alla media europea, si diffondono iniziative che mobilitano risorse private per far fronte alle nuove e maggiori aspettative, prefigurando così un secondo welfare che si affianchi in maniera sussidiaria a quello pubblico, coinvolgendo attori economici e sociali quali imprese, sindacati, fondazioni, assicurazioni, il terzo settore e gli enti locali. Una delle componenti di questo secondo pilastro della protezione sociale è il welfare aziendale che può farsi carico di una serie di bisogni dei lavoratori che non possono essere soddisfatti dal welfare pubblico, che vanno dalla difficoltà di conciliazione fra responsabilità lavorative e familiari al sostegno del potere d’acquisto dei lavoratori più svantaggiati o con molte persone a carico.

Le esperienze di welfare aziendale in Italia sono ancora limitate, coinvolgono quasi esclusivamente le grandi imprese e sono fortemente radicate solo in alcune realtà territoriali, ma occorre riconoscere che il dibattito sulla necessità di implementarle in modo più diffuso ha iniziato a coinvolgere una buona parte degli attori economici, dei responsabili delle risorse umane e delle associazioni di categoria e sindacali. Il Ministero del Lavoro tra l’altro, attraverso il progetto La Femme, da alcuni anni promuove l’introduzione del welfare aziendale anche nelle piccole e medie imprese, con risultati soddisfacenti e, in un’ottica legata alla condivisione fra azienda, parti sociali e lavoratori, di soluzioni organizzative innovative e più flessibili in tema di orario di lavoro e di miglioramento delle performance anche per recuperare risorse economiche da redistribuire ai lavoratori.

Aziende come Luxottica, Barilla, Ferrero, Bracco, Tetrapak e poche altre hanno aperto la strada a una concezione più matura, strutturata e consapevole del welfare aziendale sulla base del presupposto che lavoratori più contenti delle condizioni di lavoro, del clima aziendale e meno stressati dalle difficoltà quotidiane di conciliare il lavoro con la maternità, dalla cura dei figli, dal costo della loro istruzione, più motivati dall’attenzione che l’impresa rivolge alla loro formazione, sono più produttivi, meno assenteisti e maggiormente coinvolti nel buon successo dell’impresa.
Inoltre, dopo l’accordo Interconfederale siglato da Confindustria e Sindacati nell’aprile 2009, una buona parte dei contratti nazionali introducono per la prima volta il tema del welfare aziendale.

Il “modello Luxottica” di welfare aziendale è stato successivamente perfezionato, per divenire una metodologia progettuale più standardizzata che inizia a essere applicata in modo più diffuso nel sistema produttivo italiano, almeno in quella parte costituita da imprese che fondano il loro business sulla qualità delle risorse umane e dei beni o servizi che offrono al mercato, sull’innovazione e sulla capacità di trattenere i loro talenti. L’esperienza di Luxottica e di altre imprese, inoltre, ha consentito di superare il vecchio modello di welfare aziendale come misura liberale e unilaterale del “buon datore di lavoro" trasformandolo in uno strumento di contrattazione aziendale nel quale si realizza uno scambio virtuoso fra miglioramento del benessere e del reddito dei lavoratori e una maggiore efficienza produttiva dell’impresa, la riduzione dell’assenteismo e la migliore qualità dei prodotti.

Attraverso il welfare aziendale si remunerano gli aumenti retributivi pagati in benefit con incrementi misurabili della produttività o di riduzione dei costi della “non qualità” come in Luxottica, senza un eccessivo impatto sul costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP), facendo fronte nel contempo a nuovi bisogni che il welfare pubblico non può garantire.

Infatti uno dei vantaggi del welfare aziendale è di offrire al dipendente, a parità di costo per l’azienda, un valore superiore di beni e servizi. Un aumento retributivo tradizionale si traduce per il dipendente in un reddito netto pari circa al 50% del lordo ricevuto (100 euro di incremento del lordo in busta paga determinano circa 50 euro netti per il dipendente a causa del cuneo fiscale e contributivo che in Italia nel 2010 è pari al 46,9% del costo del lavoro , nonché un costo azienda di quasi 140 euro) (OECD 2010).

Inoltre, quasi tutte le misure di welfare erogate nel rispetto del quadro normativo vigente consentono la completa deducibilità dei costi per l’azienda e non concorrono alla formazione di reddito di lavoro per il dipendente anche se il programma viene reiterato nel tempo.

Di conseguenza il welfare aziendale consente di raggiungere tre obiettivi:

  1. aumentare la retribuzione reale dei lavoratori senza incidere sul costo del lavoro per unità di prodotto perché incrementa la produttività e cioè il valore aggiunto aziendale per ora lavorata;
  2. migliorare il clima aziendale, il benessere dei lavoratori e il loro potere d’acquisto attraverso le misure da loro maggiormente apprezzate e che hanno maggiore efficacia incentivante producendo come ricaduta misurabile la riduzione dell’assenteismo e dei costi d’inefficienza;
  3. ottimizzare l’impatto fiscale e contributivo del compenso non monetario sia per i lavoratori che per l’impresa.

A proposito dell’ultimo punto, già alcuni contratti hanno previsto l’utilizzo del welfare aziendale a complemento della detassazione dei premi di produttività introducendo un benefit pari alla quota del premio di produttività non detassabile e non soggetta allo sgravio contributivo .

Tenendo conto della struttura del sistema produttivo italiano, costituito in prevalenza da micro e piccole imprese, molto modeste sono le quote di lavoratori dipendenti che ricevono misure dirette di welfare aziendale. Solo i buoni pasti sono ricevuti dal 17,6% dei lavoratori, le mense aziendali dall’8,4%, ma per le spese sanitarie si scende al 2,3% e solo lo 0,4% riceve il rimborso per l’asilo nido o altri servizi di cura. Rispetto a questo ultimo aspetto inoltre non va sottovalutata l’incidenza sui costi delle famiglie dei servizi di cura, tanto da indurre spesso, soprattutto le donne, a rinunciare al lavoro perché i servizi, quando ci sono, hanno un costo elevato.

 

Come aggiornare le agevolazioni fiscali in materia di welfare aziendale? Alcune proposte di cambiamento

Ovviamente le misure di welfare aziendale sono appetibili per le aziende e per i lavoratori perché possono beneficiare di tutte le agevolazioni fiscali previste dagli articoli 51 e 100 del TUIR, senza le quali non sarebbero più vantaggiose rispetto agli aumenti retributivi.

Il testo degli articoli del TUIR risale al 1986 e richiederebbe alcune modifiche. Registriamo inoltre, anche una serie incertezze che spingono i datori di lavoro ad essere cauti e rendono il welfare aziendale ancora poco sviluppato soprattutto nelle piccole e medie aziende.

Il rimando dell’art. 51, comma 2, lett. f) del TUIR al comma 1 dell’articolo 100, prevede che le condizioni di vantaggio fiscale per l’utilizzazione delle opere e dei servizi di utilità sociale debbano essere sostenute volontariamente dal datore di lavoro. Questo fa sì che, assurdamente, il vantaggio fiscale venga meno se il beneficio è contemplato da un accordo collettivo. In tal senso si è espressa la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 34/E del 10.3.2004 che ha creato un legame indissolubile tra l’articolo citato (art. 51, comma 2, lett. F) ed il comma 1 dell’articolo 100 del TUIR, considerando non imponibili solo i beni e i servizi che vengono erogati come liberalità ai dipendenti. Questa interpretazione impedisce, in sostanza, l’inserimento di questi benefit all’interno della contrattazione di secondo livello, andando a penalizzare inspiegabilmente il dipendente.

Probabilmente la finalità ricreativa, contenuta nel comma 1 dell’articolo 100 del TUIR, ha portato l’agenzia delle Entrate a questa interpretazione. Basterebbe togliere i riferimenti alle attività ricreative contenute nel comma 1 dell’articolo 100. Slegare le due norme infine, eliminerebbe anche il limite di deducibilità di questi benefit dal reddito di impresa (massimo 5 per mille del costo del lavoro), limite che andrebbe comunque elevato al fine di incentivare maggiormente le imprese a erogare queste misure di welfare aziendale. Ciò inoltre si pone in stridente contraddizione con le previsioni in materia di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa per le quali, al contrario, la contrattazione collettiva è il requisito indispensabile per ottenere il vantaggio fiscale.

L’art. 51, comma 2, lettera D, non prevede l’agevolazione sul trasporto pubblico locale, ma solo per le navette private. In questo modo si disincentiva il trasporto pubblico che ha un impatto negativo minore nei confronti dell’ambiente. Inoltre sono attive in alcune città d’Italia forme di abbonamento con due tratte giornaliere (casa–lavoro) per cinque giorni la settimana e i nuovi sistemi di controllo di gran parte del trasporto pubblico consentono di attivare forme di abbonamento che possono limitare, se non addirittura escludere forme di elusione, senza pensare che il costo del trasporto pubblico è minore di quello delle navette.

Un’altra modifica potrebbe riguardare l’interpretazione data dall’agenzia delle entrate del 2010 (risoluzione 46/E del 2010). L’agenzia ha individuato un iter per poter rimborsare una quota degli interessi passivi sui prestiti contratti dai dipendenti anche con terzi e non solo con l’azienda. Tale iter procedurale risulta concretamente inapplicabile per tutte le aziende che non si appoggiano ad un provider esterno per gestire il servizio, che è molto oneroso e complicato. Si potrebbe inoltre prevedere un criterio di calcolo più semplice, che eviti per il sostituto d’imposta tutti i calcoli inerenti lo spread tra il tasso effettivamente rimasto a carico del dipendente, al netto del contributo aziendale, ed il TUS di fine anno.

Una riflessione infine dovrebbe riguardare, più in generale, l’uso della leva fiscale per sviluppare maggiormente, anche in Italia, il settore dei servizi di cura (white jobs) che ha un potenziale di occupazione molto alto. Secondo i dati a nostra disposizione (CENSIS 2011) il numero effettivo di collaboratori che prestano la loro attività presso le famiglie è passato da poco più di un milione nel 2001 agli attuali 1 milione 655 mila (+53%), con una forte componente straniera, e la crescita della domanda porterà il numero degli attuali collaboratori a 2 milioni 151 mila nel 2030, determinando un fabbisogno complessivo di circa 500 mila unità. Questi costi ad oggi gravano quasi interamente sui bilanci familiari: una spesa di 667 euro al mese e solo il 31,4% riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico che si configura per i più nell’assegno di accompagnamento (19,9%).

Anche il welfare aziendale può contribuire in maniera diretta e indiretta al sostegno dei costi di questi servizi e alla creazione di posti di lavoro. Le aziende infatti sono un pilastro importante per la creazione di domanda qualificata in questo settore insieme alle famiglie e agli enti locali. E’ inoltre evidente che la richiesta di servizi tende ad aumentare allorquando più donne entrano e permangono nel mercato del lavoro. Per questo l’adozione di modelli flessibili di organizzazione del lavoro collegata a contributi per sostenere i costi dei servizi è forse la cosa più importante da tenere in considerazione per una prospettiva di crescita dell’occupazione femminile nel nostro Paese.

Al riguardo vi sono modelli interessanti in uso in altri paesi europei e tra questi quello a cui guardare con interesse è quello francese dei Chèque emploi service universel (CESU) che utilizza i voucher defiscalizzati per aiutare famiglie, imprese ed enti locali a sviluppare i servizi e a sostenere i costi, con effetti importanti sull’emersione del lavoro nero oltre che sull’occpuazione.

 

Riferimenti

OECD, Taxing Wages: Country note for Italy, 2010.

La.Fem.Me

Chèque emploi service universel

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